In ricordo
di Riccardo Faini, scomparso pochi giorni fa, pubblichiamo
un’intervista apparsa su Reset n.87, gennaio-febbraio
2005.
Il tema del declino economico e dell’impoverimento
è uno degli argomenti cruciali di cui lei si
occupa: in numerose classifiche l’Italia è
scivolata verso posizioni più basse. Da quali
indicatori è possibile desumere questa situazione
negativa?
Gli indicatori sono principalmente tre. Il primo è
il rallentamento della crescita del reddito pro capite:
in un mio articolo, ho evidenziato come i dati Eurostat
mostrassero che questo rallentamento non fosse poi così
forte, mentre, stando agli ultimi dati, in quattro anni,
abbiamo perso ben 5 punti percentuali rispetto alla
media europea. Il secondo indicatore è la perdita
di quote sui mercati internazionali – si tratta
di un indicatore di difficile interpretazione che dipende
in maniera molto evidente dall’andamento del dollaro:
oggi stiamo assistendo, infatti, a una tendenza –
già rilevata in precedenza – che vede il
mercato internazionale italiano soffrire della debolezza
del dollaro proprio mentre in altri paesi, come la Germania
o la Francia, si guadagnano nuove quote di mercato.
L’indicatore più preoccupante resta, comunque,
quello del tasso di crescita della produttività
che è ormai fermo da parecchi anni e che in Italia
ha subito un rallentamento molto più marcato
che negli altri paesi. Non si tratta, infatti, di un
fenomeno europeo ma di un fenomeno che ha nel nostro
paese una sua forza specifica e che finirà inevitabilmente
per determinare il progresso del benessere economico
italiano nei prossimi anni: se la produttività
non crescerà, è ovvio che né i
salari né i profitti potranno crescere e che
l’economia ristagnerà.
Che cosa intende specificamente per produttività?
Produttività significa anche numero di ore di
lavoro?
No, parlo di produttività per ora lavorata e,
quindi, di quantità della produzione; il numero
di ore di lavoro rientra, invece, nel calcolo del reddito
per persona. C’è da dire che in Italia
le ore di lavoro non sono inferiori a quelle degli altri
paesi europei, i quali tuttavia lavorano molto meno
rispetto agli Stati Uniti.
Quindi è la qualità del nostro
lavoro che è più bassa?
Esatto: la qualità del lavoro si sta abbassando
ed è questo sicuramente il segnale più
preoccupante. Per tanti anni infatti abbiamo avuto poca
occupazione, ma un tasso di produttività molto
alto: i salari crescevano ma gli occupati erano pochi.
Negli ultimi anni l’Europa è cambiata molto:
a lavorare oggi sono molte più persone. In Italia
soprattutto, questo cambiamento ha peggiorato la produttività.
È per questo motivo che nel nostro paese ci troviamo
di fronte a un dilemma più forte che nel resto
d’Europa: da un lato ci sono salari decenti e
in crescita ma poca occupazione, mentre, dall’altro,
c’è un’occupazione in crescita ma
i salari ristagnano. Se guardiamo ai dati sull’andamento
dei salari per categorie, colpisce il fatto che a perdere
potere d’acquisto siano stati soprattutto operai
e impiegati mentre, al contrario, pensionati e lavoratori
autonomi ne hanno guadagnato. Ciò significa che
le classi produttive – se così vogliamo
chiamarle – si sono impoverite, in un contesto
in cui il salario medio è rimasto fermo. Si tratta
di un arretramento strutturale.
La Germania ha un elevato costo del lavoro
e una rigidità del mercato del lavoro simile
alla nostra, eppure le sue quote di mercato internazionale
sono più alte, così come la sua produttività.
Cosa non ha funzionato in Italia?
La Germania ha fatto quello che noi non siamo riusciti
a fare. Vanno considerati, in particolare, due aspetti:
sul piano della divisione internazionale del lavoro,
la Germania è meglio posizionata rispetto all’Italia:
infatti, ciò che la Germania produce è
ancora vendibile; in secondo luogo, nonostante le rigidità
del proprio mercato, la Germania è riuscita a
fronteggiare meglio il problema della globalizzazione,
e questo per tante ragioni: le imprese tedesche si sono
mosse più di quelle italiane, sono andate all’estero
trasferendo quelle produzioni che non avevano più
un vantaggio competitivo in Germania e sono, quindi,
riuscite a mantenersi in uno stato di salute decente;
la scelta, poi, di concentrarsi su prodotti ad alta
e media tecnologia ha permesso loro di rispondere meglio
alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo. Per quarant’anni,
invece, l’Italia si è aperta agli scambi
e al commercio internazionale limitando però
la propria apertura ai paesi industrializzati e mantenendo,
all’interno del mondo industrializzato, una posizione
– in cui all’epoca aveva pochi concorrenti
– che puntava sulle produzioni tradizionali, non
ad alta tecnologia. Negli ultimi dieci anni il mondo
si è aperto: sul mercato mondiale si sono fatte
strada nazioni come la Cina, l’India, l’Indonesia
e a soffrire di più della loro concorrenza è
un paese come il nostro: posizionato nella divisione
internazionale del lavoro sulla bassa tecnologia, a
bassa intensità di capitale umano. Quando dico
che l’importante oggi per l’Italia è
investire in capitale umano è proprio perché
è l’unico modo che abbiamo – costoso,
complicato, di lungo periodo – per far fronte
alla nuova situazione dell’economia mondiale.
In altri termini, fare concorrenza alla Cina sul piano
dei salari è impensabile: semplicemente non possiamo.
Per bassa intensità di capitale umano
intende una manodopera di qualificazione più
bassa che, quindi, costa meno?
Esattamente. Questo ci porta a produrre beni che richiedono
meno manodopera altamente qualificata e che, quindi,
si collocano nei settori tradizionali. Ci salviamo con
il gusto e con il design ma si tratta di palliativi
perché, prima o poi, la Cina e l’India
sapranno farci concorrenza anche lì.
Non pensa che in questi campi abbiamo un valore
esclusivo, ineguagliabile?
Non a lungo. Per adesso lo abbiamo perché abbiamo
delle tradizioni artigianali e possiamo contare sulla
capacità dell’artigiano di creare un prodotto
su misura del cliente: ma non conserveremo questo vantaggio
a lungo.
Nella preoccupante diagnosi che lei sta delineando
non ha ancora parlato della questione della pubblica
amministrazione.
Volevo evitare di recitare la litania del declino: l’amministrazione
inefficiente, la mancanza di infrastrutture, le difficoltà
per creare un’impresa, la mancanza di riforme
per la concorrenza, le carenze degli investimenti in
ricerca e sviluppo. Sono cose che sappiamo. Volevo insistere
su una causa più profonda: siamo un popolo fondamentalmente
ignorante. Abbiamo pochi universitari – per i
quali spendiamo relativamente meno di quanto avvenga
negli altri paesi – e quei pochi che abbiamo,
e che arrivano alla laurea, non sono poi a un livello
eccelso.
Siamo ignoranti: questo è un punto capitale.
Osservando le statistiche dei Paesi Ocse relative al
dopoguerra, balza subito agli occhi l’impressionante
risalita della Corea del Sud, che oggi ha raggiunto
uno standard simile a quello americano, pur partendo
da posizioni molto più arretrate delle nostre.
Come si fa a muovere una scalata del genere? Quali fattori
culturali possono innescarla?
Potrei citarle un ricordo: quando ero uno studente
del Mit, il Mit era popolato da studenti coreani, proprio
come oggi è popolato da studenti cinesi. Credo
che la differenza sostanziale che divide la scalata
coreana dalla battuta d’arresto dell’Italia
sia nella mancanza di incentivi: gli italiani che hanno
compiuto i propri studi all’estero non sono incentivati
a tornare. E qui entra in gioco nuovamente il disastroso
problema del sistema universitario italiano. Con un
sistema industriale che non è riuscito a generare
una domanda di capitale umano qualificato, infatti,
l’Italia si trova in una sorta di circolo vizioso:
il sistema industriale non si sposta verso produzioni
ad alta tecnologia perché mancano le risorse
umane, e le risorse umane non si creano perché
manca la domanda da parte del settore industriale e
da parte dell’università. Il grande progetto
dovrebbe essere la rottura di questo circolo vizioso,
rottura che può realizzarsi rafforzando il sistema
di istruzione a partire dalla scuola media superiore
e attuando politiche non settoriali, ma orizzontali
di sostegno reale alla ricerca. Oggi la ricerca è
incredibilmente sotto-finanziata.
Come andrebbero spesi, perché siano
efficaci, gli investimenti pubblici per la ricerca?
Probabilmente lo strumento più semplice e più
efficace è quello dello sgravio fiscale perché
ha un carattere di automaticità e non discrezionalità
che lo rende più trasparente. Ma va pure considerata
la necessità che sia un provvedimento permanente:
la tecno-Tremonti, da questo punto di vista, è
stata inutile perché nessuna impresa si lancerà
mai in un programma pluriennale di investimenti nella
ricerca in base a uno schema fiscale che prevede una
riduzione una tantum. È necessario, invece, dare
alle imprese la certezza di un quadro incentivante di
medio-lungo periodo, ovvero di una riduzione sostanziale,
ben finanziata e pluriennale. Bisognerebbe, poi, evitare
situazioni in cui sia un burocrate del ministero a decidere
quale settore sia più meritevole: deve essere
il mercato a decidere. Il governo potrebbe comunque
incentivare la creazione di consorzi, soprattutto per
piccole e medie imprese.
Sembrerebbe che, rispetto al problema della
costruzione di un programma che riguardi la cosiddetta
“missione italiana” nel mondo, lei tenda
a ridimensionare quell’intreccio di beni culturali,
gusto, design e prodotti tipici che è, in realtà,
un fattore di grande influenza sulla nostra economia.
Si tratta di risorse importanti che vanno difese e,
a questo proposito, credo che il lavoro che viene svolto
in questo senso nelle sedi internazionali debba essere
continuato e rafforzato. Ci sono molti altri prodotti,
però, che non usufruiscono dei vantaggi legati
al marchio: molte piccole e medie imprese lavorano su
commissione e creano prodotti pregevolissimi i quali
restano, tuttavia, senza marchio. Alcune proposte di
legge, che sono già state avanzate e che giacciono
in parlamento, propongono di favorire, anche attraverso
degli strumenti fiscali, consorzi di imprese che consentano
alle aziende di associarsi sia per poter affrontare
i mercati esteri, sia per ottenere una protezione di
marchio e di brevetti.
Dal punto di vista dei beni più propriamente
culturali, abbiamo un patrimonio di indiscutibile valore
che va da Pompei agli Uffizi. Si potrebbe calcolare
il valore potenziale che questi beni assumono oggi che
centinaia di milioni di persone con reddito medio alto
– una quantità impensabile solo vent’anni
fa – possono permettersi un viaggio in Italia?
Ci sono trecento milioni di persone con reddito medio
alto in Cina e altrettante in India. La cosa dovrebbe
farci riflettere: esistono molti modi per attirare queste
persone in Italia. Se pensiamo solo a come la Spagna
meridionale sia riuscita a integrare il turismo medio-alto
con il turismo culturale possiamo trarne un’utile
lezione perché anche in Italia si può
trovare il modo. Eppure, di nuovo, da buon ex-marxista,
suggerirei di guardare alla struttura e la struttura
è quella di un popolo che è ancora poco
educato rispetto ai suoi concorrenti. Un popolo meglio
educato riuscirà a trovare nuove strategie di
investimento che permetteranno all’Italia di posizionarsi
meglio nel processo di internazionalizzazione. È
questa la cosa fondamentale.
Si può essere competitivi anche nelle
industrie alimentari, nel baby food o nei surgelati:
tuttavia nel nostro paese queste industrie, che potevano
essere collegate al marchio italiano e avevano una buona
base di partenza sono state trascurate. Come mai? Perché
ci manca la forza di penetrare nei mercati stranieri?
Anche questo dipende dall’università?
Non solo. Ritengo che il problema dell’istruzione
nasca già con la scuola media superiore. Alcuni
licei possono anche essere decorosi, ma in generale
l’istruzione italiana versa in uno stato piuttosto
disastrato. Tra l’altro, la riforma Moratti, va,
a mio parere, nella direzione opposta a quella auspicabile:
di fronte a un mondo in continuo cambiamento, non è
opportuno obbligare la gente a scegliere da subito il
proprio mestiere, sarebbe necessario, invece, garantire
una preparazione generale con delle basi di conoscenza
globale che permettano di adattarsi con flessibilità
ai cambiamenti dell’economia mondiale. La scuola
dovrebbe offrire flessibilità mentale, non una
preparazione specifica, che verrà, comunque,
offerta successivamente dalle imprese e che rischia,
a lungo andare, di risultare obsoleta. Anche il sistema
scolastico tedesco dovrà affrontare questo problema,
mentre se guardiamo al modello americano, in questo
caso, la scelta viene ritardata all’inizio dell’università
e la scuola fornisce una preparazione molto generale
e molto flessibile.
Qual è allora la direzione principale
di cambiamento da introdurre nell’università?
L’università ha bisogno di riformare radicalmente
i sistemi di reclutamento successivi. Le università
devono differenziarsi, devono essere in grado di chiamare
le persone migliori, non sulla base di un sistema di
controlli ma sulla base di un sistema di incentivi.
Il primo passo da compiere sarebbe l’abolizione
del valore legale del titolo di studio. A quel punto
le università potrebbero presentarsi sul mercato
e gli studenti potrebbero scegliere l’università
che offre loro un prodotto migliore. Questo incentiverebbe
le università a chiamare a collaborare i docenti
migliori e, semmai, a remunerarli in maniera diversa
sulla base del contributo che essi offrono all’università.
Penso, poi, che si potrebbe lasciare alle università
migliori, e a quelle che lo volessero, la possibilità
– e questa è una proposta di Nicola Rossi
e Gianni Toniolo su «Italiani Europei» –
di trasformarsi in fondazioni che competano sul mercato
per i migliori docenti e i migliori studenti, offrendo
la migliore preparazione. Anche l’educazione oggi
è un mercato e come tale va trattata, perché
trattarla come uno strumento protetto non è servito,
anzi ha fatto sì che il sistema italiano arretrasse
rispetto al resto del mondo.
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