313 - 19.01.07


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Il coraggio di mediare
tra culture e differenze

Franco Cassano con
Mauro Buonocore


Le parole di Franco Cassano, docente di Sociologia della Conoscenza all’università di Bari, suonano come un incitamento. “Avanti Europa – sembra dire il professore – prendi coraggio, assumiti le tue responsabilità e metti in pratica quello che sai fare veramente, traduci in fatti la vocazione che la tua storia e la tua cultura ti hanno lasciato in eredità: disinnesca il conflitto di civiltà, fatti interfaccia di culture, imponiti come ipotesi di un equilibrio che manca e di cui si sente un gran bisogno”. mediare

Professore, che Unione europea vorrebbe per il 2007?

Mi piacerebbe che l’Unione europea, dopo essere stata mandata al tappeto dai referendum, trovasse la forza per rialzarsi. Ma deve farlo in fretta, perché il mondo non starà ad aspettarla all’infinito. Mi ha colpito la sua remissività sulla questione libanese, nella quale si è impegnata in ritardo, e solo trainata dall’Italia. Ora, se fa piacere che il nostro paese abbia ricominciato ad assaggiare il gusto di fare la storia, non si può non rimanere colpiti dalla passività che ha contrassegnato, almeno all’inizio, l’atteggiamento degli altri paesi europei.
L’impressione è quella di una sorta di torpore, di un galleggiare prudente per evitare di farsi male, ma questo piccolo cabotaggio è del tutto inadeguato ai tempi, drammaticamente ineguale rispetto al ruolo internazionale che l’Unione dovrebbe avere.
Il mondo ha bisogno di un ruolo attivo dell’Europa, di un’idea di Occidente diversa da quella impersonata dagli Stati Uniti, e oggi più che mai dopo il disastro irakeno. Il primo regalo sarebbe quello di vedere che l’Unione è capace di rialzarsi e di ricominciare. Ma per far questo è necessario il coraggio: nessun problema si risolve senza qualche rischio. Robert Kagan irride il pacifismo dell’Europa in nome dello spirito virile e guerriero degli Stati Uniti. Ora è proprio il caso di replicare a Kagan che del suo spirito guerriero sono piene le fosse comuni della storia, anche quelle irakene. Ma in quell’obiezione c’è anche un fondo di verità: non si fa una storia nuova e non si costruisce un rapporto pacifico tra i popoli senza rischiare. Per poter svolgere un ruolo attivo e costruttivo l’Europa deve smettere di sentirsi “postuma”.

Ci sono dei punti essenziali lungo i quali dovrebbe correre, secondo lei, questo cambiamento?

Mi piacerebbe, tanto per mantenere il filo del discorso, che l’Unione europea riuscisse sottrarsi ai dilemmi che la stanno paralizzando. Quello dell’allargamento è un binario che è arrivato al capolinea, e crea (si veda il caso della Turchia) più problemi e contraddizioni di quanti non ne risolva. La priorità non è chiedersi se gli altri abbiano titolo ad entrare nell’Unione, ma una politica estera di grande coraggio e spessore. Invece di continuare a chiedersi quanto i paesi candidati ad entrare siano identici a noi per dividersi poi sul giudizio, sarebbe più utile mettere in campo una strategia attiva ed ambiziosa, occupandosi in primo luogo di tutti quei vicini, che sono i popoli del bacino mediterraneo.
Problema non secondario, dal momento che proprio all’Europa spetta il compito di disinnescare il conflitto tra le civiltà. E questo non solo per la ragione, pur importante, della sua maggiore prossimità alla linea di frattura. L’Europa possiede, infatti, nella sua storia qualcosa di prezioso, l’elaborazione di una particolare forma di mediazione tra protezione sociale e mercato, che la mette in condizione di favorire il dialogo tra le civiltà, di diventare un ponte tra di esse. In un pianeta lacerato da quello che Benjamin Barber ha chiamato scontro tra McMondo e Jihad, l’Europa può assolvere un ruolo di mediazione né tattico né esclusivamente diplomatico. Invece di leggersi come copia attardata del capitalismo di marca anglosassone, essa dovrebbe provare a proporsi come un’interfaccia tra culture polarizzate l’una contro l’altra, come ipotesi di un equilibrio tra uguaglianza e libertà, tra individualismo ed olismo. Il coraggio, quella che Jankelevitch amava chiamare virtù dell’inizio, non è un azzardato spencolarsi nel vuoto, ma il riconquistare il filo più importante della propria storia per renderne trasparenti le ragioni a se stessi e agli altri.

Come, invece, crede che cambierà davvero (se cambierà davvero) l'Ue nel prossimo anno?

Temo che dello scenario che ho trattato possa realizzarsi ben poco e che si continuerà a navigare sotto costa. Non vedo sulla scena protagonisti decisi a scommettere sul futuro, ma tanti leader la cui fondamentale preoccupazione è non turbare nessuno degli equilibri esistenti. Blair e Chirac sono a fine mandato, Zapatero, dopo il ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq, non sembra avere una politica mediterranea di grande respiro, la Merkel si tiene lontana dai punti caldi. A pesare non sono solo le tradizionali divisioni, ma anche l’assenza di una leadership se non condivisa, almeno trainante.
L’Italia è l’unico paese che ha rischiato, ma conosce i propri limiti e sa benissimo che, senza la compattezza dell’Ue in politica estera, i pericoli aumentano, in Libano come altrove. Insisto sulla politica estera, perché penso che sia da lì che l’Europa possa ripartire, riacquistando senso e legittimità agli occhi degli stessi europei. In un mondo che cresce e che cambia vorticosamente, lo stallo attuale, se continuerà a lungo, produrrà l’effetto di rimpicciolire sempre più l’Europa, marginalizzandone la voce. Insomma vedo molta paura e ripiegamento su se stessi, il contrario di quello slancio che caratterizzò i fondatori dell’Unione.

 

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