Le parole
di Franco Cassano, docente di Sociologia della Conoscenza
all’università di Bari, suonano come un
incitamento. “Avanti Europa – sembra dire
il professore – prendi coraggio, assumiti le tue
responsabilità e metti in pratica quello che
sai fare veramente, traduci in fatti la vocazione che
la tua storia e la tua cultura ti hanno lasciato in
eredità: disinnesca il conflitto di civiltà,
fatti interfaccia di culture, imponiti come ipotesi
di un equilibrio che manca e di cui si sente un gran
bisogno”. mediare
Professore, che Unione europea vorrebbe per
il 2007?
Mi piacerebbe che l’Unione europea, dopo essere
stata mandata al tappeto dai referendum, trovasse la
forza per rialzarsi. Ma deve farlo in fretta, perché
il mondo non starà ad aspettarla all’infinito.
Mi ha colpito la sua remissività sulla questione
libanese, nella quale si è impegnata in ritardo,
e solo trainata dall’Italia. Ora, se fa piacere
che il nostro paese abbia ricominciato ad assaggiare
il gusto di fare la storia, non si può non rimanere
colpiti dalla passività che ha contrassegnato,
almeno all’inizio, l’atteggiamento degli
altri paesi europei.
L’impressione è quella di una sorta di
torpore, di un galleggiare prudente per evitare di farsi
male, ma questo piccolo cabotaggio è del tutto
inadeguato ai tempi, drammaticamente ineguale rispetto
al ruolo internazionale che l’Unione dovrebbe
avere.
Il mondo ha bisogno di un ruolo attivo dell’Europa,
di un’idea di Occidente diversa da quella impersonata
dagli Stati Uniti, e oggi più che mai dopo il
disastro irakeno. Il primo regalo sarebbe quello di
vedere che l’Unione è capace di rialzarsi
e di ricominciare. Ma per far questo è necessario
il coraggio: nessun problema si risolve senza qualche
rischio. Robert Kagan irride il pacifismo dell’Europa
in nome dello spirito virile e guerriero degli Stati
Uniti. Ora è proprio il caso di replicare a Kagan
che del suo spirito guerriero sono piene le fosse comuni
della storia, anche quelle irakene. Ma in quell’obiezione
c’è anche un fondo di verità: non
si fa una storia nuova e non si costruisce un rapporto
pacifico tra i popoli senza rischiare. Per poter svolgere
un ruolo attivo e costruttivo l’Europa deve smettere
di sentirsi “postuma”.
Ci sono dei punti essenziali lungo i quali
dovrebbe correre, secondo lei, questo cambiamento?
Mi piacerebbe, tanto per mantenere il filo del discorso,
che l’Unione europea riuscisse sottrarsi ai dilemmi
che la stanno paralizzando. Quello dell’allargamento
è un binario che è arrivato al capolinea,
e crea (si veda il caso della Turchia) più problemi
e contraddizioni di quanti non ne risolva. La priorità
non è chiedersi se gli altri abbiano titolo ad
entrare nell’Unione, ma una politica estera di
grande coraggio e spessore. Invece di continuare a chiedersi
quanto i paesi candidati ad entrare siano identici a
noi per dividersi poi sul giudizio, sarebbe più
utile mettere in campo una strategia attiva ed ambiziosa,
occupandosi in primo luogo di tutti quei vicini, che
sono i popoli del bacino mediterraneo.
Problema non secondario, dal momento che proprio all’Europa
spetta il compito di disinnescare il conflitto tra le
civiltà. E questo non solo per la ragione, pur
importante, della sua maggiore prossimità alla
linea di frattura. L’Europa possiede, infatti,
nella sua storia qualcosa di prezioso, l’elaborazione
di una particolare forma di mediazione tra protezione
sociale e mercato, che la mette in condizione di favorire
il dialogo tra le civiltà, di diventare un ponte
tra di esse. In un pianeta lacerato da quello che Benjamin
Barber ha chiamato scontro tra McMondo e Jihad,
l’Europa può assolvere un ruolo di mediazione
né tattico né esclusivamente diplomatico.
Invece di leggersi come copia attardata del capitalismo
di marca anglosassone, essa dovrebbe provare a proporsi
come un’interfaccia tra culture polarizzate l’una
contro l’altra, come ipotesi di un equilibrio
tra uguaglianza e libertà, tra individualismo
ed olismo. Il coraggio, quella che Jankelevitch amava
chiamare virtù dell’inizio, non è
un azzardato spencolarsi nel vuoto, ma il riconquistare
il filo più importante della propria storia per
renderne trasparenti le ragioni a se stessi e agli altri.
Come, invece, crede che cambierà davvero
(se cambierà davvero) l'Ue nel prossimo anno?
Temo che dello scenario che ho trattato possa realizzarsi
ben poco e che si continuerà a navigare sotto
costa. Non vedo sulla scena protagonisti decisi a scommettere
sul futuro, ma tanti leader la cui fondamentale preoccupazione
è non turbare nessuno degli equilibri esistenti.
Blair e Chirac sono a fine mandato, Zapatero, dopo il
ritiro delle truppe spagnole dall’Iraq, non sembra
avere una politica mediterranea di grande respiro, la
Merkel si tiene lontana dai punti caldi. A pesare non
sono solo le tradizionali divisioni, ma anche l’assenza
di una leadership se non condivisa, almeno trainante.
L’Italia è l’unico paese che ha rischiato,
ma conosce i propri limiti e sa benissimo che, senza
la compattezza dell’Ue in politica estera, i pericoli
aumentano, in Libano come altrove. Insisto sulla politica
estera, perché penso che sia da lì che
l’Europa possa ripartire, riacquistando senso
e legittimità agli occhi degli stessi europei.
In un mondo che cresce e che cambia vorticosamente,
lo stallo attuale, se continuerà a lungo, produrrà
l’effetto di rimpicciolire sempre più l’Europa,
marginalizzandone la voce. Insomma vedo molta paura
e ripiegamento su se stessi, il contrario di quello
slancio che caratterizzò i fondatori dell’Unione.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|