Questo articolo è tratto da Il
Secolo XIX
Intorno alla vicenda di Erba è probabile che
la sensazione della violenza gratuita oppure dell’eccesso
d’ira costituisca l’elemento scenografico
più forte di tutti. Alla fine, dunque, la collera,
per molti forse inspiegabile, magari essenzialmente
gratuita, rimane il vero attore principale di tutta
la sceneggiatura.
Molti hanno insistito sulla banalità del male,
un rapporto sproporzionato tra causa e atto e soprattutto
dell’irrilevanza che ha avuto la percezione della
violenza nel profilo personale di Rosa Bazzi e Olindo
Romano. Altri hanno insistito sul tema della vicinanza,
delle liti fra vicini facendo un gioco di scala e ricordando
come proprio le liti fra vicini abbiano generato nel
corso dell’ultimo secolo gli stermini (le guerre
balcaniche, o il genocidio in Rwanda) e i conflitti
duraturi (è il caso del conflitto isarelo-palestinese).
Tutti aspetti autentici, certamente presenti nella scena
di Erba. Tuttavia ci sono altri elementi inconfessati
che dobbiamo prendere in considerazione. Sullo sfondo
molti hanno ricordato le certezze che hanno caratterizzato
le prime 48 ore dalla scoperta del delitto: la convinzione
profonda che quella violenza fosse espressione di una
potenza aliena, propria di qualcuno che non viveva lì.
Meglio che non era nato lì.
E’ questo un aspetto che è stato valorizzato
poco o che è stato valutato solo a proposito
di un’accusa poi caduta. Eppure allude ad un dato
su cui sarebbe bene riflettere. Questo dato della diffidenza,
infatti, di là dalla questione della xenofobia,
o del razzismo latente, chiama in causa un dato più
profondo della condizione collettiva: quello della comunità
e soprattutto del piccolo villaggio come luogo protettivo
rispetto ad un mondo esterno ignoto e temibile.
Non è una novità. In questi due ultimi
decenni altre scene di delitto agghiaccianti hanno scatenato
identiche movenze: sconcerto per la violenza, futilità
o comunque governabilità di quei sentimenti che
invece la fanno esplodere in forma incontenibile, convinzione
che quella violenza nascesse altrove; scoperta che invece
essa nasceva lì, spesso all’interno della
famiglia. Ripercorriamo alcune di quelle scene.
E’ la sera del 17 aprile 1991 Pietro Maso, assieme
con tre amici, uccide i propri genitori nella villetta
di Montecchia di Corsara, provincia di Verona. Dopo,
simulano una rapina e poi vanno in discoteca. A portare
i carabinieri sulle tracce degli autori del delitto,
qualche giorno dopo, sono proprio le due sorelle di
Pietro, le quali scoprono che dal conto della madre
erano stati prelevati 25 milioni con un assegno recante
la sua firma contraffatta. Era stato proprio per evitare
che i genitori se n’accorgessero che Pietro Maso
aveva deciso di ucciderli.
Novi Ligure, 21 febbraio 2001. Sono da poco passate
le 20.30, quando una ragazzina urlante, in preda al
panico, esce di corsa dalla villetta di Via D’Acquisto
12, nel quartiere periferico di Lodolino. A chi la soccorre,
la ragazza, Erika de Nardo, 16 anni, racconta tra le
lacrime che due uomini, probabilmente degli albanesi,
penetrati nella villetta hanno massacrato a coltellate
la madre ed il fratellino, mentre lei, dopo una colluttazione
con uno degli assassini, è riuscita miracolosamente
a fuggire. Poco dopo Erika chiama con il cellulare il
suo fidanzatino, Omar Mauro Favaro, 17 anni, che la
raggiunge immediatamente. Saranno sufficienti 48 ore
per smontare questa versione e scoprire un’altra
verità.
Il delitto di Erba ha molti tratti in comune con questi
due scenari. Soprattutto invita a sbarazzarci di una
convinzione profonda. Quella del paese piccolo non violento,
comunitario, accogliente, in opposizione alla realtà
urbana anonima, alienata, angosciante. Diversamente:
un circuito “caldo” e dunque protettivo
alternativo a una realtà “fredda”
e non comunicativa, soprattutto nelle sue periferie
“violente”.
A differenza di quelle nel paese piccolo a forte impronta
comunitaria entrano in gioco altri conflitti spesso
inconfessati. Conflitti protetti dalla comunità,
talora anche occultati, destinati nel tempo ad esplodere
con violenza che appare inspiegabile, ma che ha un solido
fondamento.
A lungo nella vicenda italiana Strapaese (nome di un
movimento artistico a partire dal terzo decennio del
‘900 si proponeva di valorizzare aspetti positivi
della vita contadina e provinciale, ndr) ha
segnato il sogno del ritorno alla natura, la riscoperta
di un’Italia virtuosa, serena, tranquilla. E’
stato così anche per quel richiamo nostalgico
che è stato propagandato con le sirene del “piccolo
è bello”, della comunità “accogliente”
oppure l’elogio del “naturale”. Da
molto tempo non è così. Forse non lo è
mai stato. In ogni caso i fatti di Erba dicono che è
meglio togliersi quest’illusione dalla testa.
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