“La
fiction? Non mi sembra che abbia fatto grandi passi
avanti da quando ha iniziato a crescere, con la Piovra
e Il maresciallo Rocca. La struttura narrativa
è rimasta la stessa”. Laura Toscano, scrittrice
e sceneggiatrice, è una vera veterana di fiction.
Ne ha scritte decine, tra cui alcune di grande successo,
come Commesse. Eppure esprime parecchi dubbi
sul modo di declinare un genere che in Italia sta assumendo
un peso sempre più crescente nel piccolo schermo.
In questi ultimi anni, c’è stato
uno sviluppo “abnorme” della fiction televisiva,
che gli italiani sembrano apprezzare parecchio. Secondo
lei perché?
Perché in qualche modo rispecchia la nostra
realtà. O perlomeno, rispecchia la realtà
come vorremmo che fosse, che è una cosa molto
più sottile. Noi autori facciamo una rappresentazione
di noi stessi e la gente in qualche modo vi si riconosce,
e questo fa sì che veda volentieri dei prodotti
dove la gente non si chiama John o Jane ma Mario e Francesca,
dove si ritrovano spazi, strade, abitudini, modi di
vivere conosciuti. Naturalmente le persone ci si riconoscono
a grandi linee, perché non sempre le nostre fiction
rispecchiano la realtà per quella che è.
A questo proposito, non trova che la fiction
italiana abbia caratteristiche “pedagogiche”
e che sia eccessivamente “buonista”? Molti
deplorano l’eccesso di political correctness
che in effetti sembra talvolta caratterizzare i suoi
personaggi. Cosa che, al contrario, sembra non “affliggere”
la fiction americana.
Sì, sono d’accordo sull’eccesso di
buonismo. Però credo che la fiction americana
sia fintamente dura, perché ha sempre una soluzione
a tutti i problemi, un lieto fine, che fa sì,
appunto, che tutto sia artificiosamente realistico.
La vita è, purtroppo, diversa.
Se pensiamo però a fiction come i Soprano
o Six feet Under, per citarne solo alcune tra le
tantissime, la differenza con la fiction italiana sembra
notevole.
Certo, i Soprano sono duri, ma quel serial
appartiene ad una microscopica tranche, perché
parla di una diversità – gli italoamericani,
gli “altri” – per cui è più
semplice fare quella tipologia narrativa. Naturalmente,
non voglio toglier merito agli americani, che sono stati
precursori da questo punto di vista ed hanno una grandissima
scuola. Tuttavia, va ricordato che noi abbiamo una grande
tradizione di romanzo popolare, nata in Europa (penso
al feuilleton e ai romanzi popolari dei grandi
autori italiani e francesi). Questa, secondo me è
la nostra provenienza. Di conseguenza, abbiamo un altro
modo di raccontare, proprio come la nostra letteratura
è diversa da quella americana, e rispecchia più
la nostra cultura e il nostro modo di vivere. I nostri
riferimenti sono il neorealismo e la commedia all’italiana.
Quindi lei non riscontra un eccesso di sentimentalismo?
Sì, certo, questo non lo nego. Vorrei però
aggiungere due cose: primo, che mostrare immagini più
dure, come fanno gli americani, non necessariamente
rende le fiction più realistiche; secondo, che
noi abbiamo dei freni, una sorta di autocensura, dovuta
al fatto che da noi ci sono fasce protette che coprono
un arco di tempo molto lungo per cui noi non possiamo
andare in direzioni diverse, sia per linguaggio sia
per immagini. Detto questo, non solo la sostanza della
fiction è troppo buonista, ma diciamo anche che
la fiction non ha fatto passi avanti da quando ha cominciato
a crescere – penso alla Piovra e al
Maresciallo Rocca. Siamo ancora lì a fare
le stesse cose, a “copiarci” l’uno
con l’altro e questo ovviamente incide sui contenuti,
perché quando il tipo di racconto è ossessivamente
uguale a se stesso, non cerca altre strade, altre soluzioni.
In pratica, si finge di cercare degli argomenti più
incisivi e moderni, ma siccome la struttura narrativa
resta quella, ferma sempre sulle stesse posizioni, tutto
diventa vecchio. Insomma, se dovessi domani fare una
fiction di fantascienza, dovrei mettere sulla luna la
nonna, il papà, il nipote, etc. Alla fine tutto
si risolve con un “volemose bene” finale.
Cosa pensa del consistente filone di fiction
religiose?
È uno dei filoni, non lo giudico, ma trovo normale,
visto che viviamo in un paese tutto sommato cattolico,
che si sia stimolati dai racconti di vite particolarmente
agiografiche. La storia dei santi, la cui vita è
sempre interessante, c’è sempre stata,
tanto più in Italia dove la religione ha avuto
un grandissimo peso, sia per parlarne bene sia per parlarne
male. Per cui è chiaro che se uno vuole andare
sui grandi numeri va a mettersi nella posizione più
comoda e racconta o la vita di un papa o di un santo.
In che modo la fiction italiana è riuscita
a rispecchiare la nostra realtà sociale? Non
trova che alcuni personaggi, come quelli omosessuali
o immigrati, contribuiscano felicemente all’integrazione?
Non ne sono sicura. Anzi, mi sembra che la cosa più
grave e più finta – ed è un errore
che ho fatto anch’io con la mia coppia di gay,
che convivevano amabilmente senza traumi, in Commesse
– sia quella di non mostrare problemi e conflitti.
Se uno deve raccontare quella che è la situazione
di una coppia gay sa benissimo che in genere essa è
discriminata (non parliamo poi delle coppie lesbiche).
Invece i gay sono raffigurati come simpatiche macchiette.
In questo senso la fiction non rispecchia la società
italiana né i suoi cambiamenti. Lo stesso vale,
a maggior ragione, per gli extracomunitari, che solo
in piccolissima percentuale sono accettati e vivono
una vita “normale”, ma il più delle
volte subiscono terribili discriminazioni. Se non raccontiamo
questo, noi chiudiamo gli occhi e ci raccontiamo la
vecchia bella favola che gli italiani erano buoni e
non erano colonialisti. E non affrontiamo la realtà
dello sfruttamento così com’è. Per
questo ho fatto Marcinelle, per raccontare
quando noi eravamo gli sfruttati e i reietti.
A proposito di Marcinelle: oltre al
filone “religioso”, c’è stato
anche un gran proliferare di fiction storiche. Non pensa
tuttavia che raccontare la storia con una fiction si
esponga a dei rischi, primo tra tutti quello di strumentalizzazioni
politiche?
Io ho fatto alcune fiction storiche, cercando però
sempre all’interno di esse un filone narrativo
che mi permettesse di raccontare una certa realtà,
su cui comunque mi sono sempre molto documentata. Io
credo che la fiction possa essere storica, oppure contemporanea,
ma l’importante è che sia onesta.
Uno vede subito quando una fiction è disonesta,
quando è predicatoria, poco sincera, non attinente
alla realtà dei fatti che racconta. Allora io
farei un distinguo, non tra generi ma tra buona
e cattiva fiction, perché possiamo fare
tutto, purché ci sia onestà, appunto,
e poi, ovviamente, anche professionalità.
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