La nascita
della più grande federazione economica del mondo
e le conseguenze che questa avrà su un nuovo
multilateralismo internazionale. Alla nuova Unione europea
a 27, che nascerà il prossimo primo gennaio con
l'inclusione di Romania e Bulgaria, è dedicato
il IV rapporto annuale della Società geografica
italiana, presentato lo scorso 5 dicembre. Curato nella
sua parte principale da Tullio D'Aponte, ordinario di
Geopolitica economica all'università Federico
II di Napoli, il testo guarda indietro alla storia dell'Europa
unita e si affaccia al 2007, quando i due nuovi ingressi
completeranno, di fatto, la sovrapposizione geografica
tra la cartina d'Europa e l'Unione politica.
Dal trattato di Roma a Maastricht, dall'Euro all'Unione
a 25, la storia recente d'Europa è un avvicendarsi
di accelerazioni e rallentamenti. Proprio l'ultima delle
tappe citate è vista come il passo fondamentale
per la ricostruzione dell'identità europea, orfana
di unitarietà sin dalla spartizione dei blocchi
decisa a Yalta. Identità comune a tutt'oggi ritenuta
lontana - ancorché avvantaggiata dalla saldatura,
domani anche geografica, con la Turchia - il cui successo
si basa, secondo gli estensori del rapporto, sul superamento
della “geografia dei divari”. Vale a dire
l'approccio a una politica regionale che sul territorio
costruisca la realtà economica di una comunità
passata in pochi anni da 370 a 500 milioni di europei.
Avvicinando i grandi centri alle periferie e alle frammentate
comunità rurali.
Oggi la popolazione dell'Unione è infatti condensata
per il 40% in un'area - pari al 20% del territorio -
che si estende tra le metropoli di Londra, Parigi, Monaco
e Amburgo e concentra in sé il 50% del prodotto
interno lordo. Laddove, al contrario, le aree a maggiore
depressione sono concentrate nell'Europa meridionale
e nelle zone ex-sovietiche, con tassi di disoccupazione
al di sopra del 20%. Per questo il rapporto inquadra
nelle infrastrutture e nei sistemi di comunicazione
una risorsa per contribuire ad uno “sviluppo policentrico”.
In questo senso gli interventi sugli euro-corridoi,
che toccheranno da vicino anche i due nuovi ingressi.
La Bulgaria, grazie all'avvio della fase operativa del
corridoio VIII. E la Romania, attraversata dalle direttrici
4, 7 e 9.
Diverso discorso merita l'evoluzione industriale. Se
da un lato la “vecchia” Europa tende ad
una generalizzata de-industrializzazione a vantaggio
di servizi ad alto valore aggiunto e innovative attività
finanziarie, proprio gli ultimi ingressi nell'Unione
hanno registrato i maggiori incrementi produttivi. Lituania
(+14,8%), Irlanda (+14,7%), Estonia (+10,5%) e Polonia
(+8,5%) in testa, mentre l'Italia rimane il maggiore
produttore europeo di beni di consumo non durevoli,
con la più alta concentrazione di imprese addette
alla lavorazione del cuoio e pelli.
Al nostro Paese e alla “sfida” per la competitività
che è chiamato a sostenere all'interno dell'Europa
è dedicata forte attenzione. In particolar modo,
il rapporto indica nel consolidamento del marchio italiano
il fattore di maggiore successo futuro. Spostando l'attenzione
dal “made in Italy”, ad un più fruttuoso
“made by Italy”, in grado di combinare
l'apporto ideativo italiano e superare “le scorciatoie
del decentramento produttivo”.
Mentre la geografia del nostro capitalismo in Europa
disegna contorni più o meno chiari. Bene il numero
delle imprese che investono all'estero, decuplicato
in un ventennio. Bene anche il valore delle partecipazioni
cresciuto di otto volte. Ad attirare il denaro italiano
è in particolare la Cina. All'inizio del 2005
erano 400 le imprese italiane che vi operavano, al 98%
impegnate nella manifattura. Al contrario vanno contraendosi
gli investimenti del tricolore in America latina, mentre
il ritardo e la scarsa propensione alla ricerca sono
il principale fattore degli investimenti irrisori nei
settori dell'informatica, delle telecomunicazioni e
nell'elettronica.
Anche per questi motivi è proprio sui paesi
neomembri che si concentrano le maggiori aspettative
commerciali. Piccolo ad oggi l'impatto economico –
i paesi dell'Est rappresentano il 4% del Pil complessivo
dell'Unione – il rapporto ipotizza che in 20-30
anni i nuovi europei raggiungeranno un peso economico
proporzionato alla dimensione demografica e allo standard
comunitario. Principali beneficiari di questa nuova
apertura dei mercati sarebbero Germania e Austria, che
oggi concentrano le maggiori quote di export verso Est,
mentre per l'Italia - assieme alla Grecia – la
prospettiva è una boccata d'ossigeno per l'industria
in ritardo di innovazione, che ad Est troverà
una base produttiva dai costi contenuti ma qualificata
tecnologicamente. Allo stesso modo ci si aspetta un
imponente spostamento di capitali finanziari, incoraggiato
– nel bene e nel male – da un “dinamismo
finanziario” che, soprattutto in Bulgaria, già
oggi tocca il 10% del Pil.
Ma è sul versante politico, prima ancora che
economico, che la Società Geografica appunta
il valore dell'Unione a 27. In primo luogo per la vicinanza
culturale e il contributo che i più “sovietici”
dei paesi ex-sovietici potranno dare alla politica dell'Europa
verso la Federazione russa. Secondo e direttamente conseguente
il beneficio che questa novità diplomatica potrebbe
portare nella facilità di approvvigionamento
energetico sulle rotte caspiche del petrolio e del gas.
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