312 - 28.12.06


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La politica non è più
una questione di confini

Tullio D’Aponte
con Fabio Amato


Modificherà gli scenari internazionali, avvicinerà le sponde dell'Atlantico e sovrapporrà la cartina geografica dell'Europa alla sua rappresentanza politica. Il professor Tullio D'Aponte, curatore del rapporto 2006 della Società geografica italiana, spiega la sua idea dell'Europa a 27, e dell'intreccio necessario tra la direzione economica e la politica, non più basata sui confini ma sulle grandi rotte energetiche.

Professor D'Aponte, il rapporto della società geografica anticipa alcuni dubbi sull'Europa a 27...

La domanda delle domande è se esisterà davvero questa Europa. Da sempre cerchiamo di identificare l'Europa con una configurazione geografica. La verità è semplice. Se pensiamo a un’Europa patria delle patrie, allora probabilmente la vediamo unita. Se invece guardiamo ai nazionalismi e alle singole patrie è evidente che questo elemento comune non si riesce a trovare.

Perché?

Ci sono dei motivi di fondo. Il primo è il differenziale linguistico. Trovandoci di fronte a un insieme di lingue e modelli talmente distanti l'uno dall'altro, la cosa non è semplice. E non è semplice neppure attraverso la mediazione anglofona, che ha forza e rilevanza ma non può fare giustizia dei linguismi individuali. È un aspetto che non si riscontra in nessun altro sistema di poteri federali forti.

Nemmeno negli Stati Uniti? Non pensa che l'immigrazione stia creando differenze linguistiche simili alle nostre?

La forte immigrazione è tardiva rispetto al formarsi della struttura. Il corpus forte degli Stati Uniti è la comune patria di lingua anglosassone. A questa poi si sono aggiunte le tante famiglie immigrate. Prima però si era passati attraverso l'immigrazione forzosa dall'Africa, lo schiavismo, processi che hanno determinato l'emergere di un denominatore, su cui non è stato difficile costruire lo stato federale.

La nascita dell'Europa è così complicata?

Alla lingua si unisce una serie di altri elementi geo-economici che sono la matrice dell'incapacità di ricerca di un'anima comune. Ci sono egoismi nazionali che sono dettati da esigenze e considerazioni strategiche sul piano economico. Una per tutte quella energetica. Ricordo cosa successe con il primo shock petrolifero. Quando l'Europa all'improvviso si svegliò e si accorse che le mancava il carburante per poter camminare speditamente. In quel momento iniziò in maniera disordinata e senza coordinamento a rincorrere il petrolio arabo. Egoismi evidenti e filo-arabismo a più non posso. Qualcuno in quegli anni disse: “Di questo passo l'Europa rischia di sprofondare nel Mediterraneo”.

Siamo ancora fermi a quel disordine?

Esiste una diversità di strutture produttive, una diversità di orientamenti, che ha la propria radice nella costituzione dell'Europa post Yalta, dove ciascun paese, tra quelli in diritto ovviamente, ha fatto una scelta.

Quale scelta?

La potremmo riassumere in questi termini: “Che facciamo, approfittiamo del momento e della forte domanda del mercato e la soddisfiamo con gli apparati produttivi, sistemati e rappezzati, di cui siamo in possesso? Oppure ci mettiamo a fare una politica strutturale con un intervento di trasformazione dell'apparato produttivo?”.

Ovviamente il nostro Paese optò per la prima...

L'Italia fece le lavatrici, i frigoriferi, approfittò degli impianti produttivi esistenti e della domanda di mercato. “Vendiamo, vendiamo, vendiamo”... L'abbiamo chiamato boom economico. Dove poi è stato, tutto sommato, la causa del gap tecnologico che ha portato l'Italia in una posizione sempre più affannosa tra i paesi industriali. Ed è il motivo per cui il motore d'Europa è stata alla fine la più sgangherata delle potenze post belliche, la Germania.

Leggendo il rapporto, questo divario ancora oggi esiste...

Ha significato molto. Da noi alla ricerca si pensava poco,
si è data scarsa importanza perché il mercato tirava. Tirava su qualche idea, non sulla ricerca, e sull'adattamento dell'apparato produttivo a quell'idea. Grazie all'Europa e alla sua fase mercantilista l'Italia ha trovato il suo mercato privilegiato e ha rafforzato tutte le sue relazioni in ambito quasi domestico. Il resto del continente si è però organizzato in maniera abbastanza antagonista.

Non teme che questo divario possa ripresentarsi adesso, con l'ampliamento a 27? Perché è tanto importante?

L'allargamento è la risposta, è la spinta, la tempestiva attenzione dell'Europa alla disgregazione dell'ex impero sovietico, ma con una forza di regia oltre Atlantico. Una regia che chiede di “mettere il cappello” su queste realtà tradizionalmente europee che impropriamente erano nell'orbita sovietica.

Una regia indotta?

Se devo trovare una leva interna, per me è il Regno unito. Lo leggo forse in maniera rozza, ma per me è un rappresentante permanente degli Stati Uniti in Europa, anche se naturalmente con i suoi interessi.

Sta dicendo che l'Europa allargata non sarà un blocco alleato e nel contempo alternativo agli Stati Uniti, ma che le due sponde dell'Atlantico si avvicineranno ulteriormente?

Questo è lo status quo, l'ordinario. Che cosa è successo nelle repubbliche caspiche che si sono ribellate alla federazione russa? Come si sono mantenute? Repubbliche che sul piano etico sarebbero discutibili, altro che Turchia. Chi le sta foraggiando e chiude tutti e due gli occhi sul piano dei diritti umani? Gli Stati Uniti. Sono presenti con interessi economici e basi. Fanno circolare denaro. Con la loro presenza tranquillizzano queste nuove oligarchie pseudo-autoritarie. Se poi a questo aggiungiamo che nel 2007 l'Europa si prende Romania e Bulgaria, che sono le più comuniste fra le ex repubbliche comuniste, allora si avrà una sorta di accerchiamento della Federazione russa.

In che termini?

Non un tentativo di prevaricare, ma un modo per esercitare un controllo, aiutando di fatto la Federazione russa a recuperare una capacità di proposizione verso est che renda da interposizione verso l'estremo oriente, verso Cina e India. E come fare questo, se non attraverso la leva energetica, in un patto tra America e Russia che ridimensioni l'egemonia dell'Arabia saudita. In questo modo l'Europa si garantirà il petrolio del grande serbatoio russo. Mentre il ramo orientale che va incontro alla Cina e alla sua grande sete di energia è anche in grado di regolarne i flussi di crescita.

L'Europa come agente americano verso est?

No, in realtà seguendo questa direttrice l'Europa fa anche i propri interessi e contemporaneamente costruisce una base politica che le dà maggiore forza e le consente di essere interlocutore.

Sarà possibile conciliare la forte disparità economica tra la vecchia e la nuova Europa di eredità socialista?

Quando c'è un passaggio così brusco da una economia paritaria, quale quella comunista, ad una economia di mercato subito si creano dei delta profondi. Alla lunga il delta resta, ma il valore più basso diventa un valore accettabile di vita. Del resto, se noi guardiamo alle aree marginali d'Europa, pur mantenendo un delta considerevole, il livello di vita più basso – che in passato portava alla soglia della povertà - diventa soddisfacente, anche se certo non eccellente. È il principio dei vasi comunicanti: se lungo il Reno si genera ricchezza, prima o poi una parte di questa ricchezza raggiungerà anche la Calabria. D'altra parte, tutte le società ricche ammettono una classe povera molto ampia. Tanto per citarne una: gli Stati Uniti.

E lei trova che questo sia uno scenario auspicabile?

Questa è la globalizzazione. È velleitario pensare a una diversa forma di equilibrio, a meno di cambiare l'indirizzo in maniera autoritaria, con un potere soffocante che tutti deprecheremmo. Chiamiamo il mondo Europa, America, Asia, ma come diceva Friedman il mondo è piatto. Qualcuno dice addirittura che il mondo non ha più confini, e che adesso possiamo aspettarci solo il rimescolamento generale. In verità il confine esiste, ma esiste sempre di meno man mano che cresce la scala. Ci è rimasta la virtualità dei confini ma non la sua materialità.


 


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