Modificherà
gli scenari internazionali, avvicinerà le sponde
dell'Atlantico e sovrapporrà la cartina geografica
dell'Europa alla sua rappresentanza politica. Il professor
Tullio D'Aponte, curatore del rapporto 2006 della Società
geografica italiana, spiega la sua idea dell'Europa
a 27, e dell'intreccio necessario tra la direzione economica
e la politica, non più basata sui confini ma
sulle grandi rotte energetiche.
Professor D'Aponte, il rapporto della società
geografica anticipa alcuni dubbi sull'Europa a 27...
La domanda delle domande è se esisterà
davvero questa Europa. Da sempre cerchiamo di identificare
l'Europa con una configurazione geografica. La verità
è semplice. Se pensiamo a un’Europa patria
delle patrie, allora probabilmente la vediamo unita.
Se invece guardiamo ai nazionalismi e alle singole patrie
è evidente che questo elemento comune non si
riesce a trovare.
Perché?
Ci sono dei motivi di fondo. Il primo è il differenziale
linguistico. Trovandoci di fronte a un insieme di lingue
e modelli talmente distanti l'uno dall'altro, la cosa
non è semplice. E non è semplice neppure
attraverso la mediazione anglofona, che ha forza e rilevanza
ma non può fare giustizia dei linguismi individuali.
È un aspetto che non si riscontra in nessun altro
sistema di poteri federali forti.
Nemmeno negli Stati Uniti? Non pensa che l'immigrazione
stia creando differenze linguistiche simili alle nostre?
La forte immigrazione è tardiva rispetto al
formarsi della struttura. Il corpus forte degli Stati
Uniti è la comune patria di lingua anglosassone.
A questa poi si sono aggiunte le tante famiglie immigrate.
Prima però si era passati attraverso l'immigrazione
forzosa dall'Africa, lo schiavismo, processi che hanno
determinato l'emergere di un denominatore, su cui non
è stato difficile costruire lo stato federale.
La nascita dell'Europa è così
complicata?
Alla lingua si unisce una serie di altri elementi geo-economici
che sono la matrice dell'incapacità di ricerca
di un'anima comune. Ci sono egoismi nazionali che sono
dettati da esigenze e considerazioni strategiche sul
piano economico. Una per tutte quella energetica. Ricordo
cosa successe con il primo shock petrolifero. Quando
l'Europa all'improvviso si svegliò e si accorse
che le mancava il carburante per poter camminare speditamente.
In quel momento iniziò in maniera disordinata
e senza coordinamento a rincorrere il petrolio arabo.
Egoismi evidenti e filo-arabismo a più non posso.
Qualcuno in quegli anni disse: “Di questo passo
l'Europa rischia di sprofondare nel Mediterraneo”.
Siamo ancora fermi a quel disordine?
Esiste una diversità di strutture produttive,
una diversità di orientamenti, che ha la propria
radice nella costituzione dell'Europa post Yalta, dove
ciascun paese, tra quelli in diritto ovviamente, ha
fatto una scelta.
Quale scelta?
La potremmo riassumere in questi termini: “Che
facciamo, approfittiamo del momento e della forte domanda
del mercato e la soddisfiamo con gli apparati produttivi,
sistemati e rappezzati, di cui siamo in possesso? Oppure
ci mettiamo a fare una politica strutturale con un intervento
di trasformazione dell'apparato produttivo?”.
Ovviamente il nostro Paese optò per
la prima...
L'Italia fece le lavatrici, i frigoriferi, approfittò
degli impianti produttivi esistenti e della domanda
di mercato. “Vendiamo, vendiamo, vendiamo”...
L'abbiamo chiamato boom economico. Dove poi è
stato, tutto sommato, la causa del gap tecnologico che
ha portato l'Italia in una posizione sempre più
affannosa tra i paesi industriali. Ed è il motivo
per cui il motore d'Europa è stata alla fine
la più sgangherata delle potenze post belliche,
la Germania.
Leggendo il rapporto, questo divario ancora
oggi esiste...
Ha significato molto. Da noi alla ricerca si pensava
poco,
si è data scarsa importanza perché il
mercato tirava. Tirava su qualche idea, non sulla ricerca,
e sull'adattamento dell'apparato produttivo a quell'idea.
Grazie all'Europa e alla sua fase mercantilista l'Italia
ha trovato il suo mercato privilegiato e ha rafforzato
tutte le sue relazioni in ambito quasi domestico. Il
resto del continente si è però organizzato
in maniera abbastanza antagonista.
Non teme che questo divario possa ripresentarsi
adesso, con l'ampliamento a 27? Perché è
tanto importante?
L'allargamento è la risposta, è la spinta,
la tempestiva attenzione dell'Europa alla disgregazione
dell'ex impero sovietico, ma con una forza di regia
oltre Atlantico. Una regia che chiede di “mettere
il cappello” su queste realtà tradizionalmente
europee che impropriamente erano nell'orbita sovietica.
Una regia indotta?
Se devo trovare una leva interna, per me è il
Regno unito. Lo leggo forse in maniera rozza, ma per
me è un rappresentante permanente degli Stati
Uniti in Europa, anche se naturalmente con i suoi interessi.
Sta dicendo che l'Europa allargata non sarà
un blocco alleato e nel contempo alternativo agli Stati
Uniti, ma che le due sponde dell'Atlantico si avvicineranno
ulteriormente?
Questo è lo status quo, l'ordinario. Che cosa
è successo nelle repubbliche caspiche che si
sono ribellate alla federazione russa? Come si sono
mantenute? Repubbliche che sul piano etico sarebbero
discutibili, altro che Turchia. Chi le sta foraggiando
e chiude tutti e due gli occhi sul piano dei diritti
umani? Gli Stati Uniti. Sono presenti con interessi
economici e basi. Fanno circolare denaro. Con la loro
presenza tranquillizzano queste nuove oligarchie pseudo-autoritarie.
Se poi a questo aggiungiamo che nel 2007 l'Europa si
prende Romania e Bulgaria, che sono le più comuniste
fra le ex repubbliche comuniste, allora si avrà
una sorta di accerchiamento della Federazione russa.
In che termini?
Non un tentativo di prevaricare, ma un modo per esercitare
un controllo, aiutando di fatto la Federazione russa
a recuperare una capacità di proposizione verso
est che renda da interposizione verso l'estremo oriente,
verso Cina e India. E come fare questo, se non attraverso
la leva energetica, in un patto tra America e Russia
che ridimensioni l'egemonia dell'Arabia saudita. In
questo modo l'Europa si garantirà il petrolio
del grande serbatoio russo. Mentre il ramo orientale
che va incontro alla Cina e alla sua grande sete di
energia è anche in grado di regolarne i flussi
di crescita.
L'Europa come agente americano verso est?
No, in realtà seguendo questa direttrice l'Europa
fa anche i propri interessi e contemporaneamente costruisce
una base politica che le dà maggiore forza e
le consente di essere interlocutore.
Sarà possibile conciliare la forte disparità
economica tra la vecchia e la nuova Europa di eredità
socialista?
Quando c'è un passaggio così brusco da
una economia paritaria, quale quella comunista, ad una
economia di mercato subito si creano dei delta profondi.
Alla lunga il delta resta, ma il valore più basso
diventa un valore accettabile di vita. Del resto, se
noi guardiamo alle aree marginali d'Europa, pur mantenendo
un delta considerevole, il livello di vita più
basso – che in passato portava alla soglia della
povertà - diventa soddisfacente, anche se certo
non eccellente. È il principio dei vasi comunicanti:
se lungo il Reno si genera ricchezza, prima o poi una
parte di questa ricchezza raggiungerà anche la
Calabria. D'altra parte, tutte le società ricche
ammettono una classe povera molto ampia. Tanto per citarne
una: gli Stati Uniti.
E lei trova che questo sia uno scenario auspicabile?
Questa è la globalizzazione. È velleitario
pensare a una diversa forma di equilibrio, a meno di
cambiare l'indirizzo in maniera autoritaria, con un
potere soffocante che tutti deprecheremmo. Chiamiamo
il mondo Europa, America, Asia, ma come diceva Friedman
il mondo è piatto. Qualcuno dice addirittura
che il mondo non ha più confini, e che adesso
possiamo aspettarci solo il rimescolamento generale.
In verità il confine esiste, ma esiste sempre
di meno man mano che cresce la scala. Ci è rimasta
la virtualità dei confini ma non la sua materialità.
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