312 - 28.12.06


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Teheran, i due
volti della crisi

David Bidussa


Questo articolo è tratto da Il Secolo XIX


L’Iran continua a proporre due profili diversi, se non opposti. Da una parte un paese strutturato, organicamente costruito intorno alla figura del suo Presidente; dall’altra, invece, una realtà autoritaria, attualmente in una condizione di equilibrio instabile e precario, comunque sottoposta a flussi di malcontento difficilmente governabili, come la dura contestazione riservata da un gruppo di studenti ad Ahmadinejad durante un discorso all’Università, nel giorno della conferenza revisionista sull’Olocausto.

La prima versione legge la capacità mobilitante del regime come il fondamento della sua forza e l’indicatore del suo successo. L’Iran appare un sistema politico e culturale, dotato di una propria religione della politica. Ovvero un sistema che non coinvolge solo un metodo di governo che inventa una propria tradizione per legittimarsi, che costruisce riti, simboli, miti per consolidarsi, ma un modo di interpretare la vita, la storia passata e attuale, un modo di concepire la politica fino a comprendere in essa la definizione del significato e del fine ultimo della propria esistenza e della propria missione nella storia.
Secondo questa analisi il regime iraniano è un vero e proprio sistema totalitario.

La seconda versione, invece, è quella per esempio su cui insiste costantemente la scrittrice in esilio Azar Nafisi. L’Iran - sostiene Nafisi - è un paese con una società civile che sopporta con difficoltà un regime che impedisce la circolazione della cultura, che non può rompere definitivamente con l’Occidente, che è costretto a misurarsi con la letteratura occidentale, con la cinematografia e dunque con le sollecitazioni che derivano da quei prodotti culturali (in termini di desideri, parole, di immagini,…). Un regine che è costretto a militarizzare la vita civile e che ancora a ventisette anni dalla conquista del potere è sulla difensiva. Dunque un sistema autoritario, chiuso nel suo stesso apparato culturale, diviso o separato da un’opinione interna che ha maturato un distacco.
Per quanto lento sia questo processo, afferma Nafisi, quello di Ahmadiejad è solo l’ultima fase – lunga ma non eterna – di un’agonia. Non sarà indolore il processo. Sarà carico di violenza ideologica, di oppressione, di tirannide, ma il futuro è “oltre”.

La distinzione riguarda direttamente il senso della politica che l’Europa intende perseguire a fronte delle molte crisi mediorientali. E’ opinione di molti che senza la Siria, ma soprattutto senza l’Iran, sarà impossibile dare una fisionomia stabile al Medio Oriente. Se la diagnosi è che l’Iran sia totalitario, allora non si danno spazi. Una politica che pensa di rendere stabile una regione in accordo con un sistema totalitario è destinata al fallimento.

Ma è poi così vero che il regime di Ahmadinejad sia stabile e assolutamente privo di frizioni interne? Non proprio. Il 15 dicembre le elezioni locali rinnoveranno molti dei consigli di villaggio e di città. Attualmente i dati dicono che le componenti vicino ad Ahmadinejad sono in netto calo e anzi i suoi avversari delle ali moderate sono in rialzo. Non solo. Nello stesso periodo verrà rinnovata la cosiddetta “Assemblea degli Esperti” una realtà composta di 86 teologi che hanno il compito di eleggere , se necessario, la “Guida suprema”. Anche in questo caso la situazione non è a favore di Ahmadinejad.

Questo non significa che sia all’ordine del giorno un veloce dissolvimento del regime, ma, più realisticamente - sotto questo profilo, probabilmente, Azar Nafisi non ha torto – l’aumento del tasso ideologico costituisce un indicatore doppio: da una parte un aumento della mobilitazione, dall’altro la necessità di militarizzare e mobilitare l’opinione pubblica.
La partita dunque sarà lunga, ma la sua durata dipende anche dalle strategie che si mettono in campo da questa parte, dalla capacità di sgretolare e di aiutare i processi di mobilitazione civile dentro l’Iran. Ovvero, più generalmente ed estesamente, da una lettura delle crisi mediorientali come atti politici e non solo come effetti politici di codici culturali del tutto impermeabili al confronto e all’ibridazione con l’Occidente. Questo aspetto non solo è falso, ma è anche un regalo inaspettato al fondamentalismo perché è l’implicito riconoscimento della sua convinzione ideologica, che vuole non solo l’Occidente come nemico inconciliabile, ma anche attore naturalmente estraneo e alieno rispetto all’Islam.


 


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