Alla fine,
dato che la Turchia ha rifiutato di applicare a Cipro,
membro dell’Ue, le disposizioni dell’unione
doganiera prevista dal protocollo di Ankara, il Consiglio
d’Europa ha deciso di ratificare la raccomandazione
della Commissione e di congelare 8 dei 35 capitoli previsti
dai negoziati d’adesione. Un colpo d’arresto
che ha riaperto il dibattito sull’opportunità
stessa dell’adesione della Turchia e dato il fianco
a chi crede che il partenariato sia una forma più
appropriata di cooperazione con un paese spesso visto
come estraneo culturalmente e geograficamente all’identità
europea.
Ne abbiamo parlato con il Professor Carlo Altomonte,
già consulente presso la Commissione Economica
e Monetaria del Parlamento Europeo (Bruxelles) e la
Division of Transnational Corporations dell’Unctad
(Onu – Ginevra), e attualmente coordinatore del
modulo di European Affairs del Master in International
Affairs dell’Ispi (Milano).
Professore, i detrattori dell’adesione
turca all’Unione Europea avanzano dubbi sull’appartenenza
geografica e culturale della Turchia all’Europa.
Quanto è fondata questa obiezione?
A norma di trattato non è affatto fondata. L’articolo
otto, infatti, dice che ogni Stato europeo può
far parte dell’Unione e siccome la Turchia ha
una parte europea, tecnicamente può farne parte.
Culturalmente bisogna intendersi, perché l’unico
criterio per aderire all’Ue è quello cosiddetto
politico di Copenaghen che dispone che un paese debba
essere una democrazia stabile che rispetti i diritti
umani e tuteli le minoranze. È l’unico
tratto culturale che il trattato richiede e la Turchia,
secondo la Commissione europea e per decisione unanime
del Consiglio europeo del dicembre dell’anno scorso,
soddisfa questo criterio.
In molti avanzano il problema dell’incompatibilità
religiosa della Turchia con l’identità
europea.
Quello dell’Ue è un trattato laico in
cui l’unico valore che viene riconosciuto è
la libertà individuale e quindi, s’immagina,
anche la libertà di culto. Se il problema sono
invece le nostre relazioni col mondo islamico, chi si
oppone all’adesione della Turchia su queste basi
sappia che da qui a 15 anni agli attuali tassi d’immigrazione
ci saranno 40 milioni di cittadini islamici in Europa
concentrati nelle grandi città e il 50% avrà
meno trent’anni. Il problema delle relazioni col
mondo islamico si pone comunque, anche senza la Turchia.
Queste posizioni non sono la traduzione politica
della resistenza degli europei che si è manifestata
con il no dei referendum francese e olandese?
Eliminato il problema del paravento culturale del no
all’adesione turca che mi sembra più che
altro demagogico e strumentale, esiste un problema più
generale legato alla volontà dei cittadini europei
di allargarsi e condividere la loro area di pace e prosperità
con altri paesi. Penso che l’atteggiamento anti-allargamento
come c’è per la Turchia possa esserci per
l’Albania, la Bosnia, la Serbia e per tutti i
paesi che prima o poi entreranno a far parte del bacino
d’influenza dell’Ue. C’è un
po’ quella che la Commissione ha chiamato “fatica
dell’allargamento”. Portare l’Ue da
15 a 25 a 27 è stato un passo molto ampio che
ha portato a numerosi compromessi e all’uso intensivo
delle poche risorse a disposizione e in un periodo di
magra crescita economica la gente lo percepisce.
Dopo il no francese in molti, soprattutto Chirac,
hanno messo l’accento sul concetto, peraltro ratificato
dalla Commissione, di “capacità d’assorbimento”
dell’Ue e cominciato a parlare di partenariati
privilegiati per i candidati all’adesione. Di
cosa si tratta esattamente, di un escamotage per bloccare
l’allargamento alla Turchia e trovare altre forme
di cooperazione?
Se si vuole veramente bene all’Europa e alla
Turchia e quindi si vuole che la Turchia entri nell’Unione
che noi conosciamo, ci si deve chiedere se l’Ue
oggi è in grado di esprimere le stesse politiche
con la Turchia. La risposta è no, perché
non ci sono le risorse per far entrare un paese con
75milioni di abitanti con un pil procapite al 40% della
media comunitaria. Se noi continuiamo a dirci che il
bilancio europeo non può superare l’1,24%
del Pil dell’Ue, o rinunciamo alla politica regionale
per i paesi attualmente membri o la Turchia entra senza
politica regionale. A quel punto però entrerebbe
in una cosa diversa dall’Ue che conosciamo, entrerebbe
in un’Unione dove non c’è più
la solidarietà territoriale. Entrerebbe in un’area
di libero scambio. Per cui finché non riformiamo
le nostre istituzione, il bilancio, la Commissione,
finché non si fanno tutte queste cose, spazio
per la Turchia a politiche invariate non ce n’è.
Far entrare la Turchia vorrebbe dire cambiare la natura
delle nostre politiche. Giustamente molti non ci stanno.
Il partenariato privilegiato è una soluzione?
Il partenariato consiste nell’identificare dentro
il percorso di adesione i capitoli principali da chiudere
subito per iniziare a cooperare su cose serie senza
rinviare perché chi vuole bene alla Turchia sa
che bloccare l’adesione e rallentarne il processo
artificialmente in attesa che l’Ue si decida,
apre lo spazio a interpretazioni nazionalistiche e demagogiche
come è successo in questi giorni. Onde evitare
questo si dice: prendiamo alcuni capitoli dell’adesione
su cui siamo pronti e che sono strategici – emigrazione,
energia, politica estera etc. - chiudiamoli subito nell’ambito
di un partenariato privilegiato, e poi usiamoli come
mattoni nell’ambito di un futuro negoziato di
adesione. In questo passaggio finale Chirac, ad esempio,
non ci segue.
Il partenariato è un’alternativa
o una passaggio verso l’adesione?
Il problema è che in malafede molti lo vedono
come alternativo per sempre all’adesione, ma chi
vuole evitare che l’allargamento ai turchi diventi
uno strumento demagogico di politica elettorale all’interno
della Turchia e dell’Ue dovrebbe dire che si assicurino
subito una serie di capitoli fondamentali del negoziato
con l’impegno reciproco di portare avanti anche
gli altri fino alla fine. Il partenariato lo vedo come
un’alternativa di breve periodo, ma qui i miei
amici francesi non ci stanno.
Quali sono, invece, le motivazioni dei partigiani
della Turchia, come la Gran Bretagna o la stessa Italia?
Quello che vedono inglesi e italiani nella Turchia
è un mercato di 75 milioni di persone che cresce
il 7% l’anno in un’area strategica - da
lì passano tutti i nuovi oleodotti che arrivano
nel Mediterraneo evitando la Russia - in un’area
di importante espansione economica e porta d’ingresso
privilegiato verso il Medio Oriente, un’area geopolitica
di rilevanza fondamentale nel mediterraneo. È
ovvio che paesi storicamente interessati alle relazioni
commerciali e politiche con il Medio Oriente diciamo
Orientale - la Francia ad esempio è più
interessata alla costa Sud, al Libano - vedano nella
Turchia tutti i benefeci dell’adesione. Se ci
fossero le condizioni istituzionali e di bilancio per
me potrebbe entrare domani tanto sono ovvi i vantaggi
economici e politici. Del resto se non ci fossero non
ne staremo neanche parlando.
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