312 - 28.12.06


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Turchia: il dilemma
non trova soluzione

Carlo Altomonte
con Luca Sebastiani


Alla fine, dato che la Turchia ha rifiutato di applicare a Cipro, membro dell’Ue, le disposizioni dell’unione doganiera prevista dal protocollo di Ankara, il Consiglio d’Europa ha deciso di ratificare la raccomandazione della Commissione e di congelare 8 dei 35 capitoli previsti dai negoziati d’adesione. Un colpo d’arresto che ha riaperto il dibattito sull’opportunità stessa dell’adesione della Turchia e dato il fianco a chi crede che il partenariato sia una forma più appropriata di cooperazione con un paese spesso visto come estraneo culturalmente e geograficamente all’identità europea.
Ne abbiamo parlato con il Professor Carlo Altomonte, già consulente presso la Commissione Economica e Monetaria del Parlamento Europeo (Bruxelles) e la Division of Transnational Corporations dell’Unctad (Onu – Ginevra), e attualmente coordinatore del modulo di European Affairs del Master in International Affairs dell’Ispi (Milano).

Professore, i detrattori dell’adesione turca all’Unione Europea avanzano dubbi sull’appartenenza geografica e culturale della Turchia all’Europa. Quanto è fondata questa obiezione?

A norma di trattato non è affatto fondata. L’articolo otto, infatti, dice che ogni Stato europeo può far parte dell’Unione e siccome la Turchia ha una parte europea, tecnicamente può farne parte. Culturalmente bisogna intendersi, perché l’unico criterio per aderire all’Ue è quello cosiddetto politico di Copenaghen che dispone che un paese debba essere una democrazia stabile che rispetti i diritti umani e tuteli le minoranze. È l’unico tratto culturale che il trattato richiede e la Turchia, secondo la Commissione europea e per decisione unanime del Consiglio europeo del dicembre dell’anno scorso, soddisfa questo criterio.

In molti avanzano il problema dell’incompatibilità religiosa della Turchia con l’identità europea.

Quello dell’Ue è un trattato laico in cui l’unico valore che viene riconosciuto è la libertà individuale e quindi, s’immagina, anche la libertà di culto. Se il problema sono invece le nostre relazioni col mondo islamico, chi si oppone all’adesione della Turchia su queste basi sappia che da qui a 15 anni agli attuali tassi d’immigrazione ci saranno 40 milioni di cittadini islamici in Europa concentrati nelle grandi città e il 50% avrà meno trent’anni. Il problema delle relazioni col mondo islamico si pone comunque, anche senza la Turchia.

Queste posizioni non sono la traduzione politica della resistenza degli europei che si è manifestata con il no dei referendum francese e olandese?

Eliminato il problema del paravento culturale del no all’adesione turca che mi sembra più che altro demagogico e strumentale, esiste un problema più generale legato alla volontà dei cittadini europei di allargarsi e condividere la loro area di pace e prosperità con altri paesi. Penso che l’atteggiamento anti-allargamento come c’è per la Turchia possa esserci per l’Albania, la Bosnia, la Serbia e per tutti i paesi che prima o poi entreranno a far parte del bacino d’influenza dell’Ue. C’è un po’ quella che la Commissione ha chiamato “fatica dell’allargamento”. Portare l’Ue da 15 a 25 a 27 è stato un passo molto ampio che ha portato a numerosi compromessi e all’uso intensivo delle poche risorse a disposizione e in un periodo di magra crescita economica la gente lo percepisce.

Dopo il no francese in molti, soprattutto Chirac, hanno messo l’accento sul concetto, peraltro ratificato dalla Commissione, di “capacità d’assorbimento” dell’Ue e cominciato a parlare di partenariati privilegiati per i candidati all’adesione. Di cosa si tratta esattamente, di un escamotage per bloccare l’allargamento alla Turchia e trovare altre forme di cooperazione?

Se si vuole veramente bene all’Europa e alla Turchia e quindi si vuole che la Turchia entri nell’Unione che noi conosciamo, ci si deve chiedere se l’Ue oggi è in grado di esprimere le stesse politiche con la Turchia. La risposta è no, perché non ci sono le risorse per far entrare un paese con 75milioni di abitanti con un pil procapite al 40% della media comunitaria. Se noi continuiamo a dirci che il bilancio europeo non può superare l’1,24% del Pil dell’Ue, o rinunciamo alla politica regionale per i paesi attualmente membri o la Turchia entra senza politica regionale. A quel punto però entrerebbe in una cosa diversa dall’Ue che conosciamo, entrerebbe in un’Unione dove non c’è più la solidarietà territoriale. Entrerebbe in un’area di libero scambio. Per cui finché non riformiamo le nostre istituzione, il bilancio, la Commissione, finché non si fanno tutte queste cose, spazio per la Turchia a politiche invariate non ce n’è. Far entrare la Turchia vorrebbe dire cambiare la natura delle nostre politiche. Giustamente molti non ci stanno.

Il partenariato privilegiato è una soluzione?

Il partenariato consiste nell’identificare dentro il percorso di adesione i capitoli principali da chiudere subito per iniziare a cooperare su cose serie senza rinviare perché chi vuole bene alla Turchia sa che bloccare l’adesione e rallentarne il processo artificialmente in attesa che l’Ue si decida, apre lo spazio a interpretazioni nazionalistiche e demagogiche come è successo in questi giorni. Onde evitare questo si dice: prendiamo alcuni capitoli dell’adesione su cui siamo pronti e che sono strategici – emigrazione, energia, politica estera etc. - chiudiamoli subito nell’ambito di un partenariato privilegiato, e poi usiamoli come mattoni nell’ambito di un futuro negoziato di adesione. In questo passaggio finale Chirac, ad esempio, non ci segue.

Il partenariato è un’alternativa o una passaggio verso l’adesione?

Il problema è che in malafede molti lo vedono come alternativo per sempre all’adesione, ma chi vuole evitare che l’allargamento ai turchi diventi uno strumento demagogico di politica elettorale all’interno della Turchia e dell’Ue dovrebbe dire che si assicurino subito una serie di capitoli fondamentali del negoziato con l’impegno reciproco di portare avanti anche gli altri fino alla fine. Il partenariato lo vedo come un’alternativa di breve periodo, ma qui i miei amici francesi non ci stanno.

Quali sono, invece, le motivazioni dei partigiani della Turchia, come la Gran Bretagna o la stessa Italia?

Quello che vedono inglesi e italiani nella Turchia è un mercato di 75 milioni di persone che cresce il 7% l’anno in un’area strategica - da lì passano tutti i nuovi oleodotti che arrivano nel Mediterraneo evitando la Russia - in un’area di importante espansione economica e porta d’ingresso privilegiato verso il Medio Oriente, un’area geopolitica di rilevanza fondamentale nel mediterraneo. È ovvio che paesi storicamente interessati alle relazioni commerciali e politiche con il Medio Oriente diciamo Orientale - la Francia ad esempio è più interessata alla costa Sud, al Libano - vedano nella Turchia tutti i benefeci dell’adesione. Se ci fossero le condizioni istituzionali e di bilancio per me potrebbe entrare domani tanto sono ovvi i vantaggi economici e politici. Del resto se non ci fossero non ne staremo neanche parlando.


 


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