La divisione
tra tempo produttivo e tempo libero che salta, lavoro
a tutte le ore, la sera come nei week end, le agende
impazzite, i figli lasciati a destra e sinistra, e soprattutto
i pochi, pochissimi soldi che non bastano mai: questa
la fotografia che Luca Salmieri, sociologo alla Sapienza
di Roma, fa di un campione di coppie napoletane, tutte
con un contratto di lavoro atipico.
La prima domanda riguarda il valore del suo
campione: non è troppo ristretto? E inoltre il
napoletano non è un’area peculiare, già
precaria di per sé?
Certo, per questo ho cercato di mettere le mani avanti,
sottolineando che su questa ricerca non vanno costruite
delle visioni che riguardano tutta l’Italia. Sicuramente,
però, se ne possono ricavare delle indicazioni
su come sia effettivamente la vita quotidiana di chi,
nonostante la precarietà, ha composto una famiglia,
perché ha dei figli o è sposato (o convive
da tempo). Si tratta di osservazioni non di tipo statistico,
ma fenomenologico, per così dire. Ad esempio,
non si può affermare che malgrado il
lavoro atipico in Italia ci si sposa e si fanno figli
lo stesso, perché noi non conosciamo le motivazioni
di tutte quelle persone che hanno scelto di non farlo.
In questo senso, si dovrebbero prendere due campioni
grandi, diciamo di mille persone ciascuno, di coppie
normali e di coppie flessibili, e vedere le differenze.
In breve, non possiamo fare inferenze generali dal mio
campione. Ma il mio obiettivo era infatti quello di
raccontare le conseguenze della flessibilità
nell’organizzazione familiare e nell’intimità.
Lei sottolinea a più riprese che essere
flessibili non significa necessariamente essere atipici.
Perché?
Sono anni che a livello mondiale si mette in luce il
fatto che oggi tutti sono chiamati ad avere un approccio
di lavoro diverso rispetto a quello che si aveva trent’anni
fa, quando o si era impiegati o si era operai e ognuno
era responsabile per un particolare processo di lavoro,
così che la sua competenza iniziava e si fermava
in punto preciso. Oggi non è più così,
indipendentemente dai contratti. Questo non vuol dire
che i contratti atipici non abbiano alcuna giustificazione,
perché nascono da alcune esigenze, in quanto
sono legati all’andamento del mercato: per cui
se un’azienda ha bisogno di variare il numero
di lavoratori difficilmente si può accusare di
ingiustizia. Tuttavia, proprio da un punto di vista
di giustizia del lavoro, molti sostengono che proprio
quelli che hanno dei contratti brevi dovrebbero essere
pagati di più, perché è come se
offrissero una consulenza a breve termine. Come spesso
avviene all’estero.
Lei sembra mettere in discussione anche l’idea
che i contratti flessibili facciano aumentare l’occupazione.
Riprendendo gli studi fatti a livello europeo, e fermo
restando che il paradigma della flessibilità
vale per tutti i tipi di lavoratori, ciò che
metto in discussione è che la deregolamentazione
sia uno strumento per aumentare l’occupazione:
e per deregolamentazione intendo lo “svuotamento”
di tutele dei rapporti di lavoro. Al di là del
tipo di contratto, infatti, si è osservato come
in tutti i paesi europei i diritti e le tutele dei lavoratori
sono diminuiti, perché sono venute meno molte
delle regole che sancivano il rapporto di lavoro. Questo
perché si pensava che l’Europa fosse troppo
rigida: ma, citando degli studi che sono stati fatti,
cerco di mostrare come la crescita del tasso di occupazione
dipenda da altre variabili.
Un’altra tesi che lei mette in discussione
è che la precarietà sia l’anticamera
del lavoro stabile.
Sempre basandomi su alcune ricerche, visto che la mia
indagine si fonda come ho detto su un campione limitato
(è una ricerca quasi “etnografica”),
mostro come la vecchia idea secondo cui i contratti
atipici favoriscano l’inserimento nel mondo del
lavoro (come una sorta di “gavetta”) non
regge al confronto con i dati. È vero tuttavia
che è difficile confutare il contrario. Per farlo,
bisognerebbe prendere delle persone e osservarle nel
corso dei dieci anni per vedere che succede; tuttavia,
il fatto che aumenti sempre più la quota di persone
con un contratto atipico che hanno tra i 30 e i 40 anni,
è plausibile affermare che il lavoro flessibile
non sia per forza un trampolino di lancio verso il lavoro
stabile.
Lei distingue l’esercito degli atipici
in diverse categorie.
Proprio a seguito di quanto detto, nasce l’esigenza
di non considerarli come una tipologia unica, perché
presentano molte differenze, che non sempre dipendono
dal tipo di contratto: cioè non si può
dire quale contratto dà maggiori garanzie.
Tuttavia il part-time o il contratto a tempo
determinato sono più tutelati.
Sì, ma ovviamente il tipo di contratto va incrociato
con una serie di variabili sociologiche, perché
una cassiera di un supermarket o un contabile di un’azienda
possono avere entrambi il contratto a tempo determinato,
ma nel primo caso c’è una bassa qualificazione,
nel secondo la persona è laureata e ha molte
chances in più: quindi la costruzione di questi
profili è stata fatta incrociando i contratti
con le variabili sociali. E quello che ne è venuto
fuori sono, appunto, alcune categorie: i temporanei
permanenti, ovvero quelli che de facto hanno una continuità
lavorativa abbastanza elevata, anche se le aziende preferiscono
rinnovargli il contratto di volta in volta. In questo
caso siamo di fronte ad una situazione che consente
una programmazione privata, ma che è tuttavia
rischiosa nei casi rari in cui il contratto non viene
rinnovato, perché le persone, sentendosi in qualche
modo al sicuro, non sono state allenate alle flessibilità
e alle sue opportunità. Poi c’è
il mondo delle collaborazioni, il lavoro cosiddetto
parasubordinato, che è un po’ un ibrido:
all’interno ci sono infatti quelli con approccio
davvero imprenditoriale e i cosiddetti monocommittenti:
quest’ultimi, dei veri e propri pseudodipendenti,
sono simili per orari e abitudine a un dipendente e
quindi aspirerebbero a diventare come i loro colleghi,
anche se la loro intensità lavorativa è
maggiore; i protoimprenditori utilizzano invece queste
collaborazioni per allenarsi a diventare dei veri lavoratori
autonomi o in alcuni casi delle piccole imprese.
Poi c’è il part-time.
Sì, anche se non è così diffuso
come altrove, e riguarda quasi esclusivamente le donne.
Esso consente di istaurare una divisione del lavoro
tradizionale a livello di organizzazione familiare,
perché c’è la risorsa tempo permette
di supplire alla mancanza di una rete di servizi sociali.
Anche il part-time ha tuttavia un carattere paradossale:
da un lato favorisce un equilibrio, dall’altro
lato però è un freno all’emancipazione
delle donne, perché anche se è invocato
da tutti come strumento di innalzamento dell’occupazione
femminile, consiste molto spesso in un lavoro poco qualificato
e senza prospettive di carriera. Inoltre, esso è
spesso offerto ma non scelto dalle donne: per esempio
è molto difficile che una manager possa avere
il part-time.
Insicurezza, precarietà, incertezza:
come incidono questi aspetti sulla vita di coppia e
sulla maternità?
Sulla maternità la questione delle tutele pesa
tantissimo, soprattutto quando l’arrivo di un
bambino non è pianificato. Con la nascita, infatti,
si rafforza il modello tradizionale: l’uomo si
sente ancora più responsabilizzato nell’ottenere
più soldi o nel cercare la stabilità,
così che anche le coppie che sembravano non aderire
a dei modelli tradizionali, ripiegano su questo modello:
la donna deve stare a casa, anche se culturalmente non
ne aveva mostrato i segni, e per uno o due anni diventa
una casalinga vera e propria.
Sempre a proposito di maternità, lei
parla tuttavia di un atteggiamento “programmatore”
oppure da “giocatore d’azzardo”.
Ho visto che ci sono delle coppie, che io ho chiamato
appunto giocatori d’azzardo, che al di là
dell’età hanno digerito lo stile di vita
flessibile, del giorno per giorno; infatti non sposano
l’atteggiamento dei cosiddetti programmatori,
ma prendono gli eventi in maniera più naturale.
Questa distinzione tuttavia era funzionale a mettere
in luce che in fondo, al di là delle variabili
strutturali, c’è sempre una soggettività,
un’isola che, per quanto influenzata da queste
problematiche, resta comunque autonoma.
E ci sono anche delle difese che queste coppie
mettono in atto…
Sì, molte mostrano di aver positivamente sposato
la flessibilità, quindi magari adottano delle
situazioni fantasiose (ad esempio se fanno dei lavori
intellettuali durante la maternità lavorano da
casa): insomma, hanno un atteggiamento moderno, anche
se esso ha degli strascichi nella sfera intima della
coppia. Ma la cosa fondamentale è che tutti tendono
a pensare che questi periodi di difficoltà siano
dei periodi di transizione: cioè la molla che
non fa rassegnare è quella che porta a considerare
come transitoria questa fase di organizzazione familiare.
Ed è così?
Purtroppo molti non si rendono conto che essa è
passeggera solo nella loro percezione, perché
magari nella realtà il periodo di assestamento
dura da cinque o sei anni. Il fatto è che le
persone si creano dei paracaduti psicologici, dicono
“comunque ci sarà un momento in cui avremo
una stanza più grande, una situazione di lavoro
stabile, oppure potremo concederci un cinema o una cena
fuori”. Tutto questo per accettare una situazione
dura dal punto di vita economico e organizzativo.
Una situazione durissima, infatti. Ma la politica
non sembra dare alcuna risposta a queste persone. Cosa
ne pensa?
Il problema è che si mette nello stesso calderone
una serie diversa di situazioni. Volutamente ho scelto
per il mio libro il titolo “Coppie flessibili”,
e non precarie, perché all’interno di questo
universo c’è anche chi, con una serie di
difficoltà organizzative, dal punto di vista
economico sta bene: si tratta di atipici forti di competenze
professionali e relazioni lavorative, che riescono persino
a mettere i soldi da parte. Ovviamente sono una minoranza.
In ogni caso, la prima cosa da dire è che le
politiche devono essere declinate al plurale. Questo
significa pensare a rafforzare delle misure che non
siano dirette specificamente agli atipici, e quindi
non riguardino direttamente il lavoro, ma per esempio
diffondere i servizi che possano favorire chi a causa
di un lavoro atipico è penalizzato nell’organizzazione
della vita quotidiana, come i servizi dell’infanzia.
Oggi sono tantissimi i bambini che non rientrano negli
asili nido, alla faccia del calo delle nascite.
Va bene. Ma dal punto di vista legislativo?
Già sarebbe un’ottima cosa far rispettare
alla lettera la normativa esistente, perché il
30-40 per cento di queste persone ha un lavoro simile
ai dipendenti. Infine, cosa ovviamente centrale, occorre
estendere a queste forme di lavoro i diritti e le tutele
che sono presenti per il lavoro standard. In altre parole:
può andar bene che uno ha il contratto di un
anno, ma in quell’anno a maggior ragione deve
poter contare su giorni di malattia retribuiti, sulla
vacanza, e soprattutto sulla liquidazione che, come
avviene in Danimarca, dovrebbe essere inversamente proporzionale
al periodo di lavoro (quanto meno hai lavorato, quanto
più è alta la fuoriuscita). Insomma, da
un lato andrebbero rispettate le norme per le quali
sulle carta si dovrebbe utilizzare il lavoro atipico,
dall’altra bisognerebbe rendere più attraente
e protetta questa tipologia.
Cosa pensa dell’introduzione di un sussidio
di disoccupazione?
Il fatto è che noi scontiamo più degli
altri paesi l’introduzione del lavoro atipico
perché a causa delle precedenti politiche di
welfare abbiamo dei grossi gap. Il problema non è
dare un sussidio di disoccupazione all’atipico
nel momento in cui passa da un lavoro all’altro,
il problema è dare il sussidio di disoccupazione
a chi è disoccupato, indipendentemente dal tipo
di contratto che aveva prima. Tanto è vero che
siamo rimasti solo noi, la Grecia e la Spagna a non
prevedere in tutta Europa un minimo di aiuto ai giovani
disoccupati. Poi si può discutere su come erogare
questo aiuto, ma i modi ci sono: in Inghilterra, ad
esempio, bisogna dimostrare che ci si è attivati
per trovare un lavoro.
Come giudica l’azione dei sindacati?
È vero secondo lei che proteggono solo gli insider?
Il fatto che i sindacati difendano gli insider
non è negativa di per sé, perché
bisognerebbe tentare di migliorare la situazione equiparando
i primi e i secondi, e non tutto il contrario, facendo
una democratizzazione dei rischi sociali al ribasso.
Sicuramente le organizzazioni sindacali italiane si
sono accorte in ritardo di questi lavori e in più
anche loro sono cadute nel facile errore di fare tutta
un’erba un fascio, cosa che ha reso anche difficile
organizzare una trama attraverso la quale farsi portatori
delle rivendicazioni e dei problemi di queste diverse
categorie. L’altra cosa che mi viene da dire sui
sindacati è che in parte sono giustificati dall’estrema
individualizzazione del rapporto di lavoro. Prima il
rapporto tra datore di lavoro e lavoratore era meno
asimmetrico perché il lavoratore aveva la forza
di alcuni diritti collettivi, il contratto, un rappresentante
sindacale. Oggi sempre più il rapporto di lavoro
sembra uscire dall’ombrello del diritto collettivo
ed entrare nel diritto privato. In altre parole, è
come se questi contratti fossero dei rapporti commerciali
e allora il rapporto di forza diventa molto più
asimmetrico, e il lavoratore è sempre più
debole.
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