Questo
articolo è tratto dal lessico del dialogo tra
le civiltà della rivista ResetDoC
Qualunque tipo di pensiero –anche degli studiosi
e degli scienziati – procede per modelli prestabiliti,
stereotipi, pregiudizi. Questi ultimi sono intrinseci
ad ogni processo cognitivo: secondo Hans Georg Gadamer,
i pregiudizi condizionano la realtà storica dell’individuo
molto di più dei suoi giudizi. Da essi, a suo
parere, è impossibile prescindere, benché
si possa rimetterli continuamente in discussione per
evitare che si cristallizzino.
In un’altra accezione, il pregiudizio è
un’opinione, un sentimento, un’attitudine
coltivati e/o espressi non per conoscenza diretta di
un individuo o di un gruppo sociale, ma in base a luoghi
comuni, cliché, stereotipi più o meno
largamente condivisi. Tipico del pregiudizio inteso
in tal senso è la tenace resistenza alle prove
dell’esperienza, della conoscenza, della relazione
diretta. Cristallizzandosi in forme irreversibili e
divenendo modo consueto e socialmente condiviso di percepire
e rappresentare certe categorie di persone o gruppi
minoritari, i pregiudizi possono alimentare o giustificare
discriminazione e razzismo.
È il pregiudizio orientato in senso negativo,
in particolare verso gruppi minoritari, che ha attirato
l’attenzione di una numerosa schiera di studiosi,
dando luogo a molteplici teorie interpretative, quasi
tutte utili a comprendere un fenomeno dall’eziologia
assai complessa. A partire dagli anni Cinquanta, gli
studi si moltiplicano, anche per influenza dell’opera
diretta da Theodor W. Adorno, La personalità
autoritaria, pubblicata nel 1950. Frutto di una ricerca
collettiva, quest’opera indaga il pregiudizio
principalmente al livello della personalità individuale,
interpretandolo, in definitiva, quale esito di un’educazione
rigida, conformista, autoritaria.
Nell’ambito della psicologia sociale, l’opera
del 1954 dello statunitense Gordon W. Allport, La natura
del pregiudizio, ha il merito d’integrare l’analisi
dei processi cognitivi con quella delle dimensioni sociali
del pregiudizio. Per Allport, il pregiudizio è
un “atteggiamento di rifiuto o di ostilità
verso una persona appartenente ad un gruppo, semplicemente
in quanto appartenente a quel gruppo, e che pertanto
si presume in possesso di qualità biasimevoli
generalmente attribuite al gruppo medesimo”. Il
pregiudizio scaturisce da processi cognitivi, segnatamente
dalla propensione, propria ad ogni individuo, a categorizzare,
per organizzare, semplificare e schematizzare la complessità
della realtà sociale. La categorizzazione, a
sua volta, essendo di per sé un processo riduttivo
ed associandosi a una componente affettivo-valutativa,
può produrre stereotipi, generalizzazioni arbitrarie
ed etichettamenti.
Sempre nell’ambito della psicologia sociale,
un altro contributo importante è quello di Henri
Tajfel, il quale si sofferma sulla funzione sociale
del pregiudizio, che correttamente analizza nell’ambito
delle relazioni –molteplici, complesse e mutevoli-
fra gruppi sociali diversi. Proponendosi d’indagare
il processo che porta alla discriminazione di individui
e gruppi diversi dal “noi”, egli mette in
luce come il pregiudizio svolga una funzione identitaria:
soprattutto quando la propria identità sociale
è percepita come incerta e minacciata, si tende
a preservarla o a ricostituirla attraverso processi
di categorizzazione che enfatizzano la differenza noi/altri,
l’immagine positiva di sé e quella negativa
degli altri. Stereotipi e pregiudizi si strutturano
sulla base della tradizione culturale, del sistema valoriale,
degli interessi e del bisogno di differenziazione propri
di un gruppo determinato, e possono alimentare o giustificare
discriminazione ed ostilità.
Stereotipi e pregiudizi tendono a semplificare la realtà
sociale, negandone la complessità, la molteplicità,
l’ambivalenza, la storicità. Essi si presentano
spesso sotto le forme: della generalizzazione arbitraria;
della naturalizzazione di caratteri storici, sociali,
culturali, veri o presunti, del gruppo-vittima; della
tendenza ad etichettare una categoria di persone o una
collettività sulla base di alcuni tratti –pochi
e standardizzati- e a designare, in base a questi, tutti
gli individui che le compongono: ogni ebreo sarebbe
ultrasionista, avido di denaro, legato a lobby potenti,
ogni musulmano fanatico e potenziale terrorista, ogni
“zingaro” accattone, ladro, rapitore di
bambini, ogni “clandestino” deviante o delinquente.
Gli “altri” sono così cancellati
come individui, come persone uniche e singolari.
Alcuni pregiudizi, che si sono formati e stratificati
attraverso varie tappe della storia europea, costituiscono
repertori sempre latenti, che periodicamente riemergono
o tornano ad essere mobilitati in contesti e con funzioni
e scopi diversi. Ciò è particolarmente
vero per i pregiudizi antiebraici e per quelli contro
i rom e i sinti. Fra i pervicaci pregiudizi sugli “zingari”,
anche quelli in apparenza più banali contribuiscono
ad alimentare la stigmatizzazione, la discriminazione,
l’ostilità: per esempio, in Italia molte
istituzioni agiscono spesso in base al pregiudizio che
li vuole “nomadi” da sempre e per sempre,
il che contribuisce a perpetuarne la segregazione in
campi-ghetto.
I pregiudizi -oggi più che mai veicolati, legittimati
e rafforzati dai mass-media- innescano un circolo vizioso
ben analizzato dagli studiosi: se le minoranze oggetto
di pregiudizio non possono accedere a diritti fondamentali
come, per esempio, quello all’abitazione, è
perché il pregiudizio e la discriminazione conseguente
impediscono l’esercizio di questo diritto. Ciò
a sua volta, accrescendo la loro marginalità
e visibilità, alimenta pregiudizio, discriminazione,
eventualmente xenofobia.
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