Questo
articolo è tratto dall’ultimo numero di
Reset.
Lo stupore per la reazione negativa di Gianfranco Fini
dopo la proiezione de Il mercante di pietre,
si perdoni il gioco di parole, lascia stupiti. Renzo
Martinelli, il regista di questo film tanto ingiustamente
censurato quanto giustamente criticabile, lo ha definito
di «stampo fallaciano». E chi conosce la
storia della destra italiana sa che, dentro Alleanza
nazionale ma non solo, il fallacismo in tutte le sue
varianti – sia la prima Oriana Fallaci, quella
che addossava sui «fascisti» la responsabilità
dell’omicidio di Pasolini, sia l’ultima
forsennatamente anti-islamica – ha messo poche
radici, e molto deboli.
Quando nel 2005 «Libero» lanciò
la raccolta di firme per la nomina della Fallaci a senatore
a vita, nella classe dirigente della destra le adesioni
furono pochissime. Gli intellettuali più letti
a destra, da Massimo Fini a Franco Cardini, non hanno
mai nascosto la loro contrarietà a qualsiasi
ipotesi di guerra totale all’Islam perché
estranea alla più pura tradizione italiana ed
europea. Quando Giuliano Ferrara nel novembre 2005 promosse
una fiaccolata sotto l’ambasciata iraniana per
protestare contro l’antisemitismo di Ahmadinejad,
Marcello Veneziani scrisse: «Non giochiamo con
le cose serie, anzi tremende, solo perché vogliamo
mostrarci all’altezza dei pamphlet di Oriana Fallaci».
E contro l’equiparazione Fallaci-destra scese
in campo anche il «Secolo d’Italia»,
ricordando le prese di posizione contrarie all’orianismo
che accomunavano Adolfo Urso e Pietrangelo Buttafuoco
e i ragazzi di «Gioventù identitaria»
e così via. Nell’articolo, Luciano Lanna
chiudeva così: «Il minimo comun denominatore
di ciò che si dice e si pensa in questi anni
nella destra culturale e politica a proposito d’immigrazione,
multiculturalismo, civiltà euro-mediterranea,
Islam, rapporto Oriente-Occidente, integrazione, è
in realtà profondamente, forse intrinsecamente,
antifallaciano». Allora perché stupirsi
quando il presidente di Alleanza nazionale definisce
Il mercante di pietre un esempio «propaganda
becera» che rischia di alimentare la xenofobia?
Scomodiamo solo un attimo qualche ricordo storico: nel
1988 ai funerali di Giorgio Almirante c’erano
le rappresentanze diplomatiche di dodici paesi arabi.
Chiusa la parentesi. Non possiamo dimenticare che una
scelta il leader della destra italiana l’aveva
già fatta, e sufficientemente netta, nel novembre
2003 quando presentò una proposta legislativa
di concessione del voto amministrativo agli immigrati
regolari che raccolse consensi trasversali - persino
da Mario Pirani su «Repubblica».
L’iniziativa finiana venne discussa il mese dopo
nel convegno «Immigrazione, integrazione e cittadinanza
» confrontandosi, insieme a Gianni Alemanno e
Rocco Buttiglione, con le comunità e le associazioni
di immigrati. La stampa italiana, attaccata morbosamente
ai rumors successivi alla visita di Fini in Israele,
si dedicò poco alla faccenda, che comunque mantiene
un fortissimo significato simbolico e segnala che il
tema del rapporto tra la destra italiana – quella
storicamente radicata nel paese, non quella americanomorfa
d’importazione – e l’Islam comprende
una considerazione squisitamente politica: Fini, ma
non solo lui, sa bene che la principale linea di frattura
tra una destra «integrata» e un’estrema
destra populista non riguarda solo la ripulsa dell’antisemitismo
ma anche e soprattutto l’atteggiamento da tenere
nei confronti dei milioni di immigrati nel nostro Paese,
a stragrande maggioranza mussulmana. È naturale
in questo quadro che la sfida è quella di un’integrazione-
assimilazione che rifiuti l’ideologizzazione del
multiculturalismo e concepisca una via aperta e inclusiva
all’italianità e all’identità
nazionale.
Lo stesso Fini l’ha ribadito di recente nell’articolo,
pubblicato sul «Corriere della sera», spiegando
la radice della sua opposizione a una legge contro il
«velo»: «In una società multietnica
e multiconfessionale […] il riconoscimento, ad
una minoranza come quella islamica, del diritto di avere
i propri luoghi di culto non contraddice il senso dell’identità
nazionale ma contribuisce a far crescere quest’identità
verso forme più consapevoli e mature».
Qualcuno obietterà che questa posizione potrà
creare qualche disagio dentro il partito – vedi
il «caso Santanché» – e difatti
alcuni giornali hanno parlato dell’ennesimo «strappo»,
dello lo scollamento tra un leader innovatore e una
base più retrò. Attaccarsi a
questo tipo di osservazione è però fuori
luogo. Bisogna scegliere, proprio oggi che si denuncia
una scarsa capacità di vision della
classe politica: o ci si rassegna all’idea leader
di partito che vanno a traino della propria «base»,
e allora finiamola di lamentarci dei partiti schiavi
dei sondaggi o del giudizio dei media, oppure si riconosce
che un leader innovatore detta l’agenda e stare
«un passo avanti » rispetto a elettori e
militanti, con tutti i rischi che questo comporta. Fini,
pensiamo, ha scelto la seconda strada.
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