Gli obiettivi 
                          e i principi dell’Associazione 
                          Reset Dialogues on Civilizations nel manifesto scritto 
                          dopo la conferenza del Cairo, “Oltre Orientalismo 
                          e Occidentalismo”, nel marzo del 2006.  
                         
                          Le condizioni di pari dignità 
                          Creare una situazione di reale parità nel dialogo 
                          interculturale è una premessa onerosa ma indispensabile. 
                          Alla difficoltà che accompagna in generale le 
                          relazioni politiche internazionali si aggiunge la complessità 
                          di un confronto di idee che ha per obiettivo quello 
                          di approfondire la conoscenza dei diversi punti di vista, 
                          dei contesti e delle tradizioni in cui si collocano 
                          le forme di pensiero che gli altri rappresentano. Impossibile 
                          trascurare il fatto che il dialogo nelle sua forma più 
                          compiuta – quella che perseguiamo – non 
                          può fare astrazione né dalle diversità 
                          politiche né dalle relazioni di potere che esso 
                          coinvolge in modo diretto o indiretto (Hassan Hanafi). 
                          Nel momento in cui si affaccino – da qualsiasi 
                          parte – diffidenze e risentimenti che hanno radici 
                          nella storia coloniale o nelle disuguaglianze economiche 
                          o in guerre e contrasti recenti che vengono vissuti 
                          come umilianti, anche questi elementi vanno sottoposti 
                          a quel genere di confronto che Fred Dallmayr ha definito 
                          «etico-ermeneutico»: un tipo di dialogo 
                          che coinvolge l’intero background culturale e 
                          spirituale, letterario e artistico, e soprattutto le 
                          aspirazioni e sofferenze esistenziali, il confronto 
                          degli stili di vita e delle mentalità che vi 
                          sono collegate.  
                        Confronto di mentalità  
                          La pari dignità e reciprocità è 
                          molto onerosa perché chiede di capire anche quello 
                          che viola le forme mentali più radicate da ogni 
                          parte: chiede per esempio ai liberali europei di capire 
                          la reazione risentita di musulmani insultati nella loro 
                          fede, ma chiede anche agli intellettuali dei paesi musulmani 
                          di capire che repressione e violenza contro giornalisti 
                          e scrittori non solo violano astratti principi di libertà 
                          ma feriscono un sentimento di libertà che vive 
                          nella mentalità di cittadini cresciuti in società 
                          democratiche aperte (Otto Schily). La difesa di una 
                          condizione di parità nel dialogo è molto 
                          onerosa anche perché la accettazione della condizione 
                          di parità, anche soltanto metodologica, sembra 
                          legittimare lo status quo e dunque beneficiare generosamente 
                          chi è sospetto di soprusi a danno dell’altra 
                          parte. Questa sospensione – o rielaborazione – 
                          del risentimento è questione cruciale, obiettivo 
                          forse principale di ogni progetto di dialogo. Solo praticando 
                          occasioni di incontro è possibile addestrarsi 
                          ad una più equilibrata visione degli altri e 
                          a depurare le differenze di giudizio politico sulle 
                          situazioni critiche – che non possono essere preliminarmente 
                          superate – da questo sovraccarico di tensione 
                          che deriva dalla diversità dei contesti, delle 
                          storie, delle mentalità.  
                        Il “double standard” 
                          Il tema ricorrente del double standard, ovvero dei “due 
                          pesi e due misure”, è una formula che contiene 
                          una protesta di sfondo contro uno squilibrio in potere, 
                          la denuncia di una prevaricazione da parte del più 
                          potente contro il più debole, la critica dell’egoismo 
                          e dell’etnocentrismo degli altri contro una propria 
                          condizione di vittima. La disputa sulla collocazione 
                          del “centro” e della “periferia”, 
                          dell’”io “ e dell’”altro” 
                          è una dominante nel dibattito post-coloniale 
                          ed ha una base storica oggettiva, i cui effetti sono 
                          resi particolarmente acuti nel mondo arabo (e più 
                          in generale musulmano) dal conflitto mediorientale e 
                          dagli squilibri economici. Il tema del double standard 
                          tende a venir esteso in tutti i campi e comporta una 
                          tendenziale struttura della discussione che si polarizza 
                          tra Est e Ovest, tra Occidente e Oriente, tra amici 
                          di Israele e amici dei Palestinesi, Stati Uniti e mondo 
                          arabo. Alla polarizzazione (che tende a estremizzare 
                          la posizione degli altri) si aggiunge la tendenza a 
                          percepire l’altra parte come una unica entità 
                          compatta, come un soggetto dotato di una sua propria 
                          volontà e responsabilità e di conseguenza 
                          ad accusare l’intero “Ovest” o l’intero 
                          “Islam” di qualche imputazione. Una rappresentazione 
                          che non corrisponde affatto alla realtà in entrambe 
                          le direzioni, sia che si tratti del rapporto tra Occidente, 
                          guerra in Iraq, torture di Abu Ghraib sia che si tratti 
                          di quello tra mondo islamico, resistenza palestinese, 
                          terroristi suicidi. Oppure del rapporto in generale 
                          di entrambe le sponde nei confronti delle proprie componenti 
                          più radicali, estreme, violente. Sono perciò 
                          essenziali per migliorare la reciproca comprensione 
                          tutte le iniziative che avvicinano a una visione realistica 
                          e articolata, anche perché la critica del double 
                          standard non proviene solo da ambienti estremisti ma 
                          caratterizza anche le posizioni moderate, corrisponde 
                          a una sfocata esigenza di equilibrio che nasce per lo 
                          più da una visione sommaria degli Altri come 
                          un unico blocco (Giuliano Amato).  
                        Un esempio: Copenhagen-Vienna 
                          Un esempio di questo genere di deformazioni lo ricavo 
                          da una intervista ad Al-Sayed Yassin, intellettuale 
                          egiziano di cultura secolare, fondatore del Centro studi 
                          strategici del Cairo. L’intervista comparirà, 
                          insieme ad altre sul sito dell’Associazione. Chiama 
                          in causa il double standard a proposito della reazione 
                          prevalente nel mondo occidentale alle vignette anti-islamiche 
                          del Jilland-Post, e contraria a provvedimenti penali 
                          nel nome della libertà di opinione e di stampa. 
                          Yassin osserva che questo genere di reazione è 
                          stata pressoché assente nel caso della condanna 
                          di David Irving a Vienna per le sue tesi negazioniste 
                          sull’Olocausto. La osservazione di Yassin è 
                          verto da discutere e in effetti una discussione su questo 
                          tema comparirà sulla rivista italiana “Reset” 
                          e poi sul sito già citato, con interventi di 
                          Marcello Flores, Michael Walzer e altri. Sia le reazioni 
                          alla sentenza di Vienna che quelle alle vignette di 
                          Copenhagen andrebbero dunque considerate in una prospettiva 
                          globale, perché esse hanno effetti, come si vede, 
                          sul piano globale. E uno sguardo di quel genere suggerirebbe 
                          probabilmente nuovi argomenti a tutti. L’intera 
                          discussione sull’Olocausto nel mondo arabo è 
                          considerata con il metro di misura dell’influenza 
                          del “potere sionista” e lo sberleffo nei 
                          confronti della religione musulmana, da parte dei giornali 
                          occidentali o di qualche sconsiderato leader politico, 
                          è giudicata con il metro di misura delle minoranze 
                          musulmane in Europa che chiedono risarcimento per il 
                          loro orgoglio ferito.  
                        Il dialogo sulla democrazia 
                          Il dialogo è efficace se riesce a tenere sotto 
                          controllo le asimmetrie di vario genere che lo ostacolano. 
                          Fred Dallmayr, discutendo con Hanafi, ha messo in guardia 
                          nei confronti del rischio di farsi scudo di queste asimmetrie 
                          per precludere il dialogo invece di chiarificarle e 
                          neutralizzarle per renderlo migliore. Su un terreno 
                          reso difficilissimo da risentimenti e scambi di accusa 
                          tra Occidente e mondo arabo, dalla crisi palestinese 
                          e dalla guerra in Iraq, è difficile immaginare 
                          che la discussione sullo sviluppo della democrazia nei 
                          paesi non democratici del mondo possa svolgersi come 
                          pura espansione del “potere di seduzione” 
                          dei modelli politici e culturali occidentali o come 
                          applicazione di un modello pedagogico con l’Occidente 
                          in cattedra e l’Oriente sui banchi di scuola. 
                          Acquista un rilievo crescente, dal punto di vista di 
                          chi come noi auspica uno sviluppo globale dei regimi 
                          democratici e delle società aperte, la visione 
                          della democrazia come risultato di un processo di interpretazione 
                          e reinterpretazione delle singole e diverse tradizioni 
                          e storie culturali. È ragionevole pensare che 
                          abbiano ragione Charles Taylor, Michael Walzer e Amartya 
                          Sen quando sostengono che ogni cultura contiene in se 
                          stessa principi e idee che possono ispirare i popoli 
                          ad avanzare richieste politiche che rendano responsabili 
                          le forme di governo verso i governati, e richieste di 
                          riconoscimento dei propri diritti da parte dei governati. 
                          Principi e idee che possono ispirare l’impegno 
                          a una interpretazione critica delle fonti della propria 
                          tradizione, della propria morale, dei propri testi. 
                          (Nadia Urbinati) 
                        Gli scambi del passato 
                          Il confronto sulle fasi storiche dello scambio tra culture 
                          si rivela utile nell’avvicinare a una conoscenza 
                          più articolata delle altre parti in dialogo. 
                          In particolare le relazioni alla conferenza del Cairo 
                          (Burnett, Campanini, Ehmad, Gutas) hanno messo in luce 
                          sia le situazioni di contesto che hanno reso possibili 
                          le fasi di più intenso scambio sia i modelli 
                          di integrazione culturale che si sono realizzati in 
                          alcuni momenti favorevoli della storia, dal modello 
                          Baghdad al modello andaluso. La traduzione dei testi 
                          scientifici dal greco all’arabo nel nono secolo 
                          e dall’arabo al latino nel XII e XIII secolo sono 
                          stati momenti di svolta e di eccezionale avanzamento 
                          nella storia umana, paragonabili alla rivoluzione scientifica 
                          europea nel Seicento. Lo scambio è nato dal bisogno 
                          che una cultura sente di colmare le sue lacune, come 
                          accadde per il mondo latino medievale, povero di matematica, 
                          fisica e medicina. (Burnett) L’approfondimento 
                          della conoscenza dello sfondo aiuta il dialogo perché 
                          consente di guardare la situazione presente in uno schema 
                          temporale, colloca le differenze attuali in una situazione 
                          storica, arricchisce la conoscenza di dimensioni altre 
                          rispetto a quelle che sono proprie e consuete per ciascuno, 
                          stimola una riflessione sui programmi scolastici dei 
                          rispettivi paesi, contribuisce a dissolvere diffidenze, 
                          suggerisce nuove iniziative per il futuro che valorizzino 
                          una conoscenza della storia degli Altri che ne complichi 
                          e articoli la visione ostacolando la formazione di blocchi 
                          omogenei e di stereotipi. 
                        Orientalismo e occidentalismo 
                          La formula di “orientalismo” ed “occidentalismo” 
                          come etichette di contenitori delle deformazioni reciproche 
                          è stata generalmente accettata, o non contestata, 
                          anche se qualche voce di parte egiziana ha manifestato, 
                          velatamente e indirettamente, una sorta di diritto a 
                          una certa fase di “occidentalismo” come 
                          studio dell’ “Io-centro” da parte 
                          dell’ “Altro-periferia”, a ruoli rovesciati: 
                          l’altro diventa Io. D’altra parte anche 
                          il termine Orientalismo non è indicatore soltanto 
                          di una deformazione ma di un intero ciclo storico di 
                          studi da parte dell’Occidente. L’Occidentalismo 
                          nella versione di Margalit – coniato sul modello 
                          della reazione antimoderna della cultura che produsse 
                          i kamikaze giapponesi negli anni Quaranta – è 
                          piuttosto un raccoglitore di deformazioni della civilizzazione 
                          occidentale, fino alla degradazione del nemico e alla 
                          stigmatizzazione della sua “idolatria” (come 
                          nei testi sacri) per la metropoli del peccato, del consumismo 
                          e del nichilismo. L’Occidentalismo di Margalit 
                          non è esattamente speculare all’Orientalismo 
                          di Edward Said. Ma il suo contributo è penetrante: 
                          sia nel libro che ha scritto con Ian Buruma, sia nel 
                          paper presentato a Roma il tema della visione della 
                          civilizzazione da parte del Sud, o dell’Est, del 
                          mondo è posto in modo da accentuare che il contrasto 
                          non è “tra le culture” ma “tra 
                          le culture e la civilizzazione” (ovvero la modernità). 
                          Ma anche chi rivendica con orgoglio, per simmetria, 
                          il diritto a una fase post-coloniale di studi dell’ 
                          “Altro” occidentale, ammette poi la necessità 
                          di guardare “al di là” di questa 
                          fase (Hanafi). 
                        Tra secolarismo e riformismo religioso  
                          Il confronto con gli intellettuali dei paesi musulmani 
                          da parte di quelli europei e americani, e in misura 
                          particolarmente acuta in Egitto e in Iran, nonostante 
                          le notevolissime differenze tra i due contesti, mette 
                          in luce una complessa discussione nell’ambito 
                          della cultura dei paesi islamici tra una ispirazione 
                          che possiamo definire secolare e una ispirazione di 
                          riformismo religioso. Un intellettuale affermato e di 
                          lunga esperienza come Sayed Yassin, per esempio, definisce 
                          se stesso, come lo stato egiziano, sulla base del concetto 
                          di secolare. Altri come Mohammad Salmawi, presidente 
                          degli scrittori egiziani, preferisce definirsi “civile”, 
                          sia perché ritiene il concetto di secolare portatore 
                          di una contrapposizione troppo accentuata con la religione, 
                          sia perché definire secolare lo stato egiziano, 
                          che certamente è “più secolare” 
                          di altri stati del mondo islamico, vuol dire descrivere 
                          una situazione che si adatta di più agli stati 
                          europei. E se si assume quello europeo come standard 
                          di secolarizzazione lo stato egiziano non può 
                          essere definito “secolare” nello stesso 
                          modo (Salmawi). 
                        La discussione nel mondo musulmano tende talora a divaricarsi 
                          tra intellettuali “secolari”, nel senso, 
                          variamente interpretato, di liberali (per questo si 
                          rimanda, tra i molti possibili riferimenti, al lavoro 
                          di Filali Ansari e a quello di Ramin Jahanbegloo) impegnati 
                          nella modernizzazione delle istituzioni dei loro paesi 
                          ma non coinvolti nella discussione teologica ed altri 
                          che ritengono necessario, indispensabile, per consentire 
                          un’evoluzione liberale degli ordinamenti e della 
                          legislazione degli stati del mondo islamico, un’interpretazione 
                          del testo coranico e della sunna che consenta di comprendere 
                          il contesto storico in cui certe affermazioni venivano 
                          intese in altre epoche e di accedere a una più 
                          profonda comprensione del significato dei testi sacri 
                          nella nostra epoca. Si tratta di ordini di discussione 
                          che spesso non si incontrano, a volte si contrappongono 
                          e più spesso si ignorano. Sul ruolo della religione 
                          è in corso in Egitto una vasta discussione: l’elezione 
                          di una consistente minoranza di deputati che appartengono 
                          al movimento dei Fratelli musulmani l’ha resa 
                          ancora più acuta.  
                        In forme assai diverse da quanto avviene in America 
                          e in Europa, il mondo islamico assiste a un processo 
                          di ritorno della spiritualità religiosa che non 
                          è espressione di una sottomissione a regimi teocratici. 
                          E se fu incoraggiata nell’epoca di Sadat, non 
                          lo è stata in quella di Mubarak. Di sottomissione 
                          e repressione si può invece parlare in alcune 
                          situazioni, come l’Iran, dove l’ondata religiosa 
                          è stata molto forte all’epoca della rivoluzione 
                          komeinista, ma è andata poi restringendosi in 
                          parallelo con la perdita di popolarità del regime 
                          dei mullah. Intellettuali come Abdolkarim Soroush, iraniano 
                          e sciita, e Nasr Abu Zayd, egiziano e sunnita, sostengono 
                          riforme liberali, pienamente liberali e democratiche, 
                          ritenendo di poter loro aprire la strada attraverso 
                          il proprio lavoro teologico di riformatori. 
                          La complessità, ma anche l’interesse fortissimo, 
                          di questa discussione suggerisce di considerare il tema 
                          del rapporto tra “secolarismo, liberalismo e riformismo 
                          religioso” come centrale e come possibile focus 
                          dei prossimi incontri. Il sito dell’Associazione 
                          aprirà subito la discussione con interventi di 
                          Yassin, Salmawi, Hanafi ed altri. 
                        Differenze sul tema religioso 
                          L’influenza della religione sulla vita politica 
                          è oggetto di vaste discussioni in tutto il mondo, 
                          occidentale come orientale. Il tema “postsecolare” 
                          avanzato nel contesto europeo da Klaus Eder e Juergen 
                          Habermas tocca una questione che riguarda anche il mondo 
                          musulmano: il ritorno della religione sulla scena pubblica, 
                          la sua maggiore visibilità, la sua richiesta 
                          di una maggiore influenza nella vita collettiva. Ma 
                          non è utilizzabile in questo contesto anche se 
                          mette l’accento su fenomeni comuni - una ripresa 
                          della spiritualità religiosa e un profilarsi 
                          di contrasti tra credenti e non credenti, e tra credenti 
                          di una pluralità di religioni – perché 
                          acquista il suo pieno significato nel descrivere la 
                          situazione di regimi liberali in cui la secolarizzazione 
                          abbia compiuto pienamente il suo percorso. E non è 
                          applicabile al mondo islamico dal momento che esso non 
                          ha conosciuto un processo di secolarizzazione radicale 
                          come in Europa, con la sola eccezione entro certi limiti 
                          della Turchia. Tuttavia l’area di problemi che 
                          riguarda l’affacciarsi di assoluti religiosi nella 
                          vita pubblica presenta qualche affinità e ci 
                          sono le condizioni perchè nel dialogo interculturale 
                          si sviluppi una migliore comprensione tra intellettuali 
                          occidentali e orientali. O almeno per sviluppare una 
                          fertile discussione in comune.  
                          Il confronto tra tesi diverse potrebbe essere oggetto 
                          di prossimi incontri. La tesi di Margalit è per 
                          esempio che la religione abbia un ruolo rilevante nel 
                          conflitto mediorientale e in generale nella tensione 
                          che attraversa il mondo tra occidente e popolazione 
                          musulmana. Altri sostengono invece che, sia nel caso 
                          di queste tensioni, sia nel caso del terrorismo che 
                          inalbera ragioni religiose, le cause dei conflitti e 
                          delle tensioni sono di natura politica, economica, sociale 
                          e vengono soltanto rivestiti di ideologia religiosa 
                          (è la tesi di Olivier Roy, ma anche di Navid 
                          Kermani). Analogamente vi sono giudizi diversi sulla 
                          funzione del dialogo interreligioso che, in quanto vero 
                          e proprio dialogo, viene ritenuto impossibile. Significativo 
                          che un giudizio del genere sia frequente tra intellettuali 
                          “civili” e “secolari” in Egitto 
                          (Salmawi, Yassin), secondo i quali gli incontri tra 
                          fedeli di diverse fedi sono solo testimonianza e non 
                          dialogo, mentre viene difeso e praticato da altri (Hanafi) 
                          o indicato come necessario per arricchire la comprensione 
                          reciproca di elementi che appartengono alla storia e 
                          all’anima delle comunità, come sfondo necessario 
                          alla costruzione di una eticità condivisibile 
                          che ha tracce comuni nella filosofia di Aristotele, 
                          Al Farabi, Hegel (Dallmayr). E non ho bisogno di ricordare 
                          che tra i membri del comitato scientifico della nostra 
                          associazione, che persegue il dialogo tra le culture 
                          e non tra le religioni, figura il direttore della Comunità 
                          di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, al centro di 
                          molte rilevanti iniziative interreligiose.  
                        Le radici della non violenza 
                          Una direzione di lavoro suggerita dagli interventi di 
                          Jahanbegloo e dal lavoro di Dallmayr in generale è 
                          quella di promuovere le figure e i momenti della storia 
                          della cultura e della contemporaneità che hanno 
                          affermato i principi della non violenza radicandoli 
                          entro diverse tradizioni e hanno sostenuto la possibilità 
                          di un allargamento e fusione di orizzonti diversi: a 
                          due protagonisti del Novecento, come il Mahatma Gandhi 
                          e Martin Luther King, Jahanbegloo affianca il pakistano 
                          Abdul Ghaffar Khan, better known as Badshah Khan, whose 
                          profound “belief in the truth and effectiveness 
                          of nonviolence came from the depths of personal experience 
                          of his Muslim faith.” E propone ancora Toshihiko 
                          Izutsu, il giapponese che propone una fusione etica 
                          di sufismo e taoismo. Dallmayr già in passato 
                          ha suggerito percorsi di approfondimento che valorizzino 
                          figure della cultura capaci di fondere orizzonti, del 
                          presente e del passato da Goethe fino a Ramon Panikkar 
                          e Abdolkarim Soroush. Riprendendo una immagine di Amin 
                          Malouf si potrebbe dedicare una sessione di lavoro al 
                          “pensiero di cresta”, quello che non si 
                          lascia scivolare nel “cavo dell’onda” 
                          e mantiene la capacità di vedere che talvolta 
                          a confliggere sono non un torto evidente contro una 
                          luminosa ragione ma buone ragioni, seppur diverse. Sono 
                          i “conflitti di ragioni” spesso i più 
                          sanguinosi e insanabili, secondo la definizione dell’israeliano 
                          Amos Oz (come nel caso di Israele-Palestina), a esigere 
                          un maggior sforzo per rimanere “in cresta”, 
                          a coltivare una certa dose di ambiguità con la 
                          quale imparare a convivere, senza sentirsi a disagio, 
                          per ispirare soluzioni equilibrate. La raccolta dei 
                          nomi da collocare su questa “cresta”, come 
                          vedete già iniziato, potrebbe essere uno degli 
                          obiettivi di un lavoro interculturale come quello che 
                          l’Associazione si è prefisso. 
                        Il filtro dei media 
                          La prospettiva di una migliore comprensione degli Altri 
                          non può evitare di porsi il problema delle forme 
                          di comunicazione. La conoscenza degli effetti della 
                          diffusione della televisione satellitare è ancora 
                          piuttosto scarsa ed ha bisogno di accelerare in modo 
                          da fornirci un quadro più preciso dello sviluppo 
                          delle immagini incrociate che le diverse culture forniscono 
                          di sé agli Altri e degli Altri al proprio bacino 
                          di appartenenza. La vicenda esplosiva e violenta delle 
                          vignette danesi è stata attentamente presa in 
                          esame durante i nostri incontri ma merita un supplemento 
                          di indagine. Ci sono molti indicatori che lasciano supporre 
                          che alcuni degli effetti della televisione finora attentamente 
                          studiati sul piano nazionale e delle aree linguistiche 
                          omogenee si proiettino anche su scala internazionale. 
                          Mi riferisco agli effetti conflittuali della caduta 
                          dei sipari che impediscono la visione del retroscena 
                          e allargano il “cortile di casa” a livello 
                          globale. “There are no local debates anymore. 
                          You can no longer play little games in your own small 
                          backyard without the world noticing. We are truly experiencing 
                          what it means to live in a globalized public sphere.” 
                          (Lau). Vanno ripresi, e in qualche caso cominciati, 
                          studi su scala internazionale, studi del genere di quelli 
                          che Joshua Meyrowitz ha fatto sulla società americana. 
                          Se saltano le paratie che tenevano molte vicende confinate 
                          in un retrobottega bisogna abituarsi a controllarne 
                          le conseguenze. Il provincialismo estremo può 
                          aere conseguenze catastrofiche. Ma anche altre tendenze 
                          dell’informazione mass-mediatica vanno analizzate: 
                          quelle che hanno già grandemente influito sulla 
                          vita politica nazionale e che caratterizzano la stessa 
                          struttura dell’industria dell’informazione: 
                          rapidità ossessiva, personalizzazione estrema, 
                          drammatizzazione, decontestualizzazione, accentuazione 
                          dei fattori di disordine, preclusione nei confronti 
                          dell’ordinaria e quieta normalità. Gli 
                          apparati dell’informazione selezionano per la 
                          loro stessa logica fattori che incrementano gli ascolti 
                          e che nei tempi lunghi possono coltivare una immagine 
                          degli Altri che ne estremizza e radicalizza i tratti. 
                          Si capisce che l’Occidente nichilista e pornografo 
                          della metropoli degli “idolatri” “passa” 
                          il filtro mediatico più facilmente di quello 
                          bonario e rassicurante delle buone famiglie americane, 
                          o della ordinata vita delle campagne europee; così 
                          come le invocazioni religiose dei tagliatori di teste 
                          di Al Zarkahwi “passano” in video sul web 
                          molto più di una radiosa e tranquilla giornata 
                          del mercato intorno alla moschea di Al Ahzar al Cairo. 
                          È molto probabile che i media radicalizzino e 
                          polarizzino le immagini, aiutando un processo di stereotipizzazione, 
                          che diventa ostacolo grave alla comprensione e fonte 
                          di conflitti. Si tratta di un tema da approfondire in 
                          incontri internazionali con il contributo di specialisti 
                          nell’analisi dei media e della loro influenza 
                         
                         
                         
                           
                         
                         
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