Gli obiettivi
e i principi dell’Associazione
Reset Dialogues on Civilizations nel manifesto scritto
dopo la conferenza del Cairo, “Oltre Orientalismo
e Occidentalismo”, nel marzo del 2006.
Le condizioni di pari dignità
Creare una situazione di reale parità nel dialogo
interculturale è una premessa onerosa ma indispensabile.
Alla difficoltà che accompagna in generale le
relazioni politiche internazionali si aggiunge la complessità
di un confronto di idee che ha per obiettivo quello
di approfondire la conoscenza dei diversi punti di vista,
dei contesti e delle tradizioni in cui si collocano
le forme di pensiero che gli altri rappresentano. Impossibile
trascurare il fatto che il dialogo nelle sua forma più
compiuta – quella che perseguiamo – non
può fare astrazione né dalle diversità
politiche né dalle relazioni di potere che esso
coinvolge in modo diretto o indiretto (Hassan Hanafi).
Nel momento in cui si affaccino – da qualsiasi
parte – diffidenze e risentimenti che hanno radici
nella storia coloniale o nelle disuguaglianze economiche
o in guerre e contrasti recenti che vengono vissuti
come umilianti, anche questi elementi vanno sottoposti
a quel genere di confronto che Fred Dallmayr ha definito
«etico-ermeneutico»: un tipo di dialogo
che coinvolge l’intero background culturale e
spirituale, letterario e artistico, e soprattutto le
aspirazioni e sofferenze esistenziali, il confronto
degli stili di vita e delle mentalità che vi
sono collegate.
Confronto di mentalità
La pari dignità e reciprocità è
molto onerosa perché chiede di capire anche quello
che viola le forme mentali più radicate da ogni
parte: chiede per esempio ai liberali europei di capire
la reazione risentita di musulmani insultati nella loro
fede, ma chiede anche agli intellettuali dei paesi musulmani
di capire che repressione e violenza contro giornalisti
e scrittori non solo violano astratti principi di libertà
ma feriscono un sentimento di libertà che vive
nella mentalità di cittadini cresciuti in società
democratiche aperte (Otto Schily). La difesa di una
condizione di parità nel dialogo è molto
onerosa anche perché la accettazione della condizione
di parità, anche soltanto metodologica, sembra
legittimare lo status quo e dunque beneficiare generosamente
chi è sospetto di soprusi a danno dell’altra
parte. Questa sospensione – o rielaborazione –
del risentimento è questione cruciale, obiettivo
forse principale di ogni progetto di dialogo. Solo praticando
occasioni di incontro è possibile addestrarsi
ad una più equilibrata visione degli altri e
a depurare le differenze di giudizio politico sulle
situazioni critiche – che non possono essere preliminarmente
superate – da questo sovraccarico di tensione
che deriva dalla diversità dei contesti, delle
storie, delle mentalità.
Il “double standard”
Il tema ricorrente del double standard, ovvero dei “due
pesi e due misure”, è una formula che contiene
una protesta di sfondo contro uno squilibrio in potere,
la denuncia di una prevaricazione da parte del più
potente contro il più debole, la critica dell’egoismo
e dell’etnocentrismo degli altri contro una propria
condizione di vittima. La disputa sulla collocazione
del “centro” e della “periferia”,
dell’”io “ e dell’”altro”
è una dominante nel dibattito post-coloniale
ed ha una base storica oggettiva, i cui effetti sono
resi particolarmente acuti nel mondo arabo (e più
in generale musulmano) dal conflitto mediorientale e
dagli squilibri economici. Il tema del double standard
tende a venir esteso in tutti i campi e comporta una
tendenziale struttura della discussione che si polarizza
tra Est e Ovest, tra Occidente e Oriente, tra amici
di Israele e amici dei Palestinesi, Stati Uniti e mondo
arabo. Alla polarizzazione (che tende a estremizzare
la posizione degli altri) si aggiunge la tendenza a
percepire l’altra parte come una unica entità
compatta, come un soggetto dotato di una sua propria
volontà e responsabilità e di conseguenza
ad accusare l’intero “Ovest” o l’intero
“Islam” di qualche imputazione. Una rappresentazione
che non corrisponde affatto alla realtà in entrambe
le direzioni, sia che si tratti del rapporto tra Occidente,
guerra in Iraq, torture di Abu Ghraib sia che si tratti
di quello tra mondo islamico, resistenza palestinese,
terroristi suicidi. Oppure del rapporto in generale
di entrambe le sponde nei confronti delle proprie componenti
più radicali, estreme, violente. Sono perciò
essenziali per migliorare la reciproca comprensione
tutte le iniziative che avvicinano a una visione realistica
e articolata, anche perché la critica del double
standard non proviene solo da ambienti estremisti ma
caratterizza anche le posizioni moderate, corrisponde
a una sfocata esigenza di equilibrio che nasce per lo
più da una visione sommaria degli Altri come
un unico blocco (Giuliano Amato).
Un esempio: Copenhagen-Vienna
Un esempio di questo genere di deformazioni lo ricavo
da una intervista ad Al-Sayed Yassin, intellettuale
egiziano di cultura secolare, fondatore del Centro studi
strategici del Cairo. L’intervista comparirà,
insieme ad altre sul sito dell’Associazione. Chiama
in causa il double standard a proposito della reazione
prevalente nel mondo occidentale alle vignette anti-islamiche
del Jilland-Post, e contraria a provvedimenti penali
nel nome della libertà di opinione e di stampa.
Yassin osserva che questo genere di reazione è
stata pressoché assente nel caso della condanna
di David Irving a Vienna per le sue tesi negazioniste
sull’Olocausto. La osservazione di Yassin è
verto da discutere e in effetti una discussione su questo
tema comparirà sulla rivista italiana “Reset”
e poi sul sito già citato, con interventi di
Marcello Flores, Michael Walzer e altri. Sia le reazioni
alla sentenza di Vienna che quelle alle vignette di
Copenhagen andrebbero dunque considerate in una prospettiva
globale, perché esse hanno effetti, come si vede,
sul piano globale. E uno sguardo di quel genere suggerirebbe
probabilmente nuovi argomenti a tutti. L’intera
discussione sull’Olocausto nel mondo arabo è
considerata con il metro di misura dell’influenza
del “potere sionista” e lo sberleffo nei
confronti della religione musulmana, da parte dei giornali
occidentali o di qualche sconsiderato leader politico,
è giudicata con il metro di misura delle minoranze
musulmane in Europa che chiedono risarcimento per il
loro orgoglio ferito.
Il dialogo sulla democrazia
Il dialogo è efficace se riesce a tenere sotto
controllo le asimmetrie di vario genere che lo ostacolano.
Fred Dallmayr, discutendo con Hanafi, ha messo in guardia
nei confronti del rischio di farsi scudo di queste asimmetrie
per precludere il dialogo invece di chiarificarle e
neutralizzarle per renderlo migliore. Su un terreno
reso difficilissimo da risentimenti e scambi di accusa
tra Occidente e mondo arabo, dalla crisi palestinese
e dalla guerra in Iraq, è difficile immaginare
che la discussione sullo sviluppo della democrazia nei
paesi non democratici del mondo possa svolgersi come
pura espansione del “potere di seduzione”
dei modelli politici e culturali occidentali o come
applicazione di un modello pedagogico con l’Occidente
in cattedra e l’Oriente sui banchi di scuola.
Acquista un rilievo crescente, dal punto di vista di
chi come noi auspica uno sviluppo globale dei regimi
democratici e delle società aperte, la visione
della democrazia come risultato di un processo di interpretazione
e reinterpretazione delle singole e diverse tradizioni
e storie culturali. È ragionevole pensare che
abbiano ragione Charles Taylor, Michael Walzer e Amartya
Sen quando sostengono che ogni cultura contiene in se
stessa principi e idee che possono ispirare i popoli
ad avanzare richieste politiche che rendano responsabili
le forme di governo verso i governati, e richieste di
riconoscimento dei propri diritti da parte dei governati.
Principi e idee che possono ispirare l’impegno
a una interpretazione critica delle fonti della propria
tradizione, della propria morale, dei propri testi.
(Nadia Urbinati)
Gli scambi del passato
Il confronto sulle fasi storiche dello scambio tra culture
si rivela utile nell’avvicinare a una conoscenza
più articolata delle altre parti in dialogo.
In particolare le relazioni alla conferenza del Cairo
(Burnett, Campanini, Ehmad, Gutas) hanno messo in luce
sia le situazioni di contesto che hanno reso possibili
le fasi di più intenso scambio sia i modelli
di integrazione culturale che si sono realizzati in
alcuni momenti favorevoli della storia, dal modello
Baghdad al modello andaluso. La traduzione dei testi
scientifici dal greco all’arabo nel nono secolo
e dall’arabo al latino nel XII e XIII secolo sono
stati momenti di svolta e di eccezionale avanzamento
nella storia umana, paragonabili alla rivoluzione scientifica
europea nel Seicento. Lo scambio è nato dal bisogno
che una cultura sente di colmare le sue lacune, come
accadde per il mondo latino medievale, povero di matematica,
fisica e medicina. (Burnett) L’approfondimento
della conoscenza dello sfondo aiuta il dialogo perché
consente di guardare la situazione presente in uno schema
temporale, colloca le differenze attuali in una situazione
storica, arricchisce la conoscenza di dimensioni altre
rispetto a quelle che sono proprie e consuete per ciascuno,
stimola una riflessione sui programmi scolastici dei
rispettivi paesi, contribuisce a dissolvere diffidenze,
suggerisce nuove iniziative per il futuro che valorizzino
una conoscenza della storia degli Altri che ne complichi
e articoli la visione ostacolando la formazione di blocchi
omogenei e di stereotipi.
Orientalismo e occidentalismo
La formula di “orientalismo” ed “occidentalismo”
come etichette di contenitori delle deformazioni reciproche
è stata generalmente accettata, o non contestata,
anche se qualche voce di parte egiziana ha manifestato,
velatamente e indirettamente, una sorta di diritto a
una certa fase di “occidentalismo” come
studio dell’ “Io-centro” da parte
dell’ “Altro-periferia”, a ruoli rovesciati:
l’altro diventa Io. D’altra parte anche
il termine Orientalismo non è indicatore soltanto
di una deformazione ma di un intero ciclo storico di
studi da parte dell’Occidente. L’Occidentalismo
nella versione di Margalit – coniato sul modello
della reazione antimoderna della cultura che produsse
i kamikaze giapponesi negli anni Quaranta – è
piuttosto un raccoglitore di deformazioni della civilizzazione
occidentale, fino alla degradazione del nemico e alla
stigmatizzazione della sua “idolatria” (come
nei testi sacri) per la metropoli del peccato, del consumismo
e del nichilismo. L’Occidentalismo di Margalit
non è esattamente speculare all’Orientalismo
di Edward Said. Ma il suo contributo è penetrante:
sia nel libro che ha scritto con Ian Buruma, sia nel
paper presentato a Roma il tema della visione della
civilizzazione da parte del Sud, o dell’Est, del
mondo è posto in modo da accentuare che il contrasto
non è “tra le culture” ma “tra
le culture e la civilizzazione” (ovvero la modernità).
Ma anche chi rivendica con orgoglio, per simmetria,
il diritto a una fase post-coloniale di studi dell’
“Altro” occidentale, ammette poi la necessità
di guardare “al di là” di questa
fase (Hanafi).
Tra secolarismo e riformismo religioso
Il confronto con gli intellettuali dei paesi musulmani
da parte di quelli europei e americani, e in misura
particolarmente acuta in Egitto e in Iran, nonostante
le notevolissime differenze tra i due contesti, mette
in luce una complessa discussione nell’ambito
della cultura dei paesi islamici tra una ispirazione
che possiamo definire secolare e una ispirazione di
riformismo religioso. Un intellettuale affermato e di
lunga esperienza come Sayed Yassin, per esempio, definisce
se stesso, come lo stato egiziano, sulla base del concetto
di secolare. Altri come Mohammad Salmawi, presidente
degli scrittori egiziani, preferisce definirsi “civile”,
sia perché ritiene il concetto di secolare portatore
di una contrapposizione troppo accentuata con la religione,
sia perché definire secolare lo stato egiziano,
che certamente è “più secolare”
di altri stati del mondo islamico, vuol dire descrivere
una situazione che si adatta di più agli stati
europei. E se si assume quello europeo come standard
di secolarizzazione lo stato egiziano non può
essere definito “secolare” nello stesso
modo (Salmawi).
La discussione nel mondo musulmano tende talora a divaricarsi
tra intellettuali “secolari”, nel senso,
variamente interpretato, di liberali (per questo si
rimanda, tra i molti possibili riferimenti, al lavoro
di Filali Ansari e a quello di Ramin Jahanbegloo) impegnati
nella modernizzazione delle istituzioni dei loro paesi
ma non coinvolti nella discussione teologica ed altri
che ritengono necessario, indispensabile, per consentire
un’evoluzione liberale degli ordinamenti e della
legislazione degli stati del mondo islamico, un’interpretazione
del testo coranico e della sunna che consenta di comprendere
il contesto storico in cui certe affermazioni venivano
intese in altre epoche e di accedere a una più
profonda comprensione del significato dei testi sacri
nella nostra epoca. Si tratta di ordini di discussione
che spesso non si incontrano, a volte si contrappongono
e più spesso si ignorano. Sul ruolo della religione
è in corso in Egitto una vasta discussione: l’elezione
di una consistente minoranza di deputati che appartengono
al movimento dei Fratelli musulmani l’ha resa
ancora più acuta.
In forme assai diverse da quanto avviene in America
e in Europa, il mondo islamico assiste a un processo
di ritorno della spiritualità religiosa che non
è espressione di una sottomissione a regimi teocratici.
E se fu incoraggiata nell’epoca di Sadat, non
lo è stata in quella di Mubarak. Di sottomissione
e repressione si può invece parlare in alcune
situazioni, come l’Iran, dove l’ondata religiosa
è stata molto forte all’epoca della rivoluzione
komeinista, ma è andata poi restringendosi in
parallelo con la perdita di popolarità del regime
dei mullah. Intellettuali come Abdolkarim Soroush, iraniano
e sciita, e Nasr Abu Zayd, egiziano e sunnita, sostengono
riforme liberali, pienamente liberali e democratiche,
ritenendo di poter loro aprire la strada attraverso
il proprio lavoro teologico di riformatori.
La complessità, ma anche l’interesse fortissimo,
di questa discussione suggerisce di considerare il tema
del rapporto tra “secolarismo, liberalismo e riformismo
religioso” come centrale e come possibile focus
dei prossimi incontri. Il sito dell’Associazione
aprirà subito la discussione con interventi di
Yassin, Salmawi, Hanafi ed altri.
Differenze sul tema religioso
L’influenza della religione sulla vita politica
è oggetto di vaste discussioni in tutto il mondo,
occidentale come orientale. Il tema “postsecolare”
avanzato nel contesto europeo da Klaus Eder e Juergen
Habermas tocca una questione che riguarda anche il mondo
musulmano: il ritorno della religione sulla scena pubblica,
la sua maggiore visibilità, la sua richiesta
di una maggiore influenza nella vita collettiva. Ma
non è utilizzabile in questo contesto anche se
mette l’accento su fenomeni comuni - una ripresa
della spiritualità religiosa e un profilarsi
di contrasti tra credenti e non credenti, e tra credenti
di una pluralità di religioni – perché
acquista il suo pieno significato nel descrivere la
situazione di regimi liberali in cui la secolarizzazione
abbia compiuto pienamente il suo percorso. E non è
applicabile al mondo islamico dal momento che esso non
ha conosciuto un processo di secolarizzazione radicale
come in Europa, con la sola eccezione entro certi limiti
della Turchia. Tuttavia l’area di problemi che
riguarda l’affacciarsi di assoluti religiosi nella
vita pubblica presenta qualche affinità e ci
sono le condizioni perchè nel dialogo interculturale
si sviluppi una migliore comprensione tra intellettuali
occidentali e orientali. O almeno per sviluppare una
fertile discussione in comune.
Il confronto tra tesi diverse potrebbe essere oggetto
di prossimi incontri. La tesi di Margalit è per
esempio che la religione abbia un ruolo rilevante nel
conflitto mediorientale e in generale nella tensione
che attraversa il mondo tra occidente e popolazione
musulmana. Altri sostengono invece che, sia nel caso
di queste tensioni, sia nel caso del terrorismo che
inalbera ragioni religiose, le cause dei conflitti e
delle tensioni sono di natura politica, economica, sociale
e vengono soltanto rivestiti di ideologia religiosa
(è la tesi di Olivier Roy, ma anche di Navid
Kermani). Analogamente vi sono giudizi diversi sulla
funzione del dialogo interreligioso che, in quanto vero
e proprio dialogo, viene ritenuto impossibile. Significativo
che un giudizio del genere sia frequente tra intellettuali
“civili” e “secolari” in Egitto
(Salmawi, Yassin), secondo i quali gli incontri tra
fedeli di diverse fedi sono solo testimonianza e non
dialogo, mentre viene difeso e praticato da altri (Hanafi)
o indicato come necessario per arricchire la comprensione
reciproca di elementi che appartengono alla storia e
all’anima delle comunità, come sfondo necessario
alla costruzione di una eticità condivisibile
che ha tracce comuni nella filosofia di Aristotele,
Al Farabi, Hegel (Dallmayr). E non ho bisogno di ricordare
che tra i membri del comitato scientifico della nostra
associazione, che persegue il dialogo tra le culture
e non tra le religioni, figura il direttore della Comunità
di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, al centro di
molte rilevanti iniziative interreligiose.
Le radici della non violenza
Una direzione di lavoro suggerita dagli interventi di
Jahanbegloo e dal lavoro di Dallmayr in generale è
quella di promuovere le figure e i momenti della storia
della cultura e della contemporaneità che hanno
affermato i principi della non violenza radicandoli
entro diverse tradizioni e hanno sostenuto la possibilità
di un allargamento e fusione di orizzonti diversi: a
due protagonisti del Novecento, come il Mahatma Gandhi
e Martin Luther King, Jahanbegloo affianca il pakistano
Abdul Ghaffar Khan, better known as Badshah Khan, whose
profound “belief in the truth and effectiveness
of nonviolence came from the depths of personal experience
of his Muslim faith.” E propone ancora Toshihiko
Izutsu, il giapponese che propone una fusione etica
di sufismo e taoismo. Dallmayr già in passato
ha suggerito percorsi di approfondimento che valorizzino
figure della cultura capaci di fondere orizzonti, del
presente e del passato da Goethe fino a Ramon Panikkar
e Abdolkarim Soroush. Riprendendo una immagine di Amin
Malouf si potrebbe dedicare una sessione di lavoro al
“pensiero di cresta”, quello che non si
lascia scivolare nel “cavo dell’onda”
e mantiene la capacità di vedere che talvolta
a confliggere sono non un torto evidente contro una
luminosa ragione ma buone ragioni, seppur diverse. Sono
i “conflitti di ragioni” spesso i più
sanguinosi e insanabili, secondo la definizione dell’israeliano
Amos Oz (come nel caso di Israele-Palestina), a esigere
un maggior sforzo per rimanere “in cresta”,
a coltivare una certa dose di ambiguità con la
quale imparare a convivere, senza sentirsi a disagio,
per ispirare soluzioni equilibrate. La raccolta dei
nomi da collocare su questa “cresta”, come
vedete già iniziato, potrebbe essere uno degli
obiettivi di un lavoro interculturale come quello che
l’Associazione si è prefisso.
Il filtro dei media
La prospettiva di una migliore comprensione degli Altri
non può evitare di porsi il problema delle forme
di comunicazione. La conoscenza degli effetti della
diffusione della televisione satellitare è ancora
piuttosto scarsa ed ha bisogno di accelerare in modo
da fornirci un quadro più preciso dello sviluppo
delle immagini incrociate che le diverse culture forniscono
di sé agli Altri e degli Altri al proprio bacino
di appartenenza. La vicenda esplosiva e violenta delle
vignette danesi è stata attentamente presa in
esame durante i nostri incontri ma merita un supplemento
di indagine. Ci sono molti indicatori che lasciano supporre
che alcuni degli effetti della televisione finora attentamente
studiati sul piano nazionale e delle aree linguistiche
omogenee si proiettino anche su scala internazionale.
Mi riferisco agli effetti conflittuali della caduta
dei sipari che impediscono la visione del retroscena
e allargano il “cortile di casa” a livello
globale. “There are no local debates anymore.
You can no longer play little games in your own small
backyard without the world noticing. We are truly experiencing
what it means to live in a globalized public sphere.”
(Lau). Vanno ripresi, e in qualche caso cominciati,
studi su scala internazionale, studi del genere di quelli
che Joshua Meyrowitz ha fatto sulla società americana.
Se saltano le paratie che tenevano molte vicende confinate
in un retrobottega bisogna abituarsi a controllarne
le conseguenze. Il provincialismo estremo può
aere conseguenze catastrofiche. Ma anche altre tendenze
dell’informazione mass-mediatica vanno analizzate:
quelle che hanno già grandemente influito sulla
vita politica nazionale e che caratterizzano la stessa
struttura dell’industria dell’informazione:
rapidità ossessiva, personalizzazione estrema,
drammatizzazione, decontestualizzazione, accentuazione
dei fattori di disordine, preclusione nei confronti
dell’ordinaria e quieta normalità. Gli
apparati dell’informazione selezionano per la
loro stessa logica fattori che incrementano gli ascolti
e che nei tempi lunghi possono coltivare una immagine
degli Altri che ne estremizza e radicalizza i tratti.
Si capisce che l’Occidente nichilista e pornografo
della metropoli degli “idolatri” “passa”
il filtro mediatico più facilmente di quello
bonario e rassicurante delle buone famiglie americane,
o della ordinata vita delle campagne europee; così
come le invocazioni religiose dei tagliatori di teste
di Al Zarkahwi “passano” in video sul web
molto più di una radiosa e tranquilla giornata
del mercato intorno alla moschea di Al Ahzar al Cairo.
È molto probabile che i media radicalizzino e
polarizzino le immagini, aiutando un processo di stereotipizzazione,
che diventa ostacolo grave alla comprensione e fonte
di conflitti. Si tratta di un tema da approfondire in
incontri internazionali con il contributo di specialisti
nell’analisi dei media e della loro influenza
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