Questo
articolo è tratto dal lessico del dialogo tra
le civiltà della rivista ResetDoC
In epoca recente, il “dialogo” è
emerso come concetto importante e addirittura centrale
sia nella filosofia che nella politica. Si parla di
“dialogo tra civiltà” in opposizione
a uno “scontro di civiltà”, e di
“dialogo tra religioni” come antidoto allo
“scontro dei fondamentalismi”. Perché
il dialogo emerge oggi in termini così cruciali?
Perché esso denota l’opposto dell’unilateralismo
e del monologo.
Perché veicola una connotazione di collaborazione
e rispetto reciproci e, quindi, offre una direttrice
per la concordia e la pace interpersonali e intersociali.
Il termine è molto importante anche dal punto
di vista filosofico. La parola “dialogo”
deriva dal greco ed è composta da due elementi:
“dia” e “logos”. “Logos”
significa ragione, significato, e anche (semplicemente)
parola. “Dia” significa “in mezzo
a” o “a mezzo a mezzo”. Quindi dia-logos
vuol dire che ragione o significato non sono il monopolio
di una parte ma affiorano nel rapporto o nella comunicazione
tra parti o agenti. Il logos qui è un logos condiviso
e dipende in maniera cruciale dalla partecipazione di
diverse o molte persone.
Vista da questa prospettiva, la svolta dialogica può
essere considerata parte o porzione della cosiddetta
“svolta liguistica” o “svolta verso
il linguaggio” che è una caratteristica
fondamentale del XX secolo. La svolta linguistica ha
comportato un allontanamento da una filosofia concentrata
sull’“Io” singolare, sulla coscienza
dell’ego, su quello che Cartesio definì
“cogito” (penso). La sua formula “ego
cogito ergo sum” (io penso quindi sono) implicava
che la realtà potesse essere conosciuta dal solo
ego pensante, senza alcun bisogno di riferirsi ad altre
persone. In larga misura, la filosofia occidentale da
Cartesio a Kant è stata una filosofia senza linguaggio
e senza comunicazione. La verità poteva essere
stabilita unilateralmente dall’ego pensante.
Nel corso del ventesimo secolo, molti filosofi contribuirono
a sfidare e rovesciare questo tipo di unilateralismo.
Ludwig Wittgenstein è famoso per aver sostenuto
che verità, ragione e significato sono necessariamente
corollari di un “gioco linguistico” che
funziona. Tuttavia, Wittgenstein non elaborò
in maniera specifica una teoria del linguaggio. Le costruzioni
fondamentali in questa direzione vennero poste da vari
pensatori continentali aderenti alla fenomenologia e
all’esistenzialismo. Martin Heidegger sottolineò
il ruolo cruciale del linguaggio nella conoscenza e
nella comprensione umana e gettò le basi per
un tipo di interazione propriamente dialogica. Il suo
contemporaneo Karl Jaspers sviluppò una teoria
della comunicazione esistenziale come precondizione
della comprensione umana del Sé.
Allo stesso tempo, Martin Buber formulò una
filosofia e persino una teologia dell’“in
mezzo” ancorata alla relazione comunicativa tra
“me e te”. L’allievo di Heidegger
Hans-Georg Gadamer può essere considerato il
filosofo del dialogo per eccellenza per via della sua
insistenza sul fatto che ogni incontro interpersonale
e ogni interpretazione testuale (ermeneutica) dipendono
da un dialogo in cui i partecipanti sono disposti a
trasgredire la centralità del proprio essere
nella direzione di una “fusione di orizzonti”.
Un approccio simile venne seguito da Gabriel Marcel
e da Paul Ricoeur in Francia. Tutte queste iniziative
filosofiche o intellettuali concorsero a mettere in
dubbio il cogito cartesiano e la tradizionale fiducia
occidentale per l’unilateralismo. Sfortunatamente,
occorre molto tempo per tradurre intuizioni intellettuali
in prassi politica. Di conseguenza, oggi il dialogo
sta ancora lottando per intaccare monologhi politici
e i conseguenti “scontri” di società
e popoli.
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