Hubert Vedrine,
ex ministro degli Esteri del governo della Gauche
plurielle di Lionel Jospin, non si fa illusioni
su un eventuale cambiamento della politica estera americana.
Certamente, che i democratici abbiano conquistato il
Congresso e il Senato alle elezioni di midterm è
un fatto importante, ma, avverte, la diplomazia statunitense
non cambierà di molto, almeno per due motivi:
perché i democratici non hanno nessuna politica
alternativa e perché nella politica estera americana,
al di là della rottura segnata da George Bush,
c’è una continuità sostanziale.
Per comprendere quello che sta accadendo, dice l’ex
ministro nel corso di una conferenza presso la sede
della stampa estera a Parigi, “bisogna risalire
alla fine dalla Guerra fredda”, quando, “dopo
la caduta del muro di Berlino e dell’Urss, gli
occidentali, in maniera differente gli americani e gli
europei, ebbero l’impressione di essere i vincitori,
di essere diventati i padroni del gioco”. Oltreoceano
questa convinzione ha preso forma nella “iperpotenza”,
in Europa, invece, quella della “ingenuità”.
Furono gli anni dell’ottimismo, degli uni e degli
altri, gli anni in cui a chi parlava di scontro di civiltà
“si rispondeva che c’era un’unica
civiltà, quella dei diritti umani e della democrazia.
Negli Stati Uniti si credeva al Nuovo ordine mondiale
sotto la leadership americana e in Europa alla comunità
internazionale e alla sua capacità di prevenzione
e conciliazione dei conflitti”.
In un modo o nell’altro, sottesa c’era
l’idea fondamentale che per gli occidentali fosse
venuto il momento di ricoprire appieno la propria missione
storica e che si sarebbero potuti “propagare velocemente
democrazia e diritti umani. Madeleine Albright era convinta
che si sarebbe potuto fare molto in fretta”. Invece
il tornante del 2000 è stato un ritorno alla
realtà, la fine di “un’illusione”
che in fin dei conti, dice Vedrine, europei e statunitensi
hanno condiviso. Nel Vecchio Continente “si crede
di essere in totale dissenso con la politica estera
di Bush, in realtà il disaccordo è meno
marcato di quello che si pretende perché anche
gli europei pensano che la loro missione sia l’espansione
di democrazia e diritti dell’uomo”. La differenza
fondamentale sta sui mezzi. Per questioni storiche e
culturali in Europa si è “terrorizzati
dall’uso della forza, su tutti i piani, cosa che
corrisponde all’aspirazione dell’opinione
pubblica europea nel suo complesso”. Se invece
si guarda dall’altra parte dell’oceano –
pena di morte, porto d’armi - si scopre un’intima
differenza.
“L’opinione americana pensa che sia legittimo
regolare un problema con la forza, che sia coraggioso
andare da soli”, cosa che gli europei rifiutano
nella loro “idealizzazione del multilateralismo”.
In un modo e nell’altro, le due opzioni, sono
fallite.
La teoria dell’esportazione della democrazia
non è stata, quindi, “inventata da Bush,
ma è una corrente che viene da lontano, da dopo
la guerra del 14-18. Semmai i neoconservatori e Bush
hanno costituito una rottura con la tradizionale politica
estera del partito repubblicano, partito che del resto
stava già mutando negli anni Sessanta “quando
i bianchi del sud, esasperati per la politica antisegregazionista
e sociale dei democratici abbandonarono il partito di
Kennedy. “Con una nuova base populista e reazionaria
il partito repubblicano, che era soprattutto il partito
delle elite e dei petrolieri, è diventato qualcosa
di nuovo”. Negli anni Settanta sono arrivati i
neoconservatori, un gruppetto di intellettuali “che
si opponeva alla diplomazia realista di Kissinger e
spingeva, contro quella di contenimento, una politica
di riconquista più militante”. In quel
momento della storia americana si forgia questa alleanza
tra la legittimità del ricorso della forza con
la missione occidentale di esportare i valori democratici.
“Se si analizzano le posizioni dei neocon al potere
prima dell’undici settembre si vedono già
le premesse del seguito. Del resto – continua
Vedrine - erano le stesse posizioni di coloro che attaccavano
Clinton e chiedevano di invadere l’Iraq per finire
il lavoro della prima guerra del Golfo e che andavano
dicendo che non bisognasse diminuire il credito degli
Stati Uniti nella ricerca di inutile compromesso in
Medio Oriente”. L’11 settembre gli ha dato
solo l’occasione di generalizzare la loro politica.
Ora la questione vera è quella di capire se
questa corrente stia perdendo la partita, non in Iraq,
dove l’hanno già persa, ma in termini di
potere, “capire cioè se gli americani si
distaccheranno da questa corrente”. Per Vedrine
la risposta non è positiva. “Certamente
dalle lezioni di midterm emerge l’idea
che sia stato un errore d’andare in Iraq, ma l’opinione
pubblica non si è interrogata sul perché
sia stato un errore. Sono passati da un sì è
stato bene andare a un no è stato un errore”.
Del resto anche la maggior parte dei democratici crede
che il fiasco iracheno sia dovuto alla modalità
e in pochi dicono che sia stata un’idea folle
fin dall’inizio. “I democratici non si sono
interrogati troppo – spiega l’ex ministro
di Jospin - sulla legittimità dell’azione,
sull’opportunità del concetto di guerra
al terrorismo o di esportazione della democrazia”.
Tutti gli americani, democratici e repubblicani, condividono
l’eccezionalità degli Stati Uniti, cioè
il fatto che siano un po’ al di qua delle regole
generali e che questo sia la garanzia della sicurezza.
Vedrine la chiama “un’invariante”
della politica americana, non certo un’invenzione
di Bush. “Lui l’ha solo espressa con brutalità
e per questo resterà nella storia statunitense
più come una caricatura e un’aberrazione.
Il Paese comunque continuerà a pensare di dover
esercitare una leadership sul mondo e che sia pericoloso
non farlo”. Cosa ci si può aspettare allora
dai democratici? Una politica “meno manichea,
meno schematica, e questo sarà sicuramente meglio,
ma non credo che la vittoria democratica sia una messa
in causa di tutto questo quindi non credo si debbano
fondare sulla vittoria delle speranze eccessive a corto
termine. I democratici non sono pronti a una revisione.
Sono più vicini ad una visione realista, più
classica e spero che reintrodurranno un po’ di
evidenze di buon senso considerando, ad esempio, che
non si può stare laggiù se si è
incapaci di parlare con la Siria, l’Iran e gli
altri. Parlare coi regimi non vuol dire, infatti, che
li si ami, vuol dire fare la diplomazia”, la politica
estera che fin qui è mancata.
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