“Bisogna
obbligare la politica a farsi carico dei problemi sociali”:
non si tratta dello slogan di un rivoluzionario ma degli
auspici del ministro per la Solidarietà sociale
Paolo Ferrero. La tesi è interessante e ci viene
spiegata in occasione della presentazione del libro
La rivoluzione precaria. La lotta dei giovani francesi
contro il Cpe (Ediesse), scritto da due giornalisti
de Il Manifesto, Anna Maria Merlo e Antonio
Sciotto. Il libro ripercorre le tappe della rivoluzione
che qualche mese or sono ha fatto scendere nelle piazze
francesi migliaia di persone contro il così detto
Cpe, contratto di primo impiego.
De Villepin, promotore della legge, era riuscito nell’estate
del 2005 a far passare un provvedimento simile, e forse
di peso maggiore: il Contratto di nuovo impiego, diventato
legge pressoché senza alcuna resistenza. E forse
avrà pensato di farcela ancora una volta quando,
l’8 febbraio 2006, ha fatto votare la legge sul
Cpe, senza alcun dibattito parlamentare. Da quel momento,
tutto quello che non era successo per il precedente
provvedimento è esploso violentemente. Qualcuno
ha definito quei giorni come un nuovo “maggio
francese”, la nuova vampa di uno spirito geneticamente
rivoluzionario e, in effetti, oggi come in quegli anni
ruggenti, la rivolta si è sviluppata nelle università,
ha contagiato scuole e luoghi di lavoro e ha raccolto
il consenso di moltissimi simpatizzanti fino a riuscire
a far scendere per le strade tre milioni di persone.
Ma qualcosa di diverso marca la differenza tra padri
e figli. Ce lo spiega Antonio Sciotto: “I giovani
del Sessantotto volevano costruire un mondo nuovo, si
volevano liberare da una società opprimente;
quelli contro il Cpe lottano contro qualcosa di preciso”.
Effettivamente, il sessantotto francese fu un trionfo
di idee filosofiche ed artistiche che solo in minima
parte si trasformarono in progetti politici, mentre
oggi siamo di fronte ad una generazione con altre consapevolezze,
come spiega sempre Sciotto: “Nelle rivolte francesi
di quest’anno, i ragazzi non volevano sconvolgere
i paradigmi generali della società capitalistica,
piuttosto avevano un obiettivo, volevano lottare contro
la precarietà e contro quella legge”. Dunque
un tipo di battaglia giocata “più in difesa
che in attacco”, che ha connotati diversi dal
passato, “più politici che rivoluzionari”.
Dalle interviste realizzate dagli autori viene fuori
che i giovani d’oltralpe non hanno proposto il
ripensamento della società capitalistica, non
sono scesi in piazza contro l’economia di mercato,
ma hanno lottato, fino al ritiro della legge, per la
difesa e il mantenimento dei propri diritti.
Tornando in casa nostra, è il ministro Paolo
Ferrero a fare un paragone con la situazione italiana,
seduto al fianco di Carlo Podda, Segretario Generale
della Funzione Pubblica della Cgil. Per Ferrero, la
miccia che ha fatto partire le proteste francesi è
stata senza dubbio la modalità “poco democratica”
con cui è passata la legge: “Il provvedimento
è stato approvato in urgenza, senza discussione,
con un governo forte e sindacati deboli”. De Villepin
ha operato in modo sbrigativo, ha voluto imporre la
legge con uno slancio volontaristico, senza un dibattito.
La rivolta, per Ferrero, è cominciata lì.
In Italia la situazione è diversa, oggi come
pure in passato. Alcuni numeri sembrano accomunare i
due paesi: tre milioni di persone sono scese in piazza
contro il Cpe ed altrettanti, forse anche di più,
sono quelli che in Italia nel marzo 2002 hanno sfilato
nelle strade per difendere l’articolo 18. Su altri
versanti, le differenze sono però sostanziali.
Per il ministro: “In Italia la corposità
delle organizzazioni sindacali è un dato rilevante”,
un dato da cui non si può prescindere se si vuole
comprendere la natura dei “movimenti”. La
natura multiforme delle manifestazioni di protesta italiane
e il ruolo del sindacato è sottolineato da Carlo
Podda, che tiene a ricordare che la Cgil nel 2001 “dichiarò
di voler diventare la portavoce di tutti i movimenti
sociali, non solo dei lavoratori”, varcando i
recinti di un ambito settoriale e aprendosi alle istanze
generalizzate di rinnovamento della società.
E sono in molti ad auspicare una maggiore coesione
contro la precarietà, tra cui Ferrero, che crede
fermamente nell’importanza di “lasciare
aperti i canali di comunicazione tra classe politica
e parti sociali”. Per far questo è convinto
che le manifestazioni a sostegno di temi importanti
del dibattito sociale siano da incitamento per le forze
politiche: “Penso che noi dovremmo essere molto
più interessati affinché nel paese cresca
un movimento di lotta alla precarietà, che è
in grado di fare opinione pubblica, e che si misura
concretamente sulla capacità di incidere sugli
atti del governo” L’ipotesi di Ferrero è
quella di allentare i confini tra politica e società,
“ricostruendo un legame forte, obbligando la politica
a fare i conti con la società e dall’altro
lato, obbligando la società a ragionare sulle
soluzioni”.
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