310 - 24.11.06


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“Finalmente i liberal
avranno più voce”

Todd Gitlin con Elisabetta Ambrosi


Proprio poche settimane fa aveva pubblicato insieme al politologo Bruce Ackerman, sulla rivista progressista "The American Prospect", un “Manifesto liberal” in cui difendeva i progressisti americani dall’accusa di acquiescenza verso la politica, soprattutto estera, dei neconservatori: accusa mossa sulle pagine della "London Review of Books" da Tony Judt, ebreo radicale direttore del Remarque Institute alla New York University. Adesso, la vittoria netta dei democratici alle elezioni di mid-term non solo lo riempie di soddisfazione, ma rafforza le sue tesi sulla possibilità che l’ala più avanzata del partito democratico riesca finalmente a realizzare la sua agenda (potere del presidente permettendo): questo quanto ci ha detto in una conversazione “a caldo”, subito dopo le elezioni, Todd Gitlin, docente di sociologia e giornalismo alla Columbia University di New York.

Qual è stata la sua reazione ai risultati di questo importante test elettorale?

È una notizia meravigliosa: questa vittoria significa che per i prossimi due anni Bush potrà essere, almeno in parte, “contenuto”, anche se non schiacciato: ma gli ulteriori danni che potrà fare saranno comunque limitati, e questo è molto importante.

Secondo lei, la vittoria dei democratici è il risultato di una buona strategia, o la semplice conseguenza degli errori di Bush?

Le ragioni per cui Bush ha vinto? Beh, io credo che non ci sia una ragione specifica, ma molte: la guerra in Iraq, gli scandali del partito repubblicano, il fallimento nel proteggere la popolazione colpita dall’uragano Katrina, il rigetto della ricerca scientifica e dei metodi scientifici, infine l’indifferenza verso l’ineguaglianza crescente: insomma ci sono stati molti fattori, anche se va detto che la strategia democratica diretta a investire sui seggi del Congresso e del Senato che prima erano stati repubblicani è stata portata avanti molto bene, come è stato di successo il reclutamento di figure che fossero al di là degli steccati ideologici. Il partito democratico è emerso come un grande partito, è diventato l’alternativa reale a quello repubblicano.

Il direttore della “Repubblica”, Ezio Mauro, ha scritto che questa sconfitta segna la fine dell’ultima ideologia fondamentalista del secolo, quella neocon. È d’accordo?

Sì, penso di sì. Anche le dimissioni di Rumsfeld suggeriscono il collasso del progetto conservatore di Bush. Ma voglio ricordare che il presidente ancora un immenso potere, su molti fronti, come la politica estera. Infatti giudico altamente possibile che, prima di andarsene, attacchi l’Iran.

Quali saranno le conseguenze di questo voto, in politica interna ed estera?

In politica interna ci sarà un’aspra lotta tra il congresso e Bush su molti temi. Ma i democratici purtroppo non hanno i due terzi del Congresso: se, ad esempio, volessero far passare l’aumento del salario minimo, non potranno farlo, perché Bush sicuramente lo rigetterà e neanche con il supporto di parte dei repubblicani possono raggiungere i voti necessari. Non credo quindi che i democratici avranno molte possibilità di far passare leggi specifiche di politica interna. Quanto alla politica estera, lì la loro influenza è nulla, tale è il potere di Bush.

Lei ha firmato con Bruce Ackerman un “Manifesto Liberal” apparso sul quotidiano “La Repubblica”: crede che i liberal siano in grado definire e mettere in pratica politiche radicali?

Penso che le chances per simili politiche siano cresciute in America e siano ormai parte del dibattito pubblico. Il partito democratico non è un partito liberal, tuttavia i liberal giocano in esso una parte indispensabile. C’è ora l’opportunità di dare un’accelerazione all’agenda politica, in modo anche da rispondere efficacemente alla domanda su quali siano i nostri obiettivi. In effetti, ho sempre trovato triste e immeritato che le persone non sapessero cosa sostenesse la sinistra, quale fosse il suo programma. Ciò è stato anche colpa dei media, che, quando il partito democratico era all’opposizione, non parlavano mai dei suoi obiettivi. Ma ora ci sarà più attenzione su che cosa faranno i democratici, e di conseguenza la possibilità che i liberal abbiano più voce è reale.

Anche all’interno dello stesso partito democratico?

Come ho detto, il partito democratico non è un partito liberal, ma i liberal ne sono una parte molto importante. Molte commissioni della Camera e del Senato (più in politica interna che estera) sono state guadagnate da parlamentari liberal, e molte di esse verranno anche presiedute da liberal, quindi c’è la possibilità che essi possano concretamente legiferare. In ogni caso, ci saranno sicuramente conflitti nel partito, su molti fronti, ma credo che questo sia fisiologico. Il partito democratico sarà comunque il partito dominante del futuro, perché le elezioni sono state un terremoto di grandi proporzioni.

Una battuta su Nancy Pelosi e Hillary Clinton: le donne stanno diventando più convincenti ed efficaci degli uomini?

Nancy Pelosi è una straordinaria organizzatrice dei democratici, ed è per questo che è diventata la leader della minoranza. È arrivata in politica come responsabile della raccolta dei fondi, anche se aveva un background politico di tutto rispetto: il padre era sindaco di Baltimora, era una vera macchina politica. La Pelosi è stata definita liberal, specialmente dai repubblicani, ma in realtà non era la candidata preferita dalla sinistra di San Francisco, anzi era considerata relativamente conservatrice per il blocco radicale. È una buona politica e una brava organizzatrice, in grado di imporre la disciplina che serve sui democratici. Le sue capacità sono però molto diverse da quelle Hillary Clinton. Riguardo a quest’ultima, credo che sia ancora da vedere se la sua figura sia in grado di esercitare lo stesso grado di attrazione in tutto il paese, anche se nello stato di New york ha fatto un lavoro straordinario. Insomma, non ritengo che l’elezione di queste due donne vada considerata una rivoluzione per le donne in politica, ma sicuramente ha aperto fronti che andavano aperti.

Per finire: quanto peserà la vittoria dei democratici americani sulla sinistra italiana e sul dibattito sul Partito democratico?

Non conosco bene la situazione italiana, ma quello che posso dire è che la situazione americana è strutturalmente diversa dalla vostra, perché qui dominano due grandi partiti, e questa realtà è scritta nella Federazione e nella Costituzione e non può essere modificata. Ciò significa che qualsiasi partito, per aver successo, deve essere un grande partito, e il partito democratico è l’unico veicolo, non c’è altra alternativa. Gli italiani dovrebbero arrivare a pensare la stessa cosa, riconoscendo al tempo stesso che la strada principale consiste nell’isolare la destra. Credo comunque che ci siano buone possibilità in tal senso.

 

 


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