Proprio poche
settimane fa aveva pubblicato insieme al politologo
Bruce Ackerman, sulla rivista progressista "The
American Prospect", un “Manifesto liberal”
in cui difendeva i progressisti americani dall’accusa
di acquiescenza verso la politica, soprattutto estera,
dei neconservatori: accusa mossa sulle pagine della
"London Review of Books" da Tony Judt, ebreo
radicale direttore del Remarque Institute alla New York
University. Adesso, la vittoria netta dei democratici
alle elezioni di mid-term non solo lo riempie
di soddisfazione, ma rafforza le sue tesi sulla possibilità
che l’ala più avanzata del partito democratico
riesca finalmente a realizzare la sua agenda (potere
del presidente permettendo): questo quanto ci ha detto
in una conversazione “a caldo”, subito dopo
le elezioni, Todd Gitlin, docente di sociologia e giornalismo
alla Columbia University di New York.
Qual è stata la sua reazione ai risultati
di questo importante test elettorale?
È una notizia meravigliosa: questa vittoria
significa che per i prossimi due anni Bush potrà
essere, almeno in parte, “contenuto”, anche
se non schiacciato: ma gli ulteriori danni che potrà
fare saranno comunque limitati, e questo è molto
importante.
Secondo lei, la vittoria dei democratici è
il risultato di una buona strategia, o la semplice conseguenza
degli errori di Bush?
Le ragioni per cui Bush ha vinto? Beh, io credo che
non ci sia una ragione specifica, ma molte: la guerra
in Iraq, gli scandali del partito repubblicano, il fallimento
nel proteggere la popolazione colpita dall’uragano
Katrina, il rigetto della ricerca scientifica e dei
metodi scientifici, infine l’indifferenza verso
l’ineguaglianza crescente: insomma ci sono stati
molti fattori, anche se va detto che la strategia democratica
diretta a investire sui seggi del Congresso e del Senato
che prima erano stati repubblicani è stata portata
avanti molto bene, come è stato di successo il
reclutamento di figure che fossero al di là degli
steccati ideologici. Il partito democratico è
emerso come un grande partito, è diventato l’alternativa
reale a quello repubblicano.
Il direttore della “Repubblica”,
Ezio Mauro, ha scritto che questa sconfitta segna la
fine dell’ultima ideologia fondamentalista del
secolo, quella neocon. È d’accordo?
Sì, penso di sì. Anche le dimissioni
di Rumsfeld suggeriscono il collasso del progetto conservatore
di Bush. Ma voglio ricordare che il presidente ancora
un immenso potere, su molti fronti, come la politica
estera. Infatti giudico altamente possibile che, prima
di andarsene, attacchi l’Iran.
Quali saranno le conseguenze di questo voto,
in politica interna ed estera?
In politica interna ci sarà un’aspra lotta
tra il congresso e Bush su molti temi. Ma i democratici
purtroppo non hanno i due terzi del Congresso: se, ad
esempio, volessero far passare l’aumento del salario
minimo, non potranno farlo, perché Bush sicuramente
lo rigetterà e neanche con il supporto di parte
dei repubblicani possono raggiungere i voti necessari.
Non credo quindi che i democratici avranno molte possibilità
di far passare leggi specifiche di politica interna.
Quanto alla politica estera, lì la loro influenza
è nulla, tale è il potere di Bush.
Lei ha firmato con Bruce Ackerman un “Manifesto
Liberal” apparso sul quotidiano “La Repubblica”:
crede che i liberal siano in grado definire e mettere
in pratica politiche radicali?
Penso che le chances per simili politiche siano cresciute
in America e siano ormai parte del dibattito pubblico.
Il partito democratico non è un partito liberal,
tuttavia i liberal giocano in esso una parte indispensabile.
C’è ora l’opportunità di dare
un’accelerazione all’agenda politica, in
modo anche da rispondere efficacemente alla domanda
su quali siano i nostri obiettivi. In effetti, ho sempre
trovato triste e immeritato che le persone non sapessero
cosa sostenesse la sinistra, quale fosse il suo programma.
Ciò è stato anche colpa dei media, che,
quando il partito democratico era all’opposizione,
non parlavano mai dei suoi obiettivi. Ma ora ci sarà
più attenzione su che cosa faranno i democratici,
e di conseguenza la possibilità che i liberal
abbiano più voce è reale.
Anche all’interno dello stesso partito
democratico?
Come ho detto, il partito democratico non è
un partito liberal, ma i liberal ne sono una parte molto
importante. Molte commissioni della Camera e del Senato
(più in politica interna che estera) sono state
guadagnate da parlamentari liberal, e molte di esse
verranno anche presiedute da liberal, quindi c’è
la possibilità che essi possano concretamente
legiferare. In ogni caso, ci saranno sicuramente conflitti
nel partito, su molti fronti, ma credo che questo sia
fisiologico. Il partito democratico sarà comunque
il partito dominante del futuro, perché le elezioni
sono state un terremoto di grandi proporzioni.
Una battuta su Nancy Pelosi e Hillary Clinton:
le donne stanno diventando più convincenti ed
efficaci degli uomini?
Nancy Pelosi è una straordinaria organizzatrice
dei democratici, ed è per questo che è
diventata la leader della minoranza. È arrivata
in politica come responsabile della raccolta dei fondi,
anche se aveva un background politico di tutto rispetto:
il padre era sindaco di Baltimora, era una vera macchina
politica. La Pelosi è stata definita liberal,
specialmente dai repubblicani, ma in realtà non
era la candidata preferita dalla sinistra di San Francisco,
anzi era considerata relativamente conservatrice per
il blocco radicale. È una buona politica e una
brava organizzatrice, in grado di imporre la disciplina
che serve sui democratici. Le sue capacità sono
però molto diverse da quelle Hillary Clinton.
Riguardo a quest’ultima, credo che sia ancora
da vedere se la sua figura sia in grado di esercitare
lo stesso grado di attrazione in tutto il paese, anche
se nello stato di New york ha fatto un lavoro straordinario.
Insomma, non ritengo che l’elezione di queste
due donne vada considerata una rivoluzione per le donne
in politica, ma sicuramente ha aperto fronti che andavano
aperti.
Per finire: quanto peserà la vittoria
dei democratici americani sulla sinistra italiana e
sul dibattito sul Partito democratico?
Non conosco bene la situazione italiana, ma quello
che posso dire è che la situazione americana
è strutturalmente diversa dalla vostra, perché
qui dominano due grandi partiti, e questa realtà
è scritta nella Federazione e nella Costituzione
e non può essere modificata. Ciò significa
che qualsiasi partito, per aver successo, deve essere
un grande partito, e il partito democratico è
l’unico veicolo, non c’è altra alternativa.
Gli italiani dovrebbero arrivare a pensare la stessa
cosa, riconoscendo al tempo stesso che la strada principale
consiste nell’isolare la destra. Credo comunque
che ci siano buone possibilità in tal senso.
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