“Il
partito di Dio ha conquistato posizioni e prestigio:
giornali, televisioni, partiti politici. È nata
una nuova religione dei valori, che affascina una parte
della cultura laica, non sempre la più inquieta”:
così Marco Damilano, giornalista dell’
“Espresso”, racconta, in un saggio godibile
e insieme profondo, Il Partito di Dio (Einaudi,
2006), la formazione di un fronte neoclericale nella
società e nella Chiesa stessa. Obiettivo del
nuovo “crociato dei valori”, di cui il cardinale
Ruini è interprete magistrale, è combattere
la secolarizzazione dell’Occidente con un’offensiva
culturale imperniata su battaglie-immagine che ruotano
sui temi della vita e della sessualità.
Nel suo libro lei scrive che il nuovo nemico
della Chiesa, dopo il laicismo di stato ottocentesco
e il comunismo novecentesco, è il relativismo.
Al convegno ecclesiale di Verona, il papa ha condannato
senza appello la “nuova perniciosa ondata di laicismo
e illuminismo” e ha addirittura equiparato il
rischio “di scelte politiche e legislative che
contraddicano fondamentali valori (…) radicati
nella natura dell’essere umano” a quello
di guerre, terrorismo, fame e sete, epidemie. Perché
questa ossessione verso il relativismo?
Anche a me ha colpito questa equiparazione. Ratzinger
ha descritto i fronti su cui dobbiamo impegnarci. Ma
mentre guerra-pace, lotta al terrorismo, epidemie, sono
stati elencati in modo rapido e secco, l’accento
vero era sugli altri temi, la famiglia, la vita, l’educazione.
E si tratta di una novità rispetto al discorso
di Giovanni Paolo II a Palermo, nel precedente convegno
della Chiesa italiana del 1995, il primo che si faceva
dopo la crisi della Dc: lì papa Wojtyla accostava
i tre valori vita-famiglia-scuola a quelli pace-giustizia
sociale-accoglienza, tanto che si disse maliziosamente
che ce n’erano tre di destra e tre di sinistra.
Ebbene, questi ultimi tre sono praticamente caduti.
Perché?
Secondo me, Raztinger l’ha spiegato nel suo discorso
a Subiaco il 1 aprile 2005, il giorno prima che morisse
Wojtyla: si trattava dunque di un discorso importante,
una sorta di programma. Ebbene, allora egli disse che
il problema è cosa differenzia i cattolici dalla
morale del mondo: ad esempio non la pace, diceva lui,
perché esiste il pacifismo (erano ancora vive
le bandiere arcobaleno). In altre parole, il vero timore
di Ratzinger è che i cristiani annacquino la
loro identità, si mescolino in altre culture
e perdano il loro specifico. A questo proposito, c’è
un altro passaggio nel discorso di Verona, dove il papa
parla della Caritas come istituzione che si occupa dei
poveri, ma sottolinea che deve continuare a farlo senza
suggestioni ideologiche e senza simpatia partitiche.
Insomma, non si deve mescolare con la politica: si tratta
di una svolta rispetto alle posizioni della Chiesa,
perché chiunque fa volontariato esprime la necessità
di rimuovere anche le cause che rendono poveri gli individui.
Allora, l’accento su vita-famiglia-scuola si spiega
col fatto che sono fronti nei quali la Chiesa non si
confonde con le altre culture: si tratta di valori che
costituiscono il suo marchio identitario, che impediscono
la dispersione, tanto che sono gli altri a dover venire
loro incontro, non viceversa. Naturalmente questo tratto
identitario è declinato da Ratzinger sempre in
modo affascinante: non ne fa mai una questione dottrinale,
ma filosofica, culturale, razionale. Tradire l’embrione
significa tradire il Logos, la ragione, il diritto naturale.
La campagna culturale e simbolica sui temi
della vita e dell’etica avviene, come lei ben
descrive, sulle piazze mediatiche, sui giornali, nella
scuola, attraverso l’alleanza con i “teocon”.
Che giudizio si è fatto in particolare di questi
ultimi?
Gli atei devoti sono quella parte di cultura, di politica,
di società civile italiana che si dimostra più
sensibile a raccogliere questo appello, spesso dimenticando
l’essenza del cristianesimo. Ma c’è
da chiedersi cosa resta della differenza cristiana senza
parole come umiltà, povertà, pace etc.
Lei scrive che Ratzinger non crede alla politica,
ma proprio per questo è un papa più politico
del precedente, perché la sua scelta non è
più “per segnare l’autonomia della
fede dalla politica, ma per ribadire che una politica
sganciata dalla fede rischia di precipitare nel vuoto
etico”.
Wojtyla è stato un papa molto politico, basti
pensare alla lotta al comunismo nei paesi dell’est.
Invece Ratzinger sembra a disagio con la politica: penso
a quanto successe questa estate, quando cominciò
la guerra libanese. C’era un vuoto politico dovuto
al cambio del segretario di stato da Sodano a Bertone
e il papa disse in una dichiarazione che lui si ritrovava
totalmente nelle parole del G8: cosa che Wojtyla non
avrebbe mai fatto, perché ai suoi occhi la Chiesa
era un’istituzione alternativa ai grandi della
Terra, pur non essendo evidentemente no global. Di positivo,
quindi, in questo papato, c’è una separazione:
la politica la facciano i politici, dice Benedetto XVI.
Eppure sui temi forti il papa diventa fortemente politico,
perché quando si tratta principi non negoziabili
chiede alla politica di riconoscerli in quanto tali,
senza mediazioni, senza i compromessi, che sono il teatro
stesso della politica. E nel momento in cui si impongono
alla politica principi non negoziabili, si introduce
un criterio impolitico ma insieme una vera “bomba,”
perché si chiamano a raccolta svariate forze
chiamate a dire “O così, o nulla”:
è una posizione molto radicale e in qualche modo
in discontinuità con i suoi predecessori.
Nel libro si parla di un’ipoteca etico-religiosa
piombata sulla politica italiana, che fa sì che
i politici appaiano come re magi in fila a portare doni.
Gli schieramenti si dividono, e l’“ulivismo”
in particolare appare in sofferenza, tanto che la questione
dei valori rischia addirittura di far saltare il Partito
democratico.
L’Ulivo, e poi il Partito democratico, si fonda
sul superamento dello steccato laici cattolici. Dieci
anni fa, quando si cominciò a parlare di Ulivo
si disse: basta con il muro che separa la Dc dalle altre
forze. L’Ulivo è fondato quindi su un presupposto:
la presenza da un lato di cattolici adulti, che non
hanno paura di confrontarsi con la cultura laica e in
particolare con quella della sinistra laica, non con
una cultura genericamente intesa. Dall’altro,
di coloro che, proveniendo dall’esperienza del
Pci, cessano di considerare la religione un fatto privato,
senza una rilevanza pubblico-politica, rilevanza che
nella storia del partito è sempre stata riconosciuta
(penso a Togliatti, l’articolo sette della Costituzione,
il dialogo cattolici-comunisti, il compromesso di Berlinguer,
Franco Rodano etc). In questi ultimi anni è successo
invece che ognuno ha alzato le proprie bandiere: da
un lato i cattolici che dicono “Noi su questo
non trattiamo”, dall’altro un ritorno di
fiamma dell’anticlericalismo a sinistra. Questo
doppio vizio, intergralismo-laicismo, colpisce a morte
l’idea stessa del Partito democratico, che senza
quest’anima comune diventa un puro cartello elettorale.
E secondo me uno dei motivi per cui stenta a decollare
è proprio per la mancanza di radici comuni e
identitarie, che peraltro sono il contrario di tutta
la storia italiana perché La Pira e i comunisti
dialogavano già quando c’era il comunismo
vero.
Parliamo dei movimenti, un aspetto fondamentale
della Chiesa su cui il libro si sofferma a lungo. Da
un lato, essi sono visti come una componente del revival
clericale, tanto che il papa li protegge, a scapito
spesso della chiesa locale. Dall’altro però
esprimono un tentativo di rivivere il Vangelo delle
origini ma, tanto più cercano di emergere e acquisire
visibilità, tanto più vengono richiamati
all’ordine. Qual è il suo giudizio su di
essi?
Intanto occorre dire che non sono tutti uguali: ogni
movimento ha la sua storia, e non a caso il capitolo
del mio libro si intitola “Un popolo, tante tribù”.
Per esempio anche quest’anno c’è
stato un grande raduno dei movimenti a Piazza San Pietro,
analogo a quello convocato da Wojtyla nel 1998 e lì
si poteva chiaramente vedere come ognuno avesse i suoi
canti, il suo stile, etc. Ma a parte questa notazioni
di colore, i movimenti sono la grande novità
della Chiesa del dopo Concilio, quindi sicuramente esprimono
l’idea di tornare alla purezza del Vangelo. In
questo ritorno alla radicalità, la politica diviene
una pietra d’inciampo, perché il rapporto
con la sfera del potere e con quella dell’obbedienza
ecclesiastica è assai sofferto. Questo spiega
perché c’è una dialettica complicata
con il Vaticano e persino con Papa Ratzinger, che pure
ha detto che i movimenti sono la “nuova primavera
della Chiesa”. Essi sono visti con favore, purché
non tentino di dire che l’unica strada per la
salvezza è la propria, come invece purtroppo
succede. La reprimenda arriva ogni volta che un movimento
propone se stesso come l’unica via possibile,
cosa che provoca rissosità a livello locale e
problemi con le parrocchie, con le autorità ecclesiastiche
e anche con i pastori. Questi movimenti cominciano a
diventare leadership della Chiesa, a fare classe dirigente:
penso ad esempio a Cl, che non è più il
movimento dei giovani di Don Giussani ma un movimento
di cinquantenni-sessantenni, che ha espresso molti vescovi
e un cardinale che potrebbe diventare il successore
di Ruini. Ma Cl è solo uno dei tanti possibili
carismi attraverso cui vivere il cattolicesimo.
Quanto al rapporto con la politica?
Per Cl esso è essenziale, mentre gli altri movimenti
sono impolitici, hanno un rapporto complicato con il
potere, lo considerano una cosa da evitare: però
si tratta di una fetta importante della società
italiana, che vota e lo fa sulle istanze del partito
di Dio. Quello è il vero popolo del papa, il
meno mediato. Comunque, do un giudizio positivo sui
movimenti, con tutti i problemi e le contraddizioni
di cui abbiamo parlato, perché sono la strada
con cui la Chiesa cerca di restare viva nella società
occidentale. Al di là di politici e giornali,
infatti, il futuro della Chiesa passa per le piccole
comunità di base, esperienze come la comunità
di Bose, il volontariato, la vita in comune, le famiglie
etc: che però non fanno notizia e non spostano
voti e per questo vengono dimenticate da chi cerca una
scorciatoia mondana.
Nell’ultima parte del libro, lei denuncia
problemi nascosti dietro l’apparente vitalismo
(mediatico) della Chiesa: c’è frammentazione,
le voci non allineate sono emarginate, si rinuncia a
dire una parola per tutti, i drammi quotidiani dell’esistenza
sono dimenticati. Insomma, è il paradosso delle
piazze piene e delle parrocchie vuote di cui parlavano
Mazzolari e Don Milani. Eppure, scrive, “è
nelle coscienze individuali che si vince o si perde”.
Ho riflettuto su questi aspetti dal punto di vista
personale anche in conseguenza del referendum sulla
fecondazione assistita, quando “l’Avvenire”
uscì con questo titolo: “L’Italia
si scopre adulta”. Come se quel 74 per cento di
astensionisti fosse la reazione ai referendum perduti
negli anni ’70! In realtà lo stesso cardinale
Ruini, decidendo per l’astensione, ha imposto
una scelta elettorale, ma non ha proposto un valore.
Sommando gli astensionisti attivi con i più secolarizzati
di tutti, quelli che non vanno a votare in nessun caso,
si è arrivati al paradosso che la vittoria dell’
“Italia cattolica adulta” è avvenuta
su quella che io ho chiamato la “secolarizzazione
della secolarizzazione”. Almeno negli anni ‘70
ci fu una spaccatura violenta, non l’indifferenza!
Io credo che, in realtà, Ruini e il papa abbiano
consapevolezza di ciò, anzi il papa ha una visione
drammatica, parla di Chiese morenti in tutta Europa.
Ed è così, nel resto d’Europa il
cristianesimo è in difficoltà ovunque,
mentre in Italia gli indicatori della politica e della
comunicazione indicano che c’è una ripresa
del messaggio cristiano. Ma che tipo di messaggio cristiano?
Un messaggio veicolato dal potere politico, mediatico,
legato ai giganti dell’economia che si comportano
poi in maniera anticristiana. Non si tratta forse di
una gigantesca scorciatoia rispetto alla formazione
di una fede adulta in grado di confrontarsi con le emergenze
del nostro tempo?
È il cristianesimo dei giorni di festa…
Esatto, ma dopo i giorni di festa, dove c’è
il cristianesimo che piace ai media, c’è
il cristianesimo di tutti i giorni, che ha grossissime
difficoltà: la mia impressione è che di
questo se ne sia parlato pochissimo a Verona. I testi
erano lontani dai drammi quotidiani sui quali il relativismo
veramente incide, perché ognuno viene lasciato
da solo con la propria coscienza a confrontarsi con
le grandi battaglie. Naturalmente, non c’è
una soluzione facile per la Chiesa, però direi
che più si mondanizza, più si relativizza,
cioè viene investita dallo stesso virus che vuole
combattere.
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