310 - 24.11.06


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Le piazze mediatiche
di Papa Ratzinger

Marco Damilano con Elisabetta Ambrosi


“Il partito di Dio ha conquistato posizioni e prestigio: giornali, televisioni, partiti politici. È nata una nuova religione dei valori, che affascina una parte della cultura laica, non sempre la più inquieta”: così Marco Damilano, giornalista dell’ “Espresso”, racconta, in un saggio godibile e insieme profondo, Il Partito di Dio (Einaudi, 2006), la formazione di un fronte neoclericale nella società e nella Chiesa stessa. Obiettivo del nuovo “crociato dei valori”, di cui il cardinale Ruini è interprete magistrale, è combattere la secolarizzazione dell’Occidente con un’offensiva culturale imperniata su battaglie-immagine che ruotano sui temi della vita e della sessualità.

Nel suo libro lei scrive che il nuovo nemico della Chiesa, dopo il laicismo di stato ottocentesco e il comunismo novecentesco, è il relativismo. Al convegno ecclesiale di Verona, il papa ha condannato senza appello la “nuova perniciosa ondata di laicismo e illuminismo” e ha addirittura equiparato il rischio “di scelte politiche e legislative che contraddicano fondamentali valori (…) radicati nella natura dell’essere umano” a quello di guerre, terrorismo, fame e sete, epidemie. Perché questa ossessione verso il relativismo?

Anche a me ha colpito questa equiparazione. Ratzinger ha descritto i fronti su cui dobbiamo impegnarci. Ma mentre guerra-pace, lotta al terrorismo, epidemie, sono stati elencati in modo rapido e secco, l’accento vero era sugli altri temi, la famiglia, la vita, l’educazione. E si tratta di una novità rispetto al discorso di Giovanni Paolo II a Palermo, nel precedente convegno della Chiesa italiana del 1995, il primo che si faceva dopo la crisi della Dc: lì papa Wojtyla accostava i tre valori vita-famiglia-scuola a quelli pace-giustizia sociale-accoglienza, tanto che si disse maliziosamente che ce n’erano tre di destra e tre di sinistra. Ebbene, questi ultimi tre sono praticamente caduti.

Perché?

Secondo me, Raztinger l’ha spiegato nel suo discorso a Subiaco il 1 aprile 2005, il giorno prima che morisse Wojtyla: si trattava dunque di un discorso importante, una sorta di programma. Ebbene, allora egli disse che il problema è cosa differenzia i cattolici dalla morale del mondo: ad esempio non la pace, diceva lui, perché esiste il pacifismo (erano ancora vive le bandiere arcobaleno). In altre parole, il vero timore di Ratzinger è che i cristiani annacquino la loro identità, si mescolino in altre culture e perdano il loro specifico. A questo proposito, c’è un altro passaggio nel discorso di Verona, dove il papa parla della Caritas come istituzione che si occupa dei poveri, ma sottolinea che deve continuare a farlo senza suggestioni ideologiche e senza simpatia partitiche. Insomma, non si deve mescolare con la politica: si tratta di una svolta rispetto alle posizioni della Chiesa, perché chiunque fa volontariato esprime la necessità di rimuovere anche le cause che rendono poveri gli individui. Allora, l’accento su vita-famiglia-scuola si spiega col fatto che sono fronti nei quali la Chiesa non si confonde con le altre culture: si tratta di valori che costituiscono il suo marchio identitario, che impediscono la dispersione, tanto che sono gli altri a dover venire loro incontro, non viceversa. Naturalmente questo tratto identitario è declinato da Ratzinger sempre in modo affascinante: non ne fa mai una questione dottrinale, ma filosofica, culturale, razionale. Tradire l’embrione significa tradire il Logos, la ragione, il diritto naturale.

La campagna culturale e simbolica sui temi della vita e dell’etica avviene, come lei ben descrive, sulle piazze mediatiche, sui giornali, nella scuola, attraverso l’alleanza con i “teocon”. Che giudizio si è fatto in particolare di questi ultimi?

Gli atei devoti sono quella parte di cultura, di politica, di società civile italiana che si dimostra più sensibile a raccogliere questo appello, spesso dimenticando l’essenza del cristianesimo. Ma c’è da chiedersi cosa resta della differenza cristiana senza parole come umiltà, povertà, pace etc.

Lei scrive che Ratzinger non crede alla politica, ma proprio per questo è un papa più politico del precedente, perché la sua scelta non è più “per segnare l’autonomia della fede dalla politica, ma per ribadire che una politica sganciata dalla fede rischia di precipitare nel vuoto etico”.

Wojtyla è stato un papa molto politico, basti pensare alla lotta al comunismo nei paesi dell’est. Invece Ratzinger sembra a disagio con la politica: penso a quanto successe questa estate, quando cominciò la guerra libanese. C’era un vuoto politico dovuto al cambio del segretario di stato da Sodano a Bertone e il papa disse in una dichiarazione che lui si ritrovava totalmente nelle parole del G8: cosa che Wojtyla non avrebbe mai fatto, perché ai suoi occhi la Chiesa era un’istituzione alternativa ai grandi della Terra, pur non essendo evidentemente no global. Di positivo, quindi, in questo papato, c’è una separazione: la politica la facciano i politici, dice Benedetto XVI. Eppure sui temi forti il papa diventa fortemente politico, perché quando si tratta principi non negoziabili chiede alla politica di riconoscerli in quanto tali, senza mediazioni, senza i compromessi, che sono il teatro stesso della politica. E nel momento in cui si impongono alla politica principi non negoziabili, si introduce un criterio impolitico ma insieme una vera “bomba,” perché si chiamano a raccolta svariate forze chiamate a dire “O così, o nulla”: è una posizione molto radicale e in qualche modo in discontinuità con i suoi predecessori.

Nel libro si parla di un’ipoteca etico-religiosa piombata sulla politica italiana, che fa sì che i politici appaiano come re magi in fila a portare doni. Gli schieramenti si dividono, e l’“ulivismo” in particolare appare in sofferenza, tanto che la questione dei valori rischia addirittura di far saltare il Partito democratico.

L’Ulivo, e poi il Partito democratico, si fonda sul superamento dello steccato laici cattolici. Dieci anni fa, quando si cominciò a parlare di Ulivo si disse: basta con il muro che separa la Dc dalle altre forze. L’Ulivo è fondato quindi su un presupposto: la presenza da un lato di cattolici adulti, che non hanno paura di confrontarsi con la cultura laica e in particolare con quella della sinistra laica, non con una cultura genericamente intesa. Dall’altro, di coloro che, proveniendo dall’esperienza del Pci, cessano di considerare la religione un fatto privato, senza una rilevanza pubblico-politica, rilevanza che nella storia del partito è sempre stata riconosciuta (penso a Togliatti, l’articolo sette della Costituzione, il dialogo cattolici-comunisti, il compromesso di Berlinguer, Franco Rodano etc). In questi ultimi anni è successo invece che ognuno ha alzato le proprie bandiere: da un lato i cattolici che dicono “Noi su questo non trattiamo”, dall’altro un ritorno di fiamma dell’anticlericalismo a sinistra. Questo doppio vizio, intergralismo-laicismo, colpisce a morte l’idea stessa del Partito democratico, che senza quest’anima comune diventa un puro cartello elettorale. E secondo me uno dei motivi per cui stenta a decollare è proprio per la mancanza di radici comuni e identitarie, che peraltro sono il contrario di tutta la storia italiana perché La Pira e i comunisti dialogavano già quando c’era il comunismo vero.

Parliamo dei movimenti, un aspetto fondamentale della Chiesa su cui il libro si sofferma a lungo. Da un lato, essi sono visti come una componente del revival clericale, tanto che il papa li protegge, a scapito spesso della chiesa locale. Dall’altro però esprimono un tentativo di rivivere il Vangelo delle origini ma, tanto più cercano di emergere e acquisire visibilità, tanto più vengono richiamati all’ordine. Qual è il suo giudizio su di essi?

Intanto occorre dire che non sono tutti uguali: ogni movimento ha la sua storia, e non a caso il capitolo del mio libro si intitola “Un popolo, tante tribù”. Per esempio anche quest’anno c’è stato un grande raduno dei movimenti a Piazza San Pietro, analogo a quello convocato da Wojtyla nel 1998 e lì si poteva chiaramente vedere come ognuno avesse i suoi canti, il suo stile, etc. Ma a parte questa notazioni di colore, i movimenti sono la grande novità della Chiesa del dopo Concilio, quindi sicuramente esprimono l’idea di tornare alla purezza del Vangelo. In questo ritorno alla radicalità, la politica diviene una pietra d’inciampo, perché il rapporto con la sfera del potere e con quella dell’obbedienza ecclesiastica è assai sofferto. Questo spiega perché c’è una dialettica complicata con il Vaticano e persino con Papa Ratzinger, che pure ha detto che i movimenti sono la “nuova primavera della Chiesa”. Essi sono visti con favore, purché non tentino di dire che l’unica strada per la salvezza è la propria, come invece purtroppo succede. La reprimenda arriva ogni volta che un movimento propone se stesso come l’unica via possibile, cosa che provoca rissosità a livello locale e problemi con le parrocchie, con le autorità ecclesiastiche e anche con i pastori. Questi movimenti cominciano a diventare leadership della Chiesa, a fare classe dirigente: penso ad esempio a Cl, che non è più il movimento dei giovani di Don Giussani ma un movimento di cinquantenni-sessantenni, che ha espresso molti vescovi e un cardinale che potrebbe diventare il successore di Ruini. Ma Cl è solo uno dei tanti possibili carismi attraverso cui vivere il cattolicesimo.

Quanto al rapporto con la politica?

Per Cl esso è essenziale, mentre gli altri movimenti sono impolitici, hanno un rapporto complicato con il potere, lo considerano una cosa da evitare: però si tratta di una fetta importante della società italiana, che vota e lo fa sulle istanze del partito di Dio. Quello è il vero popolo del papa, il meno mediato. Comunque, do un giudizio positivo sui movimenti, con tutti i problemi e le contraddizioni di cui abbiamo parlato, perché sono la strada con cui la Chiesa cerca di restare viva nella società occidentale. Al di là di politici e giornali, infatti, il futuro della Chiesa passa per le piccole comunità di base, esperienze come la comunità di Bose, il volontariato, la vita in comune, le famiglie etc: che però non fanno notizia e non spostano voti e per questo vengono dimenticate da chi cerca una scorciatoia mondana.

Nell’ultima parte del libro, lei denuncia problemi nascosti dietro l’apparente vitalismo (mediatico) della Chiesa: c’è frammentazione, le voci non allineate sono emarginate, si rinuncia a dire una parola per tutti, i drammi quotidiani dell’esistenza sono dimenticati. Insomma, è il paradosso delle piazze piene e delle parrocchie vuote di cui parlavano Mazzolari e Don Milani. Eppure, scrive, “è nelle coscienze individuali che si vince o si perde”.

Ho riflettuto su questi aspetti dal punto di vista personale anche in conseguenza del referendum sulla fecondazione assistita, quando “l’Avvenire” uscì con questo titolo: “L’Italia si scopre adulta”. Come se quel 74 per cento di astensionisti fosse la reazione ai referendum perduti negli anni ’70! In realtà lo stesso cardinale Ruini, decidendo per l’astensione, ha imposto una scelta elettorale, ma non ha proposto un valore. Sommando gli astensionisti attivi con i più secolarizzati di tutti, quelli che non vanno a votare in nessun caso, si è arrivati al paradosso che la vittoria dell’ “Italia cattolica adulta” è avvenuta su quella che io ho chiamato la “secolarizzazione della secolarizzazione”. Almeno negli anni ‘70 ci fu una spaccatura violenta, non l’indifferenza! Io credo che, in realtà, Ruini e il papa abbiano consapevolezza di ciò, anzi il papa ha una visione drammatica, parla di Chiese morenti in tutta Europa. Ed è così, nel resto d’Europa il cristianesimo è in difficoltà ovunque, mentre in Italia gli indicatori della politica e della comunicazione indicano che c’è una ripresa del messaggio cristiano. Ma che tipo di messaggio cristiano? Un messaggio veicolato dal potere politico, mediatico, legato ai giganti dell’economia che si comportano poi in maniera anticristiana. Non si tratta forse di una gigantesca scorciatoia rispetto alla formazione di una fede adulta in grado di confrontarsi con le emergenze del nostro tempo?

È il cristianesimo dei giorni di festa…

Esatto, ma dopo i giorni di festa, dove c’è il cristianesimo che piace ai media, c’è il cristianesimo di tutti i giorni, che ha grossissime difficoltà: la mia impressione è che di questo se ne sia parlato pochissimo a Verona. I testi erano lontani dai drammi quotidiani sui quali il relativismo veramente incide, perché ognuno viene lasciato da solo con la propria coscienza a confrontarsi con le grandi battaglie. Naturalmente, non c’è una soluzione facile per la Chiesa, però direi che più si mondanizza, più si relativizza, cioè viene investita dallo stesso virus che vuole combattere.


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