309 - 10.11.06


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Umiltà per “provincializzare” l’Europa

Charles Taylor con
Giancarlo Bosetti


Tratto da Reset.


Per Charles Taylor, il filosofo dell’Io multiplo, la cultura della differenza comincia da noi stessi, e sta nel comprenderci come diversi, nell’umiltà di vederci quali siamo, una provincia e non la capitale. Nessuno è il nucleo centrale di un Ego che domina il mondo. È questa una delle sfide più importanti del XXI secolo: capire le diversità e imparare a gestirle con mezzi pacifici. Il suo nome è “multiculturalismo”, una parola che non merita di finire nel macinino degli alterchi politici. Si può rifiutare una prospettiva multiculturale, ma almeno dopo aver capito di che cosa si tratta. Taylor, canadese, cattolico, era filosoficamente molto vicino a Giovanni Paolo II. È noto in tutto il mondo anche per le polemiche che hanno diviso liberali da “communitarians”, con lui dalla parte dei secondi. Il suo libro più recente è Gli immaginari sociali moderni (tradotto in Italia da Meltemi) e sullo stesso tema ha tenuto, lo scorso giugno, una lezione presso la facoltà di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca, nell’ambito delle International Faculty Lectures su “Democrazia e trasformazioni sociali”.

Oggi sulla scena non c’è solo la difficoltà etnocentrica di non riuscire a capirsi, tra americani e arabi, occidentali e orientali, Sud e Nord, ci sono anche conflitti. Ci servirebbe la capacità di fare uno, tanti ponti verso il pensiero degli altri.

Non è con un pensiero che possiamo raggiungere questo risultato, dobbiamo capire in profondità gli immaginari sociali di altre civiltà e di altri popoli. E per fare questo dobbiamo essere consapevoli che i nostri immaginari non sono gli unici possibili per gli esseri umani. Spesso ci troviamo di fronte ad una sorta di autocentrismo, vale a dire alla proiezione del nostro immaginario sull’altro, come se l’altro funzionasse sugli stessi concetti, le stesse idee. In questo modo, l’altro risulta spesso completamente immorale dal momento che, pur condividendo la nostra morale, si comporta in modo opposto!

Che cosa è l’immaginario sociale?

Le istituzioni di qualsiasi società hanno bisogno di una comprensione condivisa dai loro membri. Non si tratta necessariamente di una teoria comune, ma di una sorta di comprensione che dobbiamo tentare di trovare nelle articolazioni della vita comune, come fanno gli antropologi. L’immaginario sociale è tutto ciò che ci serve per una comprensione comune dei fatti collettivi, per poter mantenere in vita istituzioni come il voto, le elezioni, le manifestazioni pubbliche e via dicendo. Ho cercato di studiare il modo in cui si sono sviluppati nel corso del tempo gli immaginari specifici della modernità occidentale.

Come si fa a capire l’immaginario degli altri?

Per poter comprendere la differenza dell’altro bisogna prima di tutto essere consapevoli che il nostro immaginario è molto specifico, che si tratta di qualcosa che abbiamo sviluppato nel tempo, che non è stato condiviso da tutti gli uomini in tutte le epoche, ed è questa sensibilità per la differenza, per tutto ciò che è peculiare in noi e ciò che è diverso nell’altro, che dobbiamo coltivare. Quello che cerco di fare è mettere in evidenza, ai nostri occhi, la nostra particolarità – di noi occidentali – per riuscire a vedere che altrove le cose sono spesso molto diverse, che si tratti di Medio Oriente, di India, di Africa.

Ma questa sensibilità per gli altri non è particolarmente abbondante nella nostra epoca.

Credo che la virtù più importante sia l’umiltà, vale a dire la capacità di accettare che gli altri non siano come noi, che non siamo detentori di modelli universali, che vi sono altri modi di essere umani, che il nostro è solo un modo tra numerosi altri. Ed è questa umiltà che manca in Occidente, perché durante alcuni secoli siamo stati la civiltà dominatrice e abbiamo ancora questo tipo di riflesso: siamo noi ad avere ragione, siamo noi ad aver raggiunto l’apice del progresso e della perfezione umana, gli altri debbono solo copiarci per progredire. La principale virtù che dobbiamo coltivare è proprio l’umiltà.

Lei parla di umiltà dell’Occidente. Perché comincia da qui? Perché dai più potenti?

Sono i più potenti che rappresentano il pericolo in questo caso; sono loro che hanno la tentazione di rifiutarsi di capire, in quanto credono di avere ragione. Dal momento che si è potenti e ci si trova in posizione di dominio, si crede di avere ragione. Ed è per questo che gli occidentali hanno avuto questo difetto fino a qualche tempo fa. Tuttavia, osservando altre culture molto potenti, come la cultura cinese, vediamo una cosa praticamente analoga: i cinesi credono di essere al centro dell’universo e guardano le altre culture dall’alto in basso. Credo che uno scontro tra gli americani e i cinesi sia da temere fortemente, in quanto sono due popoli che ritengono entrambi di essere al centro del mondo.

Ma quando apriamo un dibattito concreto tra le culture vediamo nei fatti entrare in azione le deformazioni incrociate dello sguardo: quello dell’Occidente sull’Oriente (cui Edward Said ha dato il nome di “orientalismo”), viziato da colonialismo, imperialismo, senso di superiorità, e quello dell’Oriente o del Sud verso l’Occidente (cui Buruma e Margalit hanno dato il nome di “occidentalismo”), viziato dal risentimento postcoloniale, dalla frustrazione e dai complessi di inferiorità. In questo modo ci vorranno secoli per raggiungere la parità e la lucidità necessarie per capirsi.

L’unica possibilità è individuare, in ogni civiltà, le persone che sono capaci di dialogare con gli altri. Bisogna prendere dei contatti e rafforzarsi reciprocamente, allo scopo di mettere all’angolo i nostri estremismi, perché è evidente che gli estremismi esistono in entrambi i campi. Non è affatto vero che tutti i musulmani la pensano come Bin Laden. Ed è altrettanto falso ritenere che tutti gli occidentali la pensino come Bush o Berlusconi. Noi abbiamo i nostri “selvaggi “ e loro hanno i loro e l’unica possibilità di fermarli da entrambe le parti sta nello stabilire dei contatti con le persone dell’altra sponda con le quali un dialogo è possibile.

Ma la xenofobia sta scavando fossati. La rappresentazione degli altri come nemici è un gioco più facile del dialogo.

La guerra di civiltà si scatena perché da entrambe le parti la gente viene convinta che tutti gli altri sono contro di noi, che non vi è nessuno con cui si può parlare dall’altra parte. È quello che Bin Laden cerca di fare in Medio Oriente, ed è quello che gli occidentali cercano di fare in Europa e in America: tutti i musulmani sono dei fanatici, tutti gli arabi sono contro di noi. Se consegneremo il potere ai nostri estremisti ci avvieremo verso una guerra orrenda che procurerà danni assolutamente inimmaginabili. È quindi questo genere di contatto che dobbiamo ricercare. Tra i miei conoscenti arabi ho trovato persone assolutamente ragionevoli che si sentono a loro volta incastrate dagli estremisti del loro mondo.

Lei parla a volte di “provincializzare “ l’Europa. Che cosa intende dire con questa espressione?

Intendo dire che dobbiamo riconoscere di essere una cultura tra le altre. La provincializzazione è esattamente l’umiltà di cui parlavo poc’anzi: L’Europa non è universale, l’Europa è una realizzazione importante della storia umana, con alcuni aspetti meravigliosi, ma anche con dei difetti; noi non rappresentiamo la risposta definitiva, ultima, all’enigma umano.

Ma l’Europa significa anche secolarizzazione e una certa idea di libertà dell’individuo. Non possiamo rinunciare a distinguere tra libertà e assenza di libertà?

Penso che nessuno possa essere tratto in inganno, quando si trova di fronte ad un dittatore che pretende di servire la libertà: penso che nessuno ci creda veramente. Prendiamo la Cina: nessuno crede al governo quando afferma di garantire la libertà del suo popolo. La gente può accettare e sostenere un regime perché ha altri scopi, o per nazionalismo, o perché desidera crescere molto rapidamente e quindi accetta di sacrificare la libertà. Ma io credo che né i tedeschi sotto Hitler né i russi sotto i sovietici abbiano mai creduto di essere liberi. La libertà è un bene molto importante ma quando dobbiamo definirla non vi è una grande distanza tra una definizione e l’altra: circa i diversi modi per garantirla ritengo vi siano sufficienti elementi in comune per poter aprire un dialogo con persone di altre civiltà.

Non possiamo neppure trattare la cultura politica, che è l’eredità dei Lumi, e il concetto stesso di democrazia, come qualcosa di etnocentrico. Ad esempio i diritti delle donne, o la libertà di stampa sono qualcosa che amiamo come “provincia europea” ma sono anche valori universali.

Quei diritti sono amati anche dalla maggior parte della gente, è ovvio. Ci sono alcuni diritti fondamentali, che sono stati sviluppati in un certo modo in Europa ma che tuttavia non sono stati introdotti unicamente dagli europei. Prendiamo la democrazia: l’abbiamo ricevuta dai greci e l’abbiamo sviluppata ulteriormente, ma quando guardiamo la democrazia che si sviluppa nell’altra parte del mondo, ad esempio in India, ci rendiamo conto che non si tratta della copia assoluta della nostra. Vediamo che le cose sono avvenute in modi diversi, attraverso strade diverse, con altre istituzioni, con un altro processo politico, ed è qui che diventa necessaria l’umiltà. La democrazia ha un valore universale, va bene, ma essa sarà realizzata in modi diversi nelle diverse civiltà, e noi dobbiamo rispettare queste diversità. Quando manca questo rispetto prendono forma politiche come quella di George Bush, il quale, in effetti, dice: “Noi americani abbiamo la risposta ultima alla democrazia, e l’imporremo dovunque”. Questa affermazione è foriera di terribili disastri.

Tra questi principi universali possiamo annoverare anche la secolarizzazione o, almeno, un certo grado di separazione tra religione e politica ?

Dipenderà dalle situazioni. Una libertà religiosa è certamente molto importante, e altrettanto importante è un’uguaglianza tra le persone che aderiscono a credenze diverse. Ma questo si realizzerà necessariamente attraverso una separazione tra Chiesa e Stato oppure possiamo pensare ad un regime come quello che Gandhi e Nehru hanno cercato di costruire in India, dove non vi è distanza tra politica e religione, ma dove vige un profondo accordo sull’uguaglianza e il rispetto reciproco? Oppure si realizzerà con un sistema laicista alla francese? Le formule possibili sono numerose. Non dobbiamo assolutizzare una formula specifica occidentale, sia essa americana o francese.

Nel mondo islamico vi è un dibattito a proposito di secolarizzazione.

Vi è un dibattito già avviato, ed è difficile portarlo avanti con questa mobilitazione fanatica e un po’ sciovinista. In che modo realizzare il principio coranico? come possiamo realizzare un rispetto reciproco nei confronti di diverse famiglie religiose? Questi principi sono stati in parte applicati nella storia della civiltà islamica e vi sono persone, nel modo musulmano, che vorrebbero fare altrettanto oggi. Ma si scontrano con coloro che vogliono scatenare una guerra di religione.

È possibile la secolarizzazione senza una riforma religiosa? L’Europa laica non è anche il prodotto della Riforma?

Credo che nella maggior parte dei casi il processo sia passato da una riforma religiosa. Negli Stati Uniti vi è stato uno sviluppo parallelo di una certa riforma religiosa e di quello che potremmo chiamare un regime secolare. Solo la Francia registra uno sforzo per determinare un regime secolare contro la religione. Nella maggior parte dei casi questo è avvenuto in armonia con alcune concezioni religiose.

Lei ritiene che si possa giungere a punti di vista comuni, tra culture diverse, per una comune definizione del terrorismo, oppure c’è sempre la tentazione, come sostengono alcuni antropologi, come Jack Goody, di vedere “terrorismo” da una parte e “resistenza” dall’altra a seconda del punto di osservazione?

Quando le passioni e la percezione di un’ingiustizia sono molto forti la gente fa fatica a dare agli autori di atti di terrorismo la qualifica di terroristi, ma in fondo in fondo lo sanno che si tratta di terrorismo; ritengono che queste persone siano state provocate dai nemici, tanto che non hanno potuto fare un’altra scelta. Allora non si tratta di un vero e proprio disaccordo sulla definizione di terrorismo, si tratta di un disaccordo sulla responsabilità delle parti in causa in alcune delle attuali situazioni di guerra. I palestinesi ritengono che tutti quelli che si sono autodefiniti martiri sono stati provocati in modo orrendo da un’oppressione, da atti di violenza da parte degli israeliani, sostenuti dagli americani. Ed ecco che si scatena quella terribile collera. Se si iniziasse a seguire la “Road Map” per la pace in Medio Oriente, questa immensa collera potrebbe scemare. La grande domanda è se l’Occidente, e soprattutto se gli Stati Uniti, hanno la volontà di forzare i due partner, e soprattutto Israele, a sedersi ad un tavolo e ad iniziare dei negoziati. Quando si faranno dei progressi su quella strada nessuno dirà più: “Questo non è un atto di terrorismo”. Prendiamo l’esempio dell’Irlanda del Nord. Venti anni fa la collera era enorme e molti cattolici sostenevano l’Ira, mentre molti protestanti sostenevano i militanti. Ora di tutto questo non c’è più niente.

Ma come definirebbe la capacità che hanno alcuni individui di superare i conflitti in corso con il loro pensiero, con la loro immaginazione ? Penso a Mandela, a Martin Luther King, a Gandhi. Come possiamo definire questa capacità che è appannaggio solo di un numero piccolissimo di persone?

E’ difficile darne una definizione, ma tutti la riconoscono quando la vedono. In quasi tutti quei casi non si tratta di una casualità, si tratta di una visione religiosa, di una visione dell’essere umano che supera le semplici lealtà nei confronti della propria tribù o del proprio gruppo di appartenenza, perché siamo tutti figli di Dio. Credo che in quasi tutti i casi che possiamo citare vi sia questa visione universalistica che può avere basi profondamente cristiane, come nel caso di Mandela, di Tutu e di King, e basi indù e cristiane nel caso di Gandhi, perché le basi del pensiero di Gandhi erano diversificate. Sono visioni di questo genere che consentono a queste persone di superare le differenze di piano, di nazione, e anche i risentimenti per ingiustizie secolari.



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