309 - 10.11.06


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Budapest, Tito e i comunisti europei

Federigo Argentieri


Il brano che segue è l’introduzione del libro “Ungheria 1956. La rivoluzione calunniata”, uscito per la prima volta nella collana I libri di Reset nel 1998 e riproposta nel 2006 per il cinquantenario della rivoluzione di Budapest in versione ampiamente riveduta e aggiornata.

Nella primavera del 1945, il comunismo in Europa occidentale cominciò a vivere il suo momento di gloria. Ciò è particolarmente vero per tre paesi: la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia, in misura minore per altri come i paesi scandinavi, Finlandia, Austria, Belgio e Olanda. Oggi, a oltre sessant’anni di distanza, è possibile comprendere pienamente i motivi di un simile fenomeno. Il contributo dei comunisti alla Resistenza, soprattutto in Francia e in Italia, ebbe di certo un ruolo importante, ma non è sufficiente a spiegare tutto.

Da un lato, una visione parziale e mitologica della battaglia di Stalingrado portò milioni di persone a guardare all’Urss come al paese che aveva salvato la civiltà e a Stalin stesso come al suo eroico e sagace condottiero. Dall’altro, la dislocazione geopolitica di quasi tutti i paesi citati permetteva di evitare un contatto diretto con la brutalità quotidiana della presenza militare sovietica, in tal modo non solo alimentando ulteriormente quelle visioni parziali e mitologiche, ma accrescendole e consolidandole fino a far loro perdere quasi del tutto il legame con la realtà.

Nei tre paesi considerati, naturalmente, i partiti comunisti avevano dimensioni e forza diverse, così come diversa era la situazione politica. In Francia, alle prime elezioni parlamentari della Quarta repubblica svoltesi nel novembre 1946, il Pcf ottenne il 28,8% dei voti, diventando il primo partito del paese, con una forza organizzata di circa 900.000 iscritti. In Italia, nel giugno dello stesso anno, il Pci aveva sfiorato il 20% alle elezioni per la Costituente e vantava quasi due milioni di militanti. In Gran Bretagna, nelle famose elezioni del luglio 1945 che sancirono la sconfitta di Churchill, il Cpgb era riuscito a far eleggere due deputati alla Camera dei Comuni, evento ineguagliato nella storia (naturalmente, non bisogna dimenticare la differenza esistente nei sistemi elettorali), e poteva contare su circa 50.000 tesserati e altrettanti simpatizzanti: inoltre, una dozzina di deputati del Labour Party erano considerati “cryptos”, ossia comunisti iscritti al partito di Attlee.

Per tutto il periodo compreso tra la vittoria sul nazismo e il colpo di Stato del 25 febbraio 1948 in Cecoslovacchia, questi partiti vissero il loro periodo d’oro: governi di ampia unità nazionale (a maggioranza laburista in Gran Bretagna), ricostruzione del paese, entusiasmo, passione, dibattiti interminabili sull’arte, la cultura, la filosofia progressiste, la sensazione di costruire una società nuova. Tali sensazioni erano simili per certi aspetti a quelle vissute nella stessa Cecoslovacchia e in Ungheria, sebbene in questi due paesi si avvertissero già segnali minacciosi. Esempio fra i tanti, l’arresto di Béla Kovács, segretario del partito di maggioranza assoluta nel Parlamento ungherese (25 febbraio 1947) e l’ordine impartito da Stalin a Praga di respingere il piano Marshall, quando quest’ultimo era già stato approvato dall’ancor libero Parlamento cecoslovacco (luglio 1947).

Nella prima metà del 1948, mentre nell’Europa sovietizzata scompariva ogni residua parvenza di democrazia e di libertà, nei partiti comunisti occidentali si poneva fine ai dibattiti e si serravano i ranghi: l’intero movimento comunista adottava i principi di politica culturale enunciati da Ždanov e combatteva, per decreto di Stalin, la batta glia contro l’eresia iugoslava. In Gran Bretagna James Klugmann – che durante la guerra aveva operato nei Balcani per fare di Tito e dei suoi i destinatari degli aiuti e dell’appoggio politico inglesi – fu incaricato di scrivere un pamphlet per dare maggiore autorevolezza alla nuova linea: pur sapendo benissimo che il capo iugoslavo non era affatto un traditore, non esitò a denunciarlo come tale.

Circa un anno dopo Peter Fryer, giovane inviato del quotidiano comunista “Daily Worker”, era a Budapest per seguire il processo Rajk, assieme a Pierre Courtade de “l’Humanité” e Ottavio Pastore de “l’Unità”: nessuno dei tre ebbe alcun dubbio sulla colpevolezza degli imputati, o perlomeno non ne trasparivano dai resoconti.

Il processo e la condanna delle “spie” e “traditori” ebbero delle conseguenze anche sui partiti comunisti occidentali. In Italia Rákosi chiese al pci di “degradare” quei dirigenti che avevano avuto contatti con Rajk in Spagna, in particolare Luigi Longo e Giuliano Pajetta. In Gran Bretagna il direttore del “Daily Worker” J.R. Campbell negò recisamente di fronte ai rappresentanti rakosiani della Legazione ungherese a Londra che Edith Bone avesse alcun legame con l’organo del Cpgb, in tal modo contribuendo all’arresto della sventurata6. In Francia, la lunga e dettagliata denuncia delle mostruose falsità del processo Rajk coraggiosamente scritta da François Fejto, che era stato compagno di studi dell’imputato, non impedì al pcf di effettuare, nel corso del proprio XII congresso svoltosi nell’aprile 1950 a Gennevilliers, una vera e propria epurazione, durante la quale ben 27 ex combattenti della Resistenza – molti dei quali anche veterani di Spagna – non furono rieletti nel Comitato centrale: tra essi figuravano Julien Airoldi, Georges Beyer, Jean Chaintron, Jean Chaumeil, Robert Ballanger, Auguste Havez, Daniel Renoult, Alain Signor, François Vittori. Nel frattempo, alcuni intellettuali abbandonavano il partito, spesso dopo essersi accertati sul posto – ossia in Iugoslavia – dell’infondatezza delle accuse: tra questi, il filosofo Jean Duvignaud e la scrittrice Clara Malraux. Edgar Morin, all’epoca giovane e promettente intellettuale, non rinnovò la tessera nel 1950 e fu espulso l’anno successivo.

Ma il vero culmine dell’offensiva anti-titoista nei partiti occidentali fu raggiunto con i casi Guingouin e Marty- Tillon in Francia, e quello cosiddetto dei “Magnacucchi” in Italia. Georges Guingouin era un insegnante comunista di Limoges, città di cui guidò la liberazione dal nazismo nel 1944 e di cui fu sindaco nel biennio 1945-47, dopo aver partecipato alla Resistenza con posizioni spesso in contrasto con quelle ufficiali del partito: soprannominato “le Tito du Limousin”, nel 1952 fu escluso dal partito e financo dalle associazioni partigiane. Una sorte analoga toccò a due dirigenti di più elevato prestigio: André Marty (1886-1956) era il numero 3 della gerarchia del Pcf dopo Thorez (trattenuto in urss per due anni e mezzo, dalla fine del 1950 all’aprile del 1953, ufficialmente per ristabilirsi dall’emiplegia che lo aveva colpito) e Duclos, mentre Charles Tillon occupava la sesta posizione. Entrambi erano membri dell’Ufficio politico, dal 1936 e dal 1945 rispettivamente: ed entrambi avevano partecipato agli ammutinamenti degli equipaggi sulle navi da guerra francesi nel periodo successivo alla prima guerra mondiale. Negli anni trenta, Marty era stato rappresentante del Comintern in Spagna per quasi tutto il periodo della guerra civile, e aveva anche assicurato il collegamento tra il Pcf e i comunisti iugoslavi: quest’ultimo sarebbe risultato in assoluto l’unico capo d’imputazione tale, se non da giustificare, perlomeno da rendere comprensibili le accuse di “titoismo”. Tillon da parte sua aveva avuto un ruolo di primissimo piano nella Resistenza, della cui componente comunista era stato uno dei principali e più prestigiosi dirigenti.

Le accuse verso i due si potevano riassumere in tre punti: “analisi errata” della seconda guerra mondiale, in particolare del ruolo dell’Urss e del Pcf (ivi compreso quello del segretario generale Thorez, che com’è noto dopo aver disertato nel 1940 era rimasto in Urss fino alla fine del 1944); “sabotaggio” all’interno del Movimento dei partigiani della pace, in particolare sottovalutazione dell’“ imperialismo americano” ed eccessive aperture alle forze non comuniste; infine, “iniziative frazioniste” non meglio identificate. La reazione dei due accusati fu diversa: Marty, più anziano e più alto in grado, rifiutò di compiere autocritiche, il che comportò ulteriori accanimenti come l’espulsione, il furto del suo archivio e le insinuazioni di essere un informatore della polizia; Tillon invece accettò il rituale e venne “riabilitato” nel 1957.

È interessante notare che, mentre in Francia la “purga” anti-titoista prescindeva quasi del tutto dai contatti con la Iugoslavia e si concentrava sulle presunte “deviazioni”, in Italia essa colpì due dirigenti che, con piena cognizione di causa, avevano effettivamente avanzato dubbi sull’opportunità di ritrarre il regime iugoslavo nel modo in cui lo facevano i partiti del Cominform.

Valdo Magnani (1916-1982) aveva combattuto come ufficiale dell’esercito italiano in Iugoslavia e, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si era unito ai partigiani comunisti e aveva combattuto contro i tedeschi. Rientrato in Italia nel 1945, aveva aderito al Pci e assunto rapidamente posizioni dirigenti: inoltre, grazie anche a un legame affettivo personale e alla sua conoscenza dello sloveno e del serbo-croato, aveva mantenuto contatti costanti con la Iugoslavia, anche dopo il 28 giugno 1948. Divenuto segretario della federazione di Reggio Emilia, dopo aver presentato la relazione introduttiva al congresso nel gennaio 1951 dichiarò di fronte alla platea esterrefatta il suo dissenso verso la convinzione, ampiamente diffusa nel Pci, che “la rivoluzione potesse vincere solo sulle baionette di un esercito che oltrepassi le nostre frontiere”.
Il deputato bolognese Aldo Cucchi, medaglia d’oro della Resistenza, pur non potendo vantare neanche lontanamente la conoscenza della Iugoslavia che aveva Magnani, di cui era amico oltre che compagno di partito, gli espresse immediatamente solidarietà. Nei confronti dei due si scatenò immediatamente un fuoco di fila: Togliatti li trattò da “pidocchi “, furono bollati come traditori, espulsi – le loro dimissioni non potevano essere accettate – sottoposti a controlli di tipo poliziesco da varie organizzazioni della sinistra, e così via. Anche il Psi, con alcune eccezioni, assunse atteggiamenti simili: il dirigente R. Morandi, il più vicino ai comunisti, li definì “bave titine”, mentre il quotidiano del partito “Avanti!” neanche pubblicò la notizia della loro rottura. Pagarono un prezzo anche nella vita familiare. Il padre e il suocero di Magnani erano entrambi socialisti: il primo, vittima di angherie di vario genere da parte dei propri compagni, supplicò il figlio di “non attaccare la politica della Russia”, il secondo gli tolse semplicemente il saluto per un periodo di vari anni.

Amareggiati, ma non scoraggiati, i due dissidenti – cui si erano uniti diversi simpatizzanti dall’interno e dall’esterno del Pci – diedero vita a un raggruppamento politico, l’Unione socialista indipendente, che fu sostenuta politicamente e finanziariamente da Belgrado16 e che partecipò con esiti discreti alle elezioni politiche del 1953. Due anni dopo, successivamente al viaggio di Chruscëv in Iugoslavia, i tempi sembravano maturi per un ritorno nel Pci: ma la rivoluzione ungherese e la posizione di condanna assunta da Togliatti, inaccettabile a Magnani, lo convinsero a confluire nel Psi nel frattempo spostatosi su posizioni autonome dai comunisti e critiche verso l’Urss, mentre Cucchi aderiva al Psdi di Saragat. Infine, nel 1962 Magnani rientrò nel Pci senza rinnegare nulla, nonostante alcune opinioni contrarie.

Nella primavera del 1953, i primi segnali di destalinizzazione furono accolti con preoccupazione, e quando il 17 giugno gli operai e gli studenti di Berlino Est insorsero contro la tirannia dei burocrati, scrivendo uno degli episodi più belli della storia tedesca del XX secolo, i comunisti occidentali non si smentirono, tacciandoli di “rigurgito nazista” e plaudendo istericamente all’intervento dei panzer sovietici: era la prova generale di quanto sarebbe accaduto a Budapest tre anni dopo.

È interessante, in conclusione, osservare la sorte dei principali dirigenti dei partiti fondatori del Cominform in relazione allo scioglimento di quest’ultimo nell’aprile del 1956. Tre di essi – il romeno Georghiu-Dej, Thorez e Togliatti – gli sopravvissero (sia politicamente che fisicamente) per nove e otto anni rispettivamente, l’ungherese Rákosi, destituito nel luglio 1956, per tre mesi; invece Stalin, Gottwald (morti nel 1953), il bulgaro Cervenkov destituito nel 1954 e il polacco Bierut morto nel marzo 1956 non gli sopravvissero. Non c’è da stupirsi, dunque, se la destalinizzazione – e con essa la normalizzazione dei rapporti con la Iugoslavia e soprattutto la riabilitazione delle vittime dei processi – procedesse con maggiore speditezza nelle capitali dell’Europa centro-orientale (a eccezione di Bucarest), che non a Parigi o a Roma, al di là della quasi unanimità verificatasi nel novembre del 1956 al momento dell’intervento sovietico in Ungheria. I nuovi dirigenti, infatti, a prescindere dalle responsabilità ricoperte nel periodo staliniano, erano assai più inclini all’apertura di quanto non lo fossero i loro predecessori, per i quali l’attacco a Stalin era anche rivolto a loro stessi: prova ne sia il fatto che la crisi del sistema comunista aperta con il XX congresso del Pcus si sarebbe conclusa soltanto nell’ottobre del 1964, con la destituzione del “colpevole”. Questo, al di là dei meriti o demeriti di Chruscëv (e col senno di poi), avrebbe sicuramente posto fine alle speranze di riforma del sistema.


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