Il brano
che segue è l’introduzione del libro “Ungheria
1956. La rivoluzione calunniata”, uscito per la
prima volta nella collana I libri di Reset nel 1998
e riproposta nel 2006 per il cinquantenario della rivoluzione
di Budapest in versione ampiamente riveduta e aggiornata.
Nella primavera del 1945, il comunismo in Europa occidentale
cominciò a vivere il suo momento di gloria. Ciò
è particolarmente vero per tre paesi: la Francia,
la Gran Bretagna e l’Italia, in misura minore
per altri come i paesi scandinavi, Finlandia, Austria,
Belgio e Olanda. Oggi, a oltre sessant’anni di
distanza, è possibile comprendere pienamente
i motivi di un simile fenomeno. Il contributo dei comunisti
alla Resistenza, soprattutto in Francia e in Italia,
ebbe di certo un ruolo importante, ma non è sufficiente
a spiegare tutto.
Da un lato, una visione parziale e mitologica della
battaglia di Stalingrado portò milioni di persone
a guardare all’Urss come al paese che aveva salvato
la civiltà e a Stalin stesso come al suo eroico
e sagace condottiero. Dall’altro, la dislocazione
geopolitica di quasi tutti i paesi citati permetteva
di evitare un contatto diretto con la brutalità
quotidiana della presenza militare sovietica, in tal
modo non solo alimentando ulteriormente quelle visioni
parziali e mitologiche, ma accrescendole e consolidandole
fino a far loro perdere quasi del tutto il legame con
la realtà.
Nei tre paesi considerati, naturalmente, i partiti
comunisti avevano dimensioni e forza diverse, così
come diversa era la situazione politica. In Francia,
alle prime elezioni parlamentari della Quarta repubblica
svoltesi nel novembre 1946, il Pcf ottenne il 28,8%
dei voti, diventando il primo partito del paese, con
una forza organizzata di circa 900.000 iscritti. In
Italia, nel giugno dello stesso anno, il Pci aveva sfiorato
il 20% alle elezioni per la Costituente e vantava quasi
due milioni di militanti. In Gran Bretagna, nelle famose
elezioni del luglio 1945 che sancirono la sconfitta
di Churchill, il Cpgb era riuscito a far eleggere due
deputati alla Camera dei Comuni, evento ineguagliato
nella storia (naturalmente, non bisogna dimenticare
la differenza esistente nei sistemi elettorali), e poteva
contare su circa 50.000 tesserati e altrettanti simpatizzanti:
inoltre, una dozzina di deputati del Labour Party erano
considerati “cryptos”, ossia comunisti iscritti
al partito di Attlee.
Per tutto il periodo compreso tra la vittoria sul nazismo
e il colpo di Stato del 25 febbraio 1948 in Cecoslovacchia,
questi partiti vissero il loro periodo d’oro:
governi di ampia unità nazionale (a maggioranza
laburista in Gran Bretagna), ricostruzione del paese,
entusiasmo, passione, dibattiti interminabili sull’arte,
la cultura, la filosofia progressiste, la sensazione
di costruire una società nuova. Tali sensazioni
erano simili per certi aspetti a quelle vissute nella
stessa Cecoslovacchia e in Ungheria, sebbene in questi
due paesi si avvertissero già segnali minacciosi.
Esempio fra i tanti, l’arresto di Béla
Kovács, segretario del partito di maggioranza
assoluta nel Parlamento ungherese (25 febbraio 1947)
e l’ordine impartito da Stalin a Praga di respingere
il piano Marshall, quando quest’ultimo era già
stato approvato dall’ancor libero Parlamento cecoslovacco
(luglio 1947).
Nella prima metà del 1948, mentre nell’Europa
sovietizzata scompariva ogni residua parvenza di democrazia
e di libertà, nei partiti comunisti occidentali
si poneva fine ai dibattiti e si serravano i ranghi:
l’intero movimento comunista adottava i principi
di politica culturale enunciati da danov e combatteva,
per decreto di Stalin, la batta glia contro l’eresia
iugoslava. In Gran Bretagna James Klugmann – che
durante la guerra aveva operato nei Balcani per fare
di Tito e dei suoi i destinatari degli aiuti e dell’appoggio
politico inglesi – fu incaricato di scrivere un
pamphlet per dare maggiore autorevolezza alla
nuova linea: pur sapendo benissimo che il capo iugoslavo
non era affatto un traditore, non esitò a denunciarlo
come tale.
Circa un anno dopo Peter Fryer, giovane inviato del
quotidiano comunista “Daily Worker”, era
a Budapest per seguire il processo Rajk, assieme a Pierre
Courtade de “l’Humanité” e
Ottavio Pastore de “l’Unità”:
nessuno dei tre ebbe alcun dubbio sulla colpevolezza
degli imputati, o perlomeno non ne trasparivano dai
resoconti.
Il processo e la condanna delle “spie”
e “traditori” ebbero delle conseguenze anche
sui partiti comunisti occidentali. In Italia Rákosi
chiese al pci di “degradare” quei dirigenti
che avevano avuto contatti con Rajk in Spagna, in particolare
Luigi Longo e Giuliano Pajetta. In Gran Bretagna il
direttore del “Daily Worker” J.R. Campbell
negò recisamente di fronte ai rappresentanti
rakosiani della Legazione ungherese a Londra che Edith
Bone avesse alcun legame con l’organo del Cpgb,
in tal modo contribuendo all’arresto della sventurata6.
In Francia, la lunga e dettagliata denuncia delle mostruose
falsità del processo Rajk coraggiosamente scritta
da François Fejto, che era stato compagno di
studi dell’imputato, non impedì al pcf
di effettuare, nel corso del proprio XII congresso svoltosi
nell’aprile 1950 a Gennevilliers, una vera e propria
epurazione, durante la quale ben 27 ex combattenti della
Resistenza – molti dei quali anche veterani di
Spagna – non furono rieletti nel Comitato centrale:
tra essi figuravano Julien Airoldi, Georges Beyer, Jean
Chaintron, Jean Chaumeil, Robert Ballanger, Auguste
Havez, Daniel Renoult, Alain Signor, François
Vittori. Nel frattempo, alcuni intellettuali abbandonavano
il partito, spesso dopo essersi accertati sul posto
– ossia in Iugoslavia – dell’infondatezza
delle accuse: tra questi, il filosofo Jean Duvignaud
e la scrittrice Clara Malraux. Edgar Morin, all’epoca
giovane e promettente intellettuale, non rinnovò
la tessera nel 1950 e fu espulso l’anno successivo.
Ma il vero culmine dell’offensiva anti-titoista
nei partiti occidentali fu raggiunto con i casi Guingouin
e Marty- Tillon in Francia, e quello cosiddetto dei
“Magnacucchi” in Italia. Georges Guingouin
era un insegnante comunista di Limoges, città
di cui guidò la liberazione dal nazismo nel 1944
e di cui fu sindaco nel biennio 1945-47, dopo aver partecipato
alla Resistenza con posizioni spesso in contrasto con
quelle ufficiali del partito: soprannominato “le
Tito du Limousin”, nel 1952 fu escluso dal partito
e financo dalle associazioni partigiane. Una sorte analoga
toccò a due dirigenti di più elevato prestigio:
André Marty (1886-1956) era il numero 3 della
gerarchia del Pcf dopo Thorez (trattenuto in urss per
due anni e mezzo, dalla fine del 1950 all’aprile
del 1953, ufficialmente per ristabilirsi dall’emiplegia
che lo aveva colpito) e Duclos, mentre Charles Tillon
occupava la sesta posizione. Entrambi erano membri dell’Ufficio
politico, dal 1936 e dal 1945 rispettivamente: ed entrambi
avevano partecipato agli ammutinamenti degli equipaggi
sulle navi da guerra francesi nel periodo successivo
alla prima guerra mondiale. Negli anni trenta, Marty
era stato rappresentante del Comintern in Spagna per
quasi tutto il periodo della guerra civile, e aveva
anche assicurato il collegamento tra il Pcf e i comunisti
iugoslavi: quest’ultimo sarebbe risultato in assoluto
l’unico capo d’imputazione tale, se non
da giustificare, perlomeno da rendere comprensibili
le accuse di “titoismo”. Tillon da parte
sua aveva avuto un ruolo di primissimo piano nella Resistenza,
della cui componente comunista era stato uno dei principali
e più prestigiosi dirigenti.
Le accuse verso i due si potevano riassumere in tre
punti: “analisi errata” della seconda guerra
mondiale, in particolare del ruolo dell’Urss e
del Pcf (ivi compreso quello del segretario generale
Thorez, che com’è noto dopo aver disertato
nel 1940 era rimasto in Urss fino alla fine del 1944);
“sabotaggio” all’interno del Movimento
dei partigiani della pace, in particolare sottovalutazione
dell’“ imperialismo americano” ed
eccessive aperture alle forze non comuniste; infine,
“iniziative frazioniste” non meglio identificate.
La reazione dei due accusati fu diversa: Marty, più
anziano e più alto in grado, rifiutò di
compiere autocritiche, il che comportò ulteriori
accanimenti come l’espulsione, il furto del suo
archivio e le insinuazioni di essere un informatore
della polizia; Tillon invece accettò il rituale
e venne “riabilitato” nel 1957.
È interessante notare che, mentre in Francia
la “purga” anti-titoista prescindeva quasi
del tutto dai contatti con la Iugoslavia e si concentrava
sulle presunte “deviazioni”, in Italia essa
colpì due dirigenti che, con piena cognizione
di causa, avevano effettivamente avanzato dubbi sull’opportunità
di ritrarre il regime iugoslavo nel modo in cui lo facevano
i partiti del Cominform.
Valdo Magnani (1916-1982) aveva combattuto come ufficiale
dell’esercito italiano in Iugoslavia e, dopo l’armistizio
dell’8 settembre 1943, si era unito ai partigiani
comunisti e aveva combattuto contro i tedeschi. Rientrato
in Italia nel 1945, aveva aderito al Pci e assunto rapidamente
posizioni dirigenti: inoltre, grazie anche a un legame
affettivo personale e alla sua conoscenza dello sloveno
e del serbo-croato, aveva mantenuto contatti costanti
con la Iugoslavia, anche dopo il 28 giugno 1948. Divenuto
segretario della federazione di Reggio Emilia, dopo
aver presentato la relazione introduttiva al congresso
nel gennaio 1951 dichiarò di fronte alla platea
esterrefatta il suo dissenso verso la convinzione, ampiamente
diffusa nel Pci, che “la rivoluzione potesse vincere
solo sulle baionette di un esercito che oltrepassi le
nostre frontiere”.
Il deputato bolognese Aldo Cucchi, medaglia d’oro
della Resistenza, pur non potendo vantare neanche lontanamente
la conoscenza della Iugoslavia che aveva Magnani, di
cui era amico oltre che compagno di partito, gli espresse
immediatamente solidarietà. Nei confronti dei
due si scatenò immediatamente un fuoco di fila:
Togliatti li trattò da “pidocchi “,
furono bollati come traditori, espulsi – le loro
dimissioni non potevano essere accettate – sottoposti
a controlli di tipo poliziesco da varie organizzazioni
della sinistra, e così via. Anche il Psi, con
alcune eccezioni, assunse atteggiamenti simili: il dirigente
R. Morandi, il più vicino ai comunisti, li definì
“bave titine”, mentre il quotidiano del
partito “Avanti!” neanche pubblicò
la notizia della loro rottura. Pagarono un prezzo anche
nella vita familiare. Il padre e il suocero di Magnani
erano entrambi socialisti: il primo, vittima di angherie
di vario genere da parte dei propri compagni, supplicò
il figlio di “non attaccare la politica della
Russia”, il secondo gli tolse semplicemente il
saluto per un periodo di vari anni.
Amareggiati, ma non scoraggiati, i due dissidenti –
cui si erano uniti diversi simpatizzanti dall’interno
e dall’esterno del Pci – diedero vita a
un raggruppamento politico, l’Unione socialista
indipendente, che fu sostenuta politicamente e finanziariamente
da Belgrado16 e che partecipò con esiti discreti
alle elezioni politiche del 1953. Due anni dopo, successivamente
al viaggio di Chruscëv in Iugoslavia, i tempi sembravano
maturi per un ritorno nel Pci: ma la rivoluzione ungherese
e la posizione di condanna assunta da Togliatti, inaccettabile
a Magnani, lo convinsero a confluire nel Psi nel frattempo
spostatosi su posizioni autonome dai comunisti e critiche
verso l’Urss, mentre Cucchi aderiva al Psdi di
Saragat. Infine, nel 1962 Magnani rientrò nel
Pci senza rinnegare nulla, nonostante alcune opinioni
contrarie.
Nella primavera del 1953, i primi segnali di destalinizzazione
furono accolti con preoccupazione, e quando il 17 giugno
gli operai e gli studenti di Berlino Est insorsero contro
la tirannia dei burocrati, scrivendo uno degli episodi
più belli della storia tedesca del XX secolo,
i comunisti occidentali non si smentirono, tacciandoli
di “rigurgito nazista” e plaudendo istericamente
all’intervento dei panzer sovietici:
era la prova generale di quanto sarebbe accaduto a Budapest
tre anni dopo.
È interessante, in conclusione, osservare la
sorte dei principali dirigenti dei partiti fondatori
del Cominform in relazione allo scioglimento di quest’ultimo
nell’aprile del 1956. Tre di essi – il romeno
Georghiu-Dej, Thorez e Togliatti – gli sopravvissero
(sia politicamente che fisicamente) per nove e otto
anni rispettivamente, l’ungherese Rákosi,
destituito nel luglio 1956, per tre mesi; invece Stalin,
Gottwald (morti nel 1953), il bulgaro Cervenkov destituito
nel 1954 e il polacco Bierut morto nel marzo 1956 non
gli sopravvissero. Non c’è da stupirsi,
dunque, se la destalinizzazione – e con essa la
normalizzazione dei rapporti con la Iugoslavia e soprattutto
la riabilitazione delle vittime dei processi –
procedesse con maggiore speditezza nelle capitali dell’Europa
centro-orientale (a eccezione di Bucarest), che non
a Parigi o a Roma, al di là della quasi unanimità
verificatasi nel novembre del 1956 al momento dell’intervento
sovietico in Ungheria. I nuovi dirigenti, infatti, a
prescindere dalle responsabilità ricoperte nel
periodo staliniano, erano assai più inclini all’apertura
di quanto non lo fossero i loro predecessori, per i
quali l’attacco a Stalin era anche rivolto a loro
stessi: prova ne sia il fatto che la crisi del sistema
comunista aperta con il XX congresso del Pcus si sarebbe
conclusa soltanto nell’ottobre del 1964, con la
destituzione del “colpevole”. Questo, al
di là dei meriti o demeriti di Chruscëv
(e col senno di poi), avrebbe sicuramente posto fine
alle speranze di riforma del sistema.
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