Dal sito Ulivo.it,
proponiamo la relazione del prof. Salvatore Vassallo
al seminario "Per il Partito Democratico"
svolto a Orvieto il 6 e 7 ottobre 2006.
Dal perché al come
Nel mio intervento sosterrò che ci sono tre linee
guida a cui occorre ancorare il disegno organizzativo
del Partito Democratico, nel solco di tre obiettivi
che hanno animato sin dal suo esordio l’Ulivo.
L’Ulivo è nato, in primo luogo, per cogliere
la sfida della competizione bipolare,
ed offrire un progetto e una guida sicura al Paese.
Il partito democratico
avrà dunque un senso se contribuirà, anche
con la sua forma organizzativa, a
dare compimento alla transizione verso una matura democrazia
governante. Se
riuscirà davvero ad essere il solido baricentro
di cui ha bisogno il centrosinistra.
E se da quella posizione sarà in grado di assumersi
chiare responsabilità nei
confronti dell’elettorato, se sarà capace
di parlare, con una sola lingua e con parole autorevoli,
tanto al suo elettorato tradizionale quanto all’elettorato
sfiduciato, disperso o di confine.
L’Ulivo è nato, in secondo luogo, con
l’ambizione di unire persone e gruppi
provenienti da storie culturali e politiche diverse.
Come è stato detto più volte,
è nato per lenire ed archiviare le ormai logore
divisioni ideologiche del novecento.
Il Partito democratico non potrà dunque che valorizzare
il pluralismo
culturale al suo interno e non potrà non riconoscere
il valore del pluralismo degli
interessi e delle organizzazioni che li rappresentano.
L’Ulivo è nato, infine, per richiamare
alla partecipazione politica quei tanti
cittadini italiani che da tempo non sono più
attratti, o si sentono addirittura respinti, dalle tradizionali
strutture di partito. La trasformazione del progetto
dell’Ulivo nel progetto del Partito democratico
ha d’altro canto una data precisa
nel calendario. Il 16 ottobre 2005. Il giorno in cui
tutti abbiamo scoperto con
grande stupore come l’assenza di partecipazione
e l’atrofia della democrazia nei
partiti non sia un male incurabile. Quel giorno, in
fila davanti ai gazebo dell’Unione, e il giorno
dopo esaminando i dati dell’affluenza alle primarie,
abbiamo scoperto che c’è tanta gente disposta
a riconoscersi in maniera aperta in un progetto politico
corale, c’è tanta gente interessata a far
pesare le proprie opinioni.
L’idea del partito democratico non sarebbe germogliata
se non ci fossimo
accorti che la società italiana ha ancora larghe
zone di terreno fertile per la
partecipazione politica. E possiamo essere certi che
il progetto del Partito democratico non metterà
radici se non continuerà a trarre linfa vitale
da un consenso simile, per ampiezza e intensità
del sentimento unitario, a quello registrato il 16 ottobre
del 2005. Per questo il Partito democratico deve avere,
nella sua forma organizzativa, porte aperte e canali
larghi per la partecipazione.
In breve, il disegno organizzativo dovrebbe rendere
massimi, nelle forme
oggi possibili, i valori della partecipazione, del pluralismo
e della capacità di
governo. È intorno a questi tre principi che
vorrei articolare dunque qualche riflessione e alcune
puntuali proposte. Inizierò dalla base, passando
dai «corpi
intermedi», per arrivare al tema cruciale della
selezione (e del ricambio) della
leadership.
Un partito aperto
La crisi dei partiti come canali della partecipazione
politica non è un problema
nato ieri e non è un problema solo italiano.
La ricerca empirica fornisce
robusti indicatori a questo riguardo. Dagli anni sessanta
in poi sono cresciuti in
maniera abbastanza lineare, e un po’ in tutti
i paesi democratici, i livelli di disaffezione dei cittadini
nei confronti dei partiti nel loro insieme, si è
andato erodendo il senso di identificazione degli elettori
verso uno specifico partito, il
numero di iscritti (dichiarati) è in costante
calo, così come è in calo la quota di
iscritti che effettivamente partecipano alle attività
di base. Il titolo emblematico
di un volume pubblicato nel 2000 da Oxford University
Press che fa il punto su
queste tendenze è un lapidario Parties without
partisans, «partiti senza militan
ti». D’altro canto, secondo una analisi
largamente condivisa tra i ricercatori,
l’indebolimento della base associativa è
stato compensato, negli ultimi
vent’anni, da un cospicuo ampliamento delle risorse
e delle strutture poste a
diretto servizio del personale politico all’interno
delle istituzioni di governo,
oltre che da una cospicua crescita dei finanziamenti
pubblici messi a disposizione
delle organizzazioni extra-istituzionali di partito.
L’indebolimento dei legami
con l’elettorato e l’assottigliamento della
base dei militanti non hanno
quindi diminuito l’influenza dei partiti sulle
decisioni pubbliche e sono stati anzi
accompagnati da una crescita delle risorse finanziarie
e delle strutture di staff
a disposizione dei leader. In questo modo è venuta
ulteriormente meno
l’esigenza, per la dirigenza di partito, di mantenere
saldi legami con la base da
cui un tempo si traevano risorse finanziarie e disponibilità
di lavoro volontario.
Cosicché, sempre secondo questa tesi, enunciata
da Richard Katz e Peter Mair, i partiti si sono generalmente
trasformati da associazioni di cittadini in società
di
professionisti, con quel che ne consegue per il ricambio,
sempre meno fluido,
della classe dirigente.
Della scarsa vivacità della partecipazione all’interno
dei partiti abbiamo del
resto alcuni indizi anche in casa nostra. Ad esempio,
in base ai dati
dell’indagine post-elettorale Itanes (Italian
National Election Studies) del 2006,
solo il 6% degli intervistati identificabili come elettori
dell’Ulivo dice di essere
iscritto ad un partito. Si tratta di una percentuale
che è quasi di un punto inferiore a quella che
avremmo dovuto rilevare sulla base dei dati ufficiali
sulle iscrizioni.
Tra quel 6% di intervistati che dichiara d’essere
iscritto, inoltre, più
della metà (il 54,5%) afferma di non avere mai
partecipato, nei dodici mesi precedenti all’intervista,
ad una qualche attività politica promossa dal
suo partito.
Come dire che, nonostante i possibili problemi di autoselezione
del campione (i
più interessati alla politica si fanno intervistare
più facilmente e quindi avremmo
dovuto trovare nel campione più iscritti di quanti
non ce ne siano tra il complesso degli elettori), meno
del 3% degli elettori dell’Ulivo ha detto di aver
frequentato almeno una volta nel corso dell’anno
precedente all’intervista una
qualche attività di partito. E meno di un elettore
dell’Ulivo su 100 ha detto di
averlo fatto «spesso», essendo dunque riconducibile
alla categoria del «militante».
All’interno del medesimo campione, ben il 36%
degli intervistati identificabili
come elettori dell’Ulivo ha invece detto di aver
partecipato alle primarie del
16 ottobre 2005. Un ulteriore 10% ha detto che sarebbe
andato a votare volentieri, ma che non gli fu possibile
per cause di forza maggiore. In realtà la quota
effettiva di elettori dell’Ulivo che andarono
a votare alle primarie fu tra il 22 e il 25%. Il fatto
che l’inchiesta abbia rilevato una percentuale
ancora più elevata dipende in parte dai problemi
già citati di autoselezione del campione, ma
in parte rivela come, anche ad un anno di distanza dall’evento,
e dopo elezioni vinte per un pelo, si sia sedimentato
un atteggiamento molto positivo nei confronti di quel
tipo di consultazione. Tanto che alcuni elettori dell’Ulivo
dicono o si sono convinti di aver partecipato alle primarie
anche se non l’hanno fatto.
Mentre sembrerebbe, al contrario, che alcuni «iscritti»
non ricordino, o preferiscano non dire, o forse non
sappiano di essere tali.
Si intende che questo quadro non tiene conto delle
differenze tra aree geografiche e quindi fa torto a
contesti locali nei quali la partecipazione nei partiti
è ancora ricca e vivace. Va pure detto che le
basi associative degli attuali partiti
italiani non hanno molto da invidiare per numero di
iscritti e intensità della
partecipazione ai partiti di altri paesi europei. Non
si tratta, ovviamente, di sostituire, gli iscritti di
oggi con il «popolo delle primarie». Negli
iscritti di oggi ci
sono tante persone con un intenso grado di motivazione
e una generosa disponibilità a impegnarsi per
cause politiche. Sono un patrimonio che non va disperso
ma va anzi se possibile reimpiantato nel nuovo soggetto.
E va anche detto che non sarà facile replicare
un evento come quello dell’ottobre 2005, le cui
dimensioni sono giustificate anche da fattori congiunturali:
l’aspettativa di un ricambio alla guida del governo,
la sequenza delle leggi vergogna …. Ma è
ugualmente evidente che nello iato tra una partecipazione
dell’1 e del 25%, ci sono ampi spazi per migliorare
la qualità della democrazia nei partiti.
Le primarie ci insegnano che la partecipazione politica
può essere considerata
attraente da una fascia larga ed eterogenea di persone
se non implica una
«appartenenza» troppo impegnativa (totalizzante)
e se ha, nella percezione di
chi partecipa, una efficacia immeditata, riconoscibile,
rilevante. È difficile attendersi che, oggi,
le persone non attratte dalla «politica come professione»
tornino a frequentare in quote significative e in maniera
continuativa le sedi di partito.
È invece realistico attendersi che molte persone
siano disposte ad andare di tanto in tanto davanti ai
gazebo del Partito democratico o dell’Unione se
invitate a dire la loro in maniera puntuale e influente,
scegliendo i leader o i candidati alle
principali cariche di governo, esprimendo attraverso
referendum di indirizzo la
propria opinione. Questi sono forse gli unici modi attraverso
cui, oggi, i partiti
possono tornare ad essere un po’ meno società
di professionisti e un po’ più associazioni
di cittadini.
Se vuole essere veramente aperto, il partito democratico
deve quindi prevedere
una forma di adesione individuale il più possibile
agevole, semplice,
immediata: user friendly, come si dice nel lessico informatico.
Una adesione che
naturalmente non esclude (ed anzi magari preludere ad)
una militanza più intensa
e stabile, essendo chiaro che ci saranno intensità
differenziate di partecipazione
e di esercizio dei diritti connessi all’adesione.
Occorre insomma rendere
amichevole l'accesso alla vita del partito e aiutare
così il costante rinnovamento
della sua base associativa.
L’adesione, per intendersi, potrebbe avvenire
anche via internet o in occasione
di un qualsiasi momento elettivo interno. L’adesione
individuale dovrebbe
consistere sostanzialmente nell’autorizzazione
ad inserire il proprio nome
nell’Albo dei sostenitori del Partito, nella sottoscrizione
di un manifesto programmatico e di uno statuto, nel
versamento di una quota annuale ragionevolmente contenuta.
L’adesione dovrebbe essere inoltre tutelata da
un rigoroso statuto sulla trasparenza e la regolarità
delle procedure della democrazia interna, e possibilmente
anche da una legge che, interpretandolo evolutivamente,
dia attuazione, in una forma essenziale ma incisiva,
all’articolo 49 della Costituzione.
Sarebbe una doverosa contropartita al finanziamento
pubblico, ed anche un
modo per restituire a questo istituto una legittimità
oggi gravemente compromessa agli occhi dell’opinione
pubblica.
È cruciale, in ogni caso, che l’adesione
implichi un diritto a partecipare in
maniera diretta alle principali scelte riguardanti l’indirizzo
politico e la selezione
dei dirigenti. Anche nel senso che dovrebbe essere radicalmente
esclusa, a mio
avviso, qualsiasi forma di voto per delega, e che dovrebbero
essere ridotti i casi
in cui gli organi si formano sulla base di elezioni
di secondo o di terzo grado.
Poste queste premesse, sarebbe meno drammatica la scelta
dell’unità organizzativa di base, un aspetto
su cui ad esempio i Ds e i Dl hanno un modello diverso
e apparentemente non conciliabile, basato rispettivamente
sulle sezioni
territoriali e sui circoli. Questi due modelli hanno
pro e contro. Il primo incentiva
la mescolanza tra orientamenti politici diversi, il
secondo amplia la platea
degli aderenti grazie a reti di relazioni personali
ed informali. Se tuttavia si assume che l’adesione
deve essere individuale e la partecipazione il più
possibile
diretta, se si esclude il voto per delega e si riducono
i casi in cui gli organismi
dirigenti sono formati sulla base di elezioni di secondo
ordine (in cui i «segretari
di sezione», ad esempio, votano per conto dei
«loro» iscritti), il modello della
sezione e del circolo possono tranquillamente convivere.
La sezione potrebbe
costituire utilmente il minimo comune denominatore.
Sarebbe, come minimo, il
luogo fisico in cui, secondo la regola aurea «una
testa, un voto», si forma la rappresentanza.
Ciò detto, è altamente auspicabile che
sia anche molto di più: la sede in cui si progettano
attività di impegno civico volontario, un luogo
di dibattito culturale, di auto-formazione, di confronto
con gli amministratori locali, di elaborazione di proposte
e trasmissione delle domande che emergono sul territorio.
Ma in uno spirito volontario, appunto, che non ha la
pretesa di rappresentare in forma esclusiva ed ufficiale
la posizione del partito in quella porzione del territorio,
ed in un contesto in cui dovrebbe esserci invece la
massima libertà
di creare qualsiasi tipo di network, circolo, associazione
tematica.
Il Partito democratico non dovrà essere insomma
solo un «contenitore» o
una «procedura» per la selezione dei leader.
Se vuole davvero rappresentare
una larga parte della società italiana dovrà
essere una sede dentro la quale chi
ha senso civico e una «vocazione» per la
politica possa liberamente incontrarsi,
discutere e agire. Rendere l’adesione più
agevole, l’accesso al partito più amichevole,
le forme associative meno rigide, e le opinioni individuali
di ciascun
aderente più pesanti, non serve del resto a ridurre
la partecipazione, ma esattamente al contrario: ad ampliare
il numero di persone che aderiscono al partito per una
sincera passione civica.
Un partito culturalmente plurale
E vengo quindi al secondo principio: il pluralismo.
L’Ulivo è nato con l’ambizione di
unire persone e gruppi provenienti da storie culturali
e politiche diverse. Non c’è dubbio dunque
che il Partito democratico debba riconoscere l’importanza
del pluralismo culturale al suo interno. È però
cruciale essere chiari sul significato che si attribuisce
al pluralismo e alle sue implicazioni organizzative.
Si può concepire l’Ulivo, il Partito democratico,
secondo la logica anni settanta dell’«incontro
tra culture», o meglio tra subculture, e cioè
tra comunità di interessi e valori, tenute insieme
da schemi mentali e reti di relazione, da organizzazioni
sociali e autorità morali di riferimento, «culture»
destinate, anche dopo «l’incontro»,
a rimanere saldamente unite al loro interno e reciprocamente
separate. Oppure si può concepire l’Ulivo
come la sede di una nuova possibile sintesi politica
per una società che ha in larga misura superato
quelle appartenenze, ed ha in ogni caso superato la
visione secondo cui la politica debba essere un riflesso
di divisioni di quel genere.
A questo riguardo, a me pare che la realtà della
società italiana dia ragione a chi propone di
assumere decisamente la seconda prospettiva.
Se le culture in questione avessero ancora lo stesso
spessore e il medesimo radicamento che avevano trent’anni
fa, l’incontro sarebbe semplicemente impossibile,
se non inutile. Se oggi possiamo pensare al Partito
democratico come ad un partito nuovo, che archivia le
fratture del secolo scorso, è perché quelle
fratture nella società italiana si sono molto
attenuate o sono scomparse da un bel pezzo, lasciando
semmai il posto, nell’arena politica, ad un altro
genere di divisioni (ad esempio quello tra le partite
iva e il reddito fisso, tra chi considera gli immigrati
persone, fino a prova contraria, degne di rispetto,
e chi nutre nei loro confronti pregiudizi atavici).
Se oggi discutiamo del Partito democratico lo facciamo
perché milioni di elettori non hanno avuto difficoltà
ad identificarsi con un simbolo, l’Ulivo, che
già evoca nella loro percezione una nuova sintesi
di valori, un nuovo progetto politico. Ed anzi, in molti
casi hanno preferito identificarsi direttamente con
la sintesi piuttosto che con i suoi affluenti.
D’altro canto sarebbe ingenuo ignorare che il
riferimento a quelle culture, sempre più debole
tra gli elettori, sia, per ragioni del tutto comprensibili,
molto più forte tra chi ha una lunga e intensa
biografia professionale nel campo politico.
Il riferimento alle «culture politiche del secolo
scorso» è più forte tra chi,
nell’evocazione di quelle culture, ha intessuto
reti di relazione, legami di fiducia, di amicizia, di
solidarietà politica, ha avuto scontri e accumulato
umanissime idiosincrasie.
E tuttavia sarebbe riduttivo concepire il partito democratico
come l’incontro
tardivo tra cattolici-democratici e social-democratici.
Non è sugli affluenti ma sulla sintesi, possibilmente
inclusiva di un campo di forze molto più largo,
che il nuovo partito dovrebbe porre l’accento.
Il Partito democratico ha senso se ambisce a raggiungere
il 40% degli elettori italiani. Mentre ciascuno può
intendere che con la somma di quei due affluenti si
sta abbondantemente sotto il 30.
Ho l’impressione dunque che se si vuole costruire
un partito vero e solido, occorre evitare che le vecchie
appartenenze si fossilizzino, come avverrebbe se si
adottassero regole statutarie improntate ai principi
dell’adesione collettiva, del patto federativo,
delle quote riservate e della rappresentanza proporzionale.
Non è su questo terreno che il «pluralismo
interno» dovrebbe dare i suoi frutti.
C’è invece un grande bisogno, in tutti
i partiti italiani di oggi, di rimettere in moto un
vivace dibattito culturale, di darsi strumenti e sedi
attraverso cui generare nuove idee, elaborare programmi
di politica pubblica, dove riflettere sulle tematiche
eticamente sensibili e cercare posizioni equilibrate
ed unitarie prima ancora di farne oggetto di conflitti
esasperati o affrettate proposte di legge.
A questo riguardo, sul piano organizzativo, si può
seguire il modello centro-europeo (tedesco e olandese)
delle Fondazioni di partito, generosamente sostenute
con finanziamenti pubblici continuativi, oppure inclinare
verso il modello anglosassone, che affida il compito
di generare nuove idee ad una pluralità di think
tank più o meno indipendenti, ancorché
politicamente connotate. Le prime sono strutture permanenti,
ufficiali, che in quanto tali corrono il rischio della
burocratizzazione; le seconde operano su commissione
e in alcuni casi (non sempre) nascono e muoiono con
i cicli della politica.
Ora, a mio avviso, alla fase nascente del Partito democratico
e al suo pluralismo interno, si addice più il
secondo modello del primo. Quello attuale è il
momento propizio per dare vita non ad una soltanto ma
a quattro o cinque istituzioni di ricerca e formazione
politica, che possibilmente non ricalchino pari pari
le vecchie appartenenze, nessuna delle quali possa avanzare
la pretesa d’essere esclusiva o di avere il dono
della sintesi, ne tanto meno di trasmettere una qualche
dottrina ufficiale. Si può trattare di agenzie
specializzate per settori di policy, che cooperano tra
loro. Ma potrebbe anche trattarsi di think tank che
si esercitano a mettere a fuoco visioni alternative
tra cui la politica dovrà scegliere.
È su questo terreno che il pluralismo culturale,
nella misura in cui si traduce in visioni e progetti
di politica pubblica, può e dovrebbe trovare
la più proficua declinazione. Il che, ovviamente,
non toglie che vi dovrà essere spazio anche per
un ragionevole pluralismo di posizioni politiche.
Il carattere plurale del partito ha poi due ulteriori
implicazioni. In primo luogo, il Partito democratico
non potrà che considerare un valore il pluralismo
delle organizzazioni economiche e sociali. Dovrà
coltivare rapporti amichevoli con una pluralità
di soggetti, e con alcuni anche forme strutturate di
consultazione periodica, ma da una chiara posizione
di reciproca indipendenza. In secondo luogo, mentre
non può essere concepito come una confederazione
di correnti, dovrebbe avere una struttura federale.
In realtà sappiamo che, anche nei partiti europei
in cui l’autonomia statutaria delle unità
regionali è molto ampia le strutture organizzative
tendono alla fine ad assomigliarsi. Proprio per questo,
non c’è ragione per pretendere una perfetta
uniformità in partenza. Fatti salvi i principi
della partecipazione di cui ho già detto, e i
meccanismi di formazione degli organi nazionali di cui
dirò più avanti, il Partito democratico
dovrebbe riconoscere a ciascuna articolazione regionale
una piena autonomia nella scelta dei modelli organizzativi.
Un partito per la democrazia governante
Infine, l’ultima decisiva sfida. Il partito democratico
serve a dare compimento alla transizione verso un matura
democrazia governante, serve a dare al centrosinistra
il solido baricentro di cui ha bisogno per mettere in
pratica una impegnativa agenda di riforme. Il pluralismo
interno deve essere quindi ricondotto ad una chiara
sintesi, un momento prima di presentarsi di fronte agli
elettori e nel momento in cui si esercitano responsabilità
di governo.
Non ci sono singoli casi storici di altri partiti che
possano fare precisamente da modello. Ma si intende
che i casi «comparabili» con l’oggetto
di cui stiamo parlando sono i partiti a vocazione maggioritaria
delle grandi democrazie europee.
Quanto alla forma organizzativa, possiamo imparare qualcosa
da ciascuno dei partiti, sia di sinistra sia di destra,
che nelle grandi democrazie europee a forma di governo
parlamentare (Spagna, Germania, Gran Bretagna) si candidano
a dare al Paese una guida solida e un governo di legislatura.
La Francia da questo punto di vista non è un
buon modello, per via della storica debolezza delle
organizzazioni di partito, così come delle regole
istituzionali della V Repubblica che hanno accentuato
quella debolezza, incentivando in maniera estrema la
personalizzazione6. Ma se guardiamo ai maggiori partiti
spagnoli, britannici o tedeschi, capiamo subito qual
è la direzione da prendere e quali sono le eredità
del passato che dobbiamo superare. Per dirla senza troppi
giri di parole, sotto questo profilo, i nodi principali
sono due: a) la ricomposizione della leadership di partito
e di governo; b) la reale contendibilità e dunque
il periodico ricambio della leadership stessa. La storia
dei grandi partiti italiani della prima repubblica è
fatta di leadership fortissime ma non contendibili,
nel caso del Pci, e, nel caso della Dc, di leadership
contendibili ma rese progressivamente più deboli,
cioè sempre meno espressive di un chiaro indirizzo
politico, dalla disgregazione in correnti.
Quei partiti hanno inoltre teorizzato, con giustificazioni
diverse, la distinzione tra le massime cariche di partito
e le massime cariche istituzionali. La Dc in nome di
una autonomia delle istituzioni dal partito. Il Pci
per affermare la supremazia del partito rispetto ai
ruoli istituzionali. La seconda tesi appare oggi culturalmente
improponibile e la prima, come è noto, non ha
mai in realtà difeso le istituzioni pubbliche
da una penetrante colonizzazione da parte della politica.
La distinzione serviva piuttosto a tenere separate le
sorti dei complicati equilibri interni al partito dagli
altrettanto complicati e precari equilibri di coalizione.
Consentiva al partito di stare al governo senza assumersene
appieno la responsabilità.
Il partito democratico, per fare il mestiere che gli
spetta, se vuole parlare con una voce autorevole e credibile
agli italiani, deve superare le distinzioni di comodo
tra cariche di partito e cariche istituzionali. E deve
avere leadership al tempo stesso forti e contendibili,
deve avere leader costretti a sottoporsi periodicamente
al vaglio di una ampia platea di sostenitori, oltre
che degli elettori. Personalmente direi che le posizioni
di vertice, come quelle nei ruoli parlamentari, dovrebbero
anche essere vincolate ad un vero e proprio limite statutario
alla reiterazione dei mandati. Dopotutto, basta pensare
alla traiettoria dei leader politici più talentuosi
e fortunati degli ultimi trent’anni – da
Tony Blair a Bill Clinton, da Felipe Gonzales a Helmut
Kohl – per capire che l’eccesso di continuità
ha danneggiato la loro stessa immagine oltre che la
loro parte politica. Non a caso, quello tra i quattro
leader citati che ha conservato, nonostante gli incidenti
di percorso, la migliore reputazione è proprio
il secondo, Bill Clinton, costretto ad abbandonare la
Presidenza dopo otto anni da un vincolo costituzionale,
seguito da Tony Blair, mentre gli ultimi due sono usciti
di scena più tardi e peggio.
Credo quindi che la scelta del leader (il «Presidente»)
debba essere affidata, come ormai accade in molti partiti
europei7, al voto diretto e segreto degli aderenti,
anche di quelli che chiedono di aderire al momento del
voto. Le candidature a componente del massimo organo
di indirizzo interno, che chiamerò convenzionalmente
«Consiglio Federale», dovrebbero essere
a mio avviso esplicitamente e formalmente collegate
con le candidature alla carica di Presidente. Ho l’impressione
inoltre che, fatta salva l’esistenza di una struttura
esecutiva, legata al Presidente, gli organi di rappresentanza
intermedi, al livello nazionale, potrebbero essere ridotti
sostanzialmente a due, eventualmente convocabili in
forma congiunta: un organo espressione del Consiglio
Federale e degli eletti, un Coordinamento dei dirigenti
regionali del partito9. Penso infine che, mentre occorrerebbe
alleggerire di poteri formali le assise congressuali,
di poteri che oggi non vengono di fatto esercitati se
non come ratifica di decisioni già prese, sarebbe
opportuno prevedere, statutariamente, lo svolgimento
di conferenze programmatiche periodiche, ad esempio
ogni due anni, nel corso delle quali i dirigenti del
partito siano chiamati a dare conto alla base associativa,
con possibilità di contraddittorio, dei contenuti
e dei risultati dell’azione svolta all’interno
delle istituzioni, così come dei progetti per
il biennio successivo.
Mi pare questi siano i modi più efficaci per
valorizzare la partecipazione, per evitare che il pluralismo
interno si fossilizzi intorno alle attuali appartenenze
e magari degeneri nel correntismo, e dare al Partito
democratico la solida leadership di cui ha bisogno per
parlare al Paese.
Il Presidente di un partito sostenuto dal largo consenso
elettorale che ci attendiamo ed eletto direttamente
da una ampia base di aderenti sarebbe, ovviamente, il
candidato naturale alla guida del governo. O comunque,
se ce ne fosse ancora il bisogno, sarebbe il candidato
unico del Partito democratico alle primarie di coalizione.
Lo stesso modello potrebbe valere, con adattamenti,
anche per gli altri livelli territoriali, essendo chiaro
tuttavia che più si scende verso livelli territoriali
circoscritti, meno è plausibile immaginare che
vi sia coincidenza tra responsabilità di partito
e responsabilità istituzionali. Ai livelli più
bassi può essere utile tenere distinto il ruolo
di chi deve promuovere e mantenere attiva la rete associativa,
da chi ricopre incarichi di governo. Al livello locale,
inoltre, non è sempre detto che il Partito democratico
possa esprimere la candidatura del centrosinistra alla
guida dell’esecutivo.
Una ragione in più per ritenere che il Partito
democratico dovrebbe impegnarsi ad istituzionalizzare
la pratica delle primarie per la selezione dei candidati
a presidente di Regione, presidente di provincia e Sindaci.
È il modo migliore per affermare l’autonomia
delle diverse componenti territoriali, per promuovere
un rimescolamento delle vecchie identità e il
ricambio della classe dirigente, per non disperdere
il grande potenziale di partecipazione che abbiamo tutti
visto in moto l’anno scorso più o meno
di questi tempi.
Credo che occorra però guardarsi bene da alcuni
possibili rischi. Le primarie hanno senso, fanno bene
ai partiti, possono favorire il ricambio, danno un surplus
di legittimazione e credibilità ai candidati
in vista degli appuntamenti elettorali, quando è
plausibile attendersi che a votare siano molti di più
di quelli che possono essere personalmente mobilitati
attraverso le reti organizzative di chi fa o aspira
a fare politica per professione. Si tratta quindi a
mio avviso di difendere lo strumento preziosissimo delle
primarie da un doppio rischio. Da un lato, che vengano
praticate a macchia di leopardo, solo quando in realtà
non ce ne sarebbe bisogno, e cioè quando l’esito
viene ritenuto, a torto o a ragione, prevedibile. Dall’altro,
al contrario, bisogna evitare che ad usarle troppo spesso,
per cariche che non sollecitano l’interesse di
una vasta platea di elettori, perdano di significato
e che finiscano per essere la versione riveduta e corretta
della lotta per le tessere o per le preferenze tra personalità
o correnti dello stesso partito.
Che in altri termini, piuttosto che rafforzare la coesione
e la solidità dell’indirizzo politico generale
del partito, finiscano per incentivare l’esatto
contrario.
Iniziare con il passo giusto
In conclusione, L’Italia e il centrosinistra hanno
bisogno di un partito antioligarchico, culturalmente
plurale, adeguato alla sfida del governo.
Un partito del genere può nascere se sarà
aperto ad una adesione compatibile con livelli di attivismo
differenziato, che offra a tutti gli aderenti la possibilità
di intervenire in maniera diretta, puntuale ed efficace,
nei momenti in cui vengono prese le decisioni cruciali
riguardo alla scelta dei leader e, dunque, all’indirizzo
politico; se il pluralismo da cui è animato l’Ulivo
si tradurrà in un dibattito culturale vivace
e costruttivo, in investimenti concreti nell’elaborazione
programmatica e nella formazione; se i meccanismi della
rappresentanza interna saranno disegnati in modo da
favorire l’emergere di un chiaro indirizzo politico
posto nelle mani di leadership forti ma contendibili,
chiamate ad un periodico rendiconto sui contenuti e
sui risultati dell’azione svolta all’interno
delle istituzioni.
Naturalmente la realizzazione di questi obiettivi non
dipende soltanto dalle regole che il Partito democratico
si darà al suo interno. La tenuta del progetto
e la realizzazione di quelle linee-guida sono legate
a doppio filo al contesto istituzionale.
È difficile pensare ad un partito per la democrazia
governante se le regole del gioco istituzionale dovessero
continuare ad inibire, piuttosto che favorire, la costituzione
di solidi governi di legislatura. Se dalla democrazia
dell’alternanza si dovesse tornare alla democrazia
del negoziato. Così come se dovessero continuare
troppo a lungo ad operare tutti quei meccanismi che
– dalla pessima legge elettorale varata nel 2005,
al sistema di finanziamento pubblico dei partiti, ai
regolamenti parlamentari e consiliari – premiano
il frazionismo, piuttosto che incentivare la creazione
di soggetti politici unitari. Il Partito democratico,
e quelli che sinceramente aspirano a fondarlo, non possono
insomma che schierarsi in maniera coerente e decisa
a difesa del bipolarismo, per la promozione di regole
istituzionali ed elettorali coerenti con il principio
maggioritario.
Ciò detto, qual è il passo giusto per
iniziare? In che modo e con che ritmo?
La risposta non è estranea al tema della forma
partito, perché dal modo in cui si parte dipenderà
l’imprinting del modello organizzativo. E del
resto, non a caso, il terzo dei temi messi all’ordine
del giorno di questo convegno da Romano Prodi nella
sua lettera di invito, riguarda, insieme, «la
forma partito e il processo costituente».
Quanto al ritmo, mi pare sia in larga misura imposto
dalle scadenze elettorali.
Nel 2009 ci saranno le Europee, nel 2010 le regionali,
solo nel 2011, come tutti ci auguriamo, le elezioni
politiche. Ma per arrivare alla prova del 2011 con un
partito rodato, già nel 2009 gli elettori dovrebbero
trovare per la prima volta sulla scheda il simbolo dell’Ulivo
come emblema del Partito democratico. Questo ci fa presumere
che non più tardi dell’inizio del 2008
dovrebbe insediarsi un qualche organo «costituente»
a cui vengano demandati alcuni compiti fondamentali:
approvare la «carta dei valori» e i documenti
statutari; predisporre le procedure per la prima attuazione
dello statuto stesso; procedere alla costituzione degli
organi al livello centrale e al riconoscimento delle
articolazioni territoriali.
Il nodo principale della transizione riguarda dunque
la modalità di composizione dell’organo
«costituente». Per farla breve, credo si
possano isolare due modelli. Naturalmente, si può
pensare anche a modelli misti, che tuttavia alla prova
dei fatti risultano intrinsecamente contradditori e
anche poco praticabili.
In base ad un primo modello l’organo costituente
potrebbe essere formato da delegati dei partiti ed eventualmente
di altre realtà associative le quali, avendo
stipulato tra loro un «patto federativo»,
decidono di dar vita al nuovo soggetto politico. Questo
modello prevede una ripartizione dei seggi in base a
quote formalmente prestabilite su basi pattizie dagli
attuali partiti, con l’eventuale attribuzione
di una quota di seggi ad altri soggetti. Si noti che
questa quota verrebbe «concessa», in ultima
analisi, «per cooptazione», dato che non
esistono criteri oggettivi per selezionare le associazioni
da coinvolgere e per misurare la loro rappresentatività.
Questa soluzione presuppone peraltro che la membership
delle associazioni in questione sia distinta e diversa
dalla membership dei partiti, perché in caso
contrario alcuni degli associati, ma non altri, sarebbero
rappresentati due o più volte.
L’alternativa, a mio avviso preferibile, consiste
nell’adottare, sin da subito, il principio «una
testa, un voto», con il quale si definisce, sin
dall’inizio, una appartenenza nuova. Il modello
potrebbe ricalcare quello che ho già proposto
per la fase ordinaria. Nella seconda domenica di ottobre
del 2007, ad esempio, tutti i cittadini italiani che
condividono il progetto, potrebbero essere chiamati
a sottoscrivere un documento di intenti, una versione
«minima e transitoria» dello statuto, pagare
una quota di 5 euro, autorizzare l’iscrizione
del loro nome nell’Albo dei sostenitori del Partito
democratico, votare per l’elezione dei componenti
del Consiglio Federale del partito (a cui viene attribuito
un mandato costituente) e, in maniera congiunta, per
il primo Presidente del partito.
Si noti che una simile modalità di formazione
dell’organo costituente non esclude che, in questa
fase, alle componenti partitiche che lasciano generosamente
il passo al nuovo soggetto venga dato un adeguato riconoscimento.
I componenti del Consiglio Federale «costituente»
potrebbero essere eletti nell’ambito di collegi
regionali o subregionali in ciascuno dei quali si assegnano
pochi seggi sulla base di liste bloccate ma «corte»,
che rendono quindi visibili per gli elettori i nomi
dei candidati11. Le liste sarebbero, come ho detto,
univocamente collegate ad un candidato alla carica di
Presidente del partito e sarebbero dunque, verosimilmente,
il frutto di un accordo tra le componenti, partitiche
ed associative, che esprimono quella candidatura.
Voglio dire che il secondo modello, e la preferenza
per il principio «una testa, un voto», rispetto
all’ipotesi di un puro accordo privatistico tra
i partiti esistenti, non implica, necessariamente, né
lo smantellamento delle attuali classi dirigenti, né
l’azzeramento delle storie politiche e culturali
del passato, né tanto meno l’idea che sia
oggi utile una battaglia – che sarebbe, oggi,
solo autolesionista – tra correnti, tra partiti,
o tra partiti e movimenti, a chi ha più consenso
nel «popolo delle primarie».
L’adozione, sin da subito, del principio «una
testa, un voto», oltre ad essere importante in
se stessa, in quanto da’ un segno di cosa il Partito
democratico vuole essere, serve a rendere più
partecipata, più trasparente, più solida
e più
credibile l’impresa. Sarebbe un modo per dare
gambe solide ad un cambiamento epocale nella politica
del nostro paese. Perché al centrosinistra, e
alla democrazia italiana, serve un nuovo partito, ma
serve anche un partito nuovo.
Pippa Norris, una brillante politologa della Kennedy
School of Government (Harvard University) ha proposto
una suggestiva distinzione che a me pare molto utile
per esprimere in cosa consiste questo cambiamento12.
La Norris distingue tra bridging parties e bonding parties,
tra partiti che creano ponti e partiti che tendono a
marcare i propri confini. I primi allignano nelle democrazie
competitive, improntate al principio maggioritario.
I secondi in quelle improntate al principio proporzionale.
I partiti italiani, anche quelli nati dopo il 1992,
seppure in misure diverse, hanno mantenuto con tutta
evidenza nel loro dna l’attitudine a marcare confini,
piuttosto che a costruire ponti. Ad andare alla caccia
di un circoscritto segmento dell’elettorato e
poi a coltivare l’attaccamento di quell’elettorato
ai propri simboli attraverso segnali divisi, attraverso
l’attitudine a distinguersi, a prendere le distanze
dal governo o dalla coalizione di cui sono parte, piuttosto
che a prospettare un progetto di largo respiro per il
paese e a cercare di tenerlo unito. La dannazione della
politica italiana, espressa fino al parossismo dalla
carrellata di dichiarazioni che ci servono quotidianamente
i telegiornali del mezzogiorno e della sera, continua
ad essere il frazionismo, l’incapacità
di elaborare visioni condivise e la mancanza di un senso
di responsabilità collettiva nei confronti di
un progetto di lungo termine per migliorare il Paese,
la continua ricerca di muretti di sostegno (pseudo)ideologico
dietro i quali coltivare piccole rendite di posizione.
Il partito democratico ha senso, in sintesi, se serve
a superare la sindrome italica del frazionismo. Se serve
ad abbattere muri, ed a costruire ponti. A rimescolare
le vecchie appartenenze e creare nuovo consenso su coraggiose
ipotesi di innovazione, per una società che di
innovazione, ricambio della classe dirigente e progetti
di lungo termine ha un disperato bisogno.
A nessuno sfugge che, a questo scopo, la forma è
sostanza. Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
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