308 - 26.10.06


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La forma organizzativa
Un nuovo partito, e un partito nuovo

Salvatore Vassallo



Dal sito Ulivo.it, proponiamo la relazione del prof. Salvatore Vassallo al seminario "Per il Partito Democratico" svolto a Orvieto il 6 e 7 ottobre 2006.

Dal perché al come
Nel mio intervento sosterrò che ci sono tre linee guida a cui occorre ancorare il disegno organizzativo del Partito Democratico, nel solco di tre obiettivi che hanno animato sin dal suo esordio l’Ulivo.
L’Ulivo è nato, in primo luogo, per cogliere la sfida della competizione bipolare, ed offrire un progetto e una guida sicura al Paese. Il partito democratico avrà dunque un senso se contribuirà, anche con la sua forma organizzativa, a dare compimento alla transizione verso una matura democrazia governante. Se riuscirà davvero ad essere il solido baricentro di cui ha bisogno il centrosinistra.
E se da quella posizione sarà in grado di assumersi chiare responsabilità nei confronti dell’elettorato, se sarà capace di parlare, con una sola lingua e con parole autorevoli, tanto al suo elettorato tradizionale quanto all’elettorato sfiduciato, disperso o di confine.

L’Ulivo è nato, in secondo luogo, con l’ambizione di unire persone e gruppi provenienti da storie culturali e politiche diverse. Come è stato detto più volte, è nato per lenire ed archiviare le ormai logore divisioni ideologiche del novecento. Il Partito democratico non potrà dunque che valorizzare il pluralismo
culturale al suo interno e non potrà non riconoscere il valore del pluralismo degli interessi e delle organizzazioni che li rappresentano.
L’Ulivo è nato, infine, per richiamare alla partecipazione politica quei tanti cittadini italiani che da tempo non sono più attratti, o si sentono addirittura respinti, dalle tradizionali strutture di partito. La trasformazione del progetto dell’Ulivo nel progetto del Partito democratico ha d’altro canto una data precisa nel calendario. Il 16 ottobre 2005. Il giorno in cui tutti abbiamo scoperto con grande stupore come l’assenza di partecipazione e l’atrofia della democrazia nei partiti non sia un male incurabile. Quel giorno, in fila davanti ai gazebo dell’Unione, e il giorno dopo esaminando i dati dell’affluenza alle primarie, abbiamo scoperto che c’è tanta gente disposta a riconoscersi in maniera aperta in un progetto politico corale, c’è tanta gente interessata a far pesare le proprie opinioni.

L’idea del partito democratico non sarebbe germogliata se non ci fossimo accorti che la società italiana ha ancora larghe zone di terreno fertile per la partecipazione politica. E possiamo essere certi che il progetto del Partito democratico non metterà radici se non continuerà a trarre linfa vitale da un consenso simile, per ampiezza e intensità del sentimento unitario, a quello registrato il 16 ottobre del 2005. Per questo il Partito democratico deve avere, nella sua forma organizzativa, porte aperte e canali larghi per la partecipazione.
In breve, il disegno organizzativo dovrebbe rendere massimi, nelle forme oggi possibili, i valori della partecipazione, del pluralismo e della capacità di governo. È intorno a questi tre principi che vorrei articolare dunque qualche riflessione e alcune puntuali proposte. Inizierò dalla base, passando dai «corpi intermedi», per arrivare al tema cruciale della selezione (e del ricambio) della leadership.

Un partito aperto
La crisi dei partiti come canali della partecipazione politica non è un problema nato ieri e non è un problema solo italiano. La ricerca empirica fornisce robusti indicatori a questo riguardo. Dagli anni sessanta in poi sono cresciuti in maniera abbastanza lineare, e un po’ in tutti i paesi democratici, i livelli di disaffezione dei cittadini nei confronti dei partiti nel loro insieme, si è andato erodendo il senso di identificazione degli elettori verso uno specifico partito, il numero di iscritti (dichiarati) è in costante calo, così come è in calo la quota di
iscritti che effettivamente partecipano alle attività di base. Il titolo emblematico di un volume pubblicato nel 2000 da Oxford University Press che fa il punto su queste tendenze è un lapidario Parties without partisans, «partiti senza militan ti». D’altro canto, secondo una analisi largamente condivisa tra i ricercatori, l’indebolimento della base associativa è stato compensato, negli ultimi vent’anni, da un cospicuo ampliamento delle risorse e delle strutture poste a diretto servizio del personale politico all’interno delle istituzioni di governo, oltre che da una cospicua crescita dei finanziamenti pubblici messi a disposizione delle organizzazioni extra-istituzionali di partito. L’indebolimento dei legami con l’elettorato e l’assottigliamento della base dei militanti non hanno quindi diminuito l’influenza dei partiti sulle decisioni pubbliche e sono stati anzi accompagnati da una crescita delle risorse finanziarie e delle strutture di staff a disposizione dei leader. In questo modo è venuta ulteriormente meno l’esigenza, per la dirigenza di partito, di mantenere saldi legami con la base da cui un tempo si traevano risorse finanziarie e disponibilità di lavoro volontario.
Cosicché, sempre secondo questa tesi, enunciata da Richard Katz e Peter Mair, i partiti si sono generalmente trasformati da associazioni di cittadini in società di professionisti, con quel che ne consegue per il ricambio, sempre meno fluido, della classe dirigente.
Della scarsa vivacità della partecipazione all’interno dei partiti abbiamo del resto alcuni indizi anche in casa nostra. Ad esempio, in base ai dati dell’indagine post-elettorale Itanes (Italian National Election Studies) del 2006, solo il 6% degli intervistati identificabili come elettori dell’Ulivo dice di essere iscritto ad un partito. Si tratta di una percentuale che è quasi di un punto inferiore a quella che avremmo dovuto rilevare sulla base dei dati ufficiali sulle iscrizioni.
Tra quel 6% di intervistati che dichiara d’essere iscritto, inoltre, più della metà (il 54,5%) afferma di non avere mai partecipato, nei dodici mesi precedenti all’intervista, ad una qualche attività politica promossa dal suo partito.

Come dire che, nonostante i possibili problemi di autoselezione del campione (i più interessati alla politica si fanno intervistare più facilmente e quindi avremmo dovuto trovare nel campione più iscritti di quanti non ce ne siano tra il complesso degli elettori), meno del 3% degli elettori dell’Ulivo ha detto di aver frequentato almeno una volta nel corso dell’anno precedente all’intervista una qualche attività di partito. E meno di un elettore dell’Ulivo su 100 ha detto di averlo fatto «spesso», essendo dunque riconducibile alla categoria del «militante».

All’interno del medesimo campione, ben il 36% degli intervistati identificabili come elettori dell’Ulivo ha invece detto di aver partecipato alle primarie del 16 ottobre 2005. Un ulteriore 10% ha detto che sarebbe andato a votare volentieri, ma che non gli fu possibile per cause di forza maggiore. In realtà la quota effettiva di elettori dell’Ulivo che andarono a votare alle primarie fu tra il 22 e il 25%. Il fatto che l’inchiesta abbia rilevato una percentuale ancora più elevata dipende in parte dai problemi già citati di autoselezione del campione, ma in parte rivela come, anche ad un anno di distanza dall’evento, e dopo elezioni vinte per un pelo, si sia sedimentato un atteggiamento molto positivo nei confronti di quel tipo di consultazione. Tanto che alcuni elettori dell’Ulivo dicono o si sono convinti di aver partecipato alle primarie anche se non l’hanno fatto.
Mentre sembrerebbe, al contrario, che alcuni «iscritti» non ricordino, o preferiscano non dire, o forse non sappiano di essere tali.

Si intende che questo quadro non tiene conto delle differenze tra aree geografiche e quindi fa torto a contesti locali nei quali la partecipazione nei partiti è ancora ricca e vivace. Va pure detto che le basi associative degli attuali partiti italiani non hanno molto da invidiare per numero di iscritti e intensità della partecipazione ai partiti di altri paesi europei. Non si tratta, ovviamente, di sostituire, gli iscritti di oggi con il «popolo delle primarie». Negli iscritti di oggi ci sono tante persone con un intenso grado di motivazione e una generosa disponibilità a impegnarsi per cause politiche. Sono un patrimonio che non va disperso ma va anzi se possibile reimpiantato nel nuovo soggetto. E va anche detto che non sarà facile replicare un evento come quello dell’ottobre 2005, le cui dimensioni sono giustificate anche da fattori congiunturali: l’aspettativa di un ricambio alla guida del governo, la sequenza delle leggi vergogna …. Ma è ugualmente evidente che nello iato tra una partecipazione dell’1 e del 25%, ci sono ampi spazi per migliorare la qualità della democrazia nei partiti.

Le primarie ci insegnano che la partecipazione politica può essere considerata attraente da una fascia larga ed eterogenea di persone se non implica una «appartenenza» troppo impegnativa (totalizzante) e se ha, nella percezione di chi partecipa, una efficacia immeditata, riconoscibile, rilevante. È difficile attendersi che, oggi, le persone non attratte dalla «politica come professione» tornino a frequentare in quote significative e in maniera continuativa le sedi di partito.

È invece realistico attendersi che molte persone siano disposte ad andare di tanto in tanto davanti ai gazebo del Partito democratico o dell’Unione se invitate a dire la loro in maniera puntuale e influente, scegliendo i leader o i candidati alle principali cariche di governo, esprimendo attraverso referendum di indirizzo la propria opinione. Questi sono forse gli unici modi attraverso cui, oggi, i partiti possono tornare ad essere un po’ meno società di professionisti e un po’ più associazioni di cittadini.
Se vuole essere veramente aperto, il partito democratico deve quindi prevedere una forma di adesione individuale il più possibile agevole, semplice, immediata: user friendly, come si dice nel lessico informatico. Una adesione che naturalmente non esclude (ed anzi magari preludere ad) una militanza più intensa e stabile, essendo chiaro che ci saranno intensità differenziate di partecipazione e di esercizio dei diritti connessi all’adesione. Occorre insomma rendere amichevole l'accesso alla vita del partito e aiutare così il costante rinnovamento della sua base associativa.

L’adesione, per intendersi, potrebbe avvenire anche via internet o in occasione di un qualsiasi momento elettivo interno. L’adesione individuale dovrebbe consistere sostanzialmente nell’autorizzazione ad inserire il proprio nome nell’Albo dei sostenitori del Partito, nella sottoscrizione di un manifesto programmatico e di uno statuto, nel versamento di una quota annuale ragionevolmente contenuta. L’adesione dovrebbe essere inoltre tutelata da un rigoroso statuto sulla trasparenza e la regolarità delle procedure della democrazia interna, e possibilmente anche da una legge che, interpretandolo evolutivamente, dia attuazione, in una forma essenziale ma incisiva, all’articolo 49 della Costituzione.

Sarebbe una doverosa contropartita al finanziamento pubblico, ed anche un
modo per restituire a questo istituto una legittimità oggi gravemente compromessa agli occhi dell’opinione pubblica.
È cruciale, in ogni caso, che l’adesione implichi un diritto a partecipare in maniera diretta alle principali scelte riguardanti l’indirizzo politico e la selezione dei dirigenti. Anche nel senso che dovrebbe essere radicalmente esclusa, a mio avviso, qualsiasi forma di voto per delega, e che dovrebbero essere ridotti i casi in cui gli organi si formano sulla base di elezioni di secondo o di terzo grado. Poste queste premesse, sarebbe meno drammatica la scelta dell’unità organizzativa di base, un aspetto su cui ad esempio i Ds e i Dl hanno un modello diverso e apparentemente non conciliabile, basato rispettivamente sulle sezioni territoriali e sui circoli. Questi due modelli hanno pro e contro. Il primo incentiva la mescolanza tra orientamenti politici diversi, il secondo amplia la platea degli aderenti grazie a reti di relazioni personali ed informali. Se tuttavia si assume che l’adesione deve essere individuale e la partecipazione il più possibile diretta, se si esclude il voto per delega e si riducono i casi in cui gli organismi dirigenti sono formati sulla base di elezioni di secondo ordine (in cui i «segretari di sezione», ad esempio, votano per conto dei «loro» iscritti), il modello della sezione e del circolo possono tranquillamente convivere. La sezione potrebbe costituire utilmente il minimo comune denominatore. Sarebbe, come minimo, il luogo fisico in cui, secondo la regola aurea «una testa, un voto», si forma la rappresentanza.
Ciò detto, è altamente auspicabile che sia anche molto di più: la sede in cui si progettano attività di impegno civico volontario, un luogo di dibattito culturale, di auto-formazione, di confronto con gli amministratori locali, di elaborazione di proposte e trasmissione delle domande che emergono sul territorio.
Ma in uno spirito volontario, appunto, che non ha la pretesa di rappresentare in forma esclusiva ed ufficiale la posizione del partito in quella porzione del territorio, ed in un contesto in cui dovrebbe esserci invece la massima libertà di creare qualsiasi tipo di network, circolo, associazione tematica.
Il Partito democratico non dovrà essere insomma solo un «contenitore» o una «procedura» per la selezione dei leader. Se vuole davvero rappresentare una larga parte della società italiana dovrà essere una sede dentro la quale chi ha senso civico e una «vocazione» per la politica possa liberamente incontrarsi, discutere e agire. Rendere l’adesione più agevole, l’accesso al partito più amichevole, le forme associative meno rigide, e le opinioni individuali di ciascun aderente più pesanti, non serve del resto a ridurre la partecipazione, ma esattamente al contrario: ad ampliare il numero di persone che aderiscono al partito per una sincera passione civica.

Un partito culturalmente plurale
E vengo quindi al secondo principio: il pluralismo.
L’Ulivo è nato con l’ambizione di unire persone e gruppi provenienti da storie culturali e politiche diverse. Non c’è dubbio dunque che il Partito democratico debba riconoscere l’importanza del pluralismo culturale al suo interno. È però cruciale essere chiari sul significato che si attribuisce al pluralismo e alle sue implicazioni organizzative. Si può concepire l’Ulivo, il Partito democratico, secondo la logica anni settanta dell’«incontro tra culture», o meglio tra subculture, e cioè tra comunità di interessi e valori, tenute insieme da schemi mentali e reti di relazione, da organizzazioni sociali e autorità morali di riferimento, «culture» destinate, anche dopo «l’incontro», a rimanere saldamente unite al loro interno e reciprocamente separate. Oppure si può concepire l’Ulivo come la sede di una nuova possibile sintesi politica per una società che ha in larga misura superato quelle appartenenze, ed ha in ogni caso superato la visione secondo cui la politica debba essere un riflesso di divisioni di quel genere.

A questo riguardo, a me pare che la realtà della società italiana dia ragione a chi propone di assumere decisamente la seconda prospettiva.
Se le culture in questione avessero ancora lo stesso spessore e il medesimo radicamento che avevano trent’anni fa, l’incontro sarebbe semplicemente impossibile, se non inutile. Se oggi possiamo pensare al Partito democratico come ad un partito nuovo, che archivia le fratture del secolo scorso, è perché quelle fratture nella società italiana si sono molto attenuate o sono scomparse da un bel pezzo, lasciando semmai il posto, nell’arena politica, ad un altro genere di divisioni (ad esempio quello tra le partite iva e il reddito fisso, tra chi considera gli immigrati persone, fino a prova contraria, degne di rispetto, e chi nutre nei loro confronti pregiudizi atavici). Se oggi discutiamo del Partito democratico lo facciamo perché milioni di elettori non hanno avuto difficoltà ad identificarsi con un simbolo, l’Ulivo, che già evoca nella loro percezione una nuova sintesi di valori, un nuovo progetto politico. Ed anzi, in molti casi hanno preferito identificarsi direttamente con la sintesi piuttosto che con i suoi affluenti.
D’altro canto sarebbe ingenuo ignorare che il riferimento a quelle culture, sempre più debole tra gli elettori, sia, per ragioni del tutto comprensibili, molto più forte tra chi ha una lunga e intensa biografia professionale nel campo politico.
Il riferimento alle «culture politiche del secolo scorso» è più forte tra chi,
nell’evocazione di quelle culture, ha intessuto reti di relazione, legami di fiducia, di amicizia, di solidarietà politica, ha avuto scontri e accumulato umanissime idiosincrasie.

E tuttavia sarebbe riduttivo concepire il partito democratico come l’incontro
tardivo tra cattolici-democratici e social-democratici. Non è sugli affluenti ma sulla sintesi, possibilmente inclusiva di un campo di forze molto più largo, che il nuovo partito dovrebbe porre l’accento. Il Partito democratico ha senso se ambisce a raggiungere il 40% degli elettori italiani. Mentre ciascuno può intendere che con la somma di quei due affluenti si sta abbondantemente sotto il 30.
Ho l’impressione dunque che se si vuole costruire un partito vero e solido, occorre evitare che le vecchie appartenenze si fossilizzino, come avverrebbe se si adottassero regole statutarie improntate ai principi dell’adesione collettiva, del patto federativo, delle quote riservate e della rappresentanza proporzionale.
Non è su questo terreno che il «pluralismo interno» dovrebbe dare i suoi frutti.
C’è invece un grande bisogno, in tutti i partiti italiani di oggi, di rimettere in moto un vivace dibattito culturale, di darsi strumenti e sedi attraverso cui generare nuove idee, elaborare programmi di politica pubblica, dove riflettere sulle tematiche eticamente sensibili e cercare posizioni equilibrate ed unitarie prima ancora di farne oggetto di conflitti esasperati o affrettate proposte di legge.
A questo riguardo, sul piano organizzativo, si può seguire il modello centro-europeo (tedesco e olandese) delle Fondazioni di partito, generosamente sostenute con finanziamenti pubblici continuativi, oppure inclinare verso il modello anglosassone, che affida il compito di generare nuove idee ad una pluralità di think tank più o meno indipendenti, ancorché politicamente connotate. Le prime sono strutture permanenti, ufficiali, che in quanto tali corrono il rischio della burocratizzazione; le seconde operano su commissione e in alcuni casi (non sempre) nascono e muoiono con i cicli della politica.
Ora, a mio avviso, alla fase nascente del Partito democratico e al suo pluralismo interno, si addice più il secondo modello del primo. Quello attuale è il momento propizio per dare vita non ad una soltanto ma a quattro o cinque istituzioni di ricerca e formazione politica, che possibilmente non ricalchino pari pari le vecchie appartenenze, nessuna delle quali possa avanzare la pretesa d’essere esclusiva o di avere il dono della sintesi, ne tanto meno di trasmettere una qualche dottrina ufficiale. Si può trattare di agenzie specializzate per settori di policy, che cooperano tra loro. Ma potrebbe anche trattarsi di think tank che si esercitano a mettere a fuoco visioni alternative tra cui la politica dovrà scegliere.
È su questo terreno che il pluralismo culturale, nella misura in cui si traduce in visioni e progetti di politica pubblica, può e dovrebbe trovare la più proficua declinazione. Il che, ovviamente, non toglie che vi dovrà essere spazio anche per un ragionevole pluralismo di posizioni politiche.
Il carattere plurale del partito ha poi due ulteriori implicazioni. In primo luogo, il Partito democratico non potrà che considerare un valore il pluralismo delle organizzazioni economiche e sociali. Dovrà coltivare rapporti amichevoli con una pluralità di soggetti, e con alcuni anche forme strutturate di consultazione periodica, ma da una chiara posizione di reciproca indipendenza. In secondo luogo, mentre non può essere concepito come una confederazione di correnti, dovrebbe avere una struttura federale. In realtà sappiamo che, anche nei partiti europei in cui l’autonomia statutaria delle unità regionali è molto ampia le strutture organizzative tendono alla fine ad assomigliarsi. Proprio per questo, non c’è ragione per pretendere una perfetta uniformità in partenza. Fatti salvi i principi della partecipazione di cui ho già detto, e i meccanismi di formazione degli organi nazionali di cui dirò più avanti, il Partito democratico dovrebbe riconoscere a ciascuna articolazione regionale una piena autonomia nella scelta dei modelli organizzativi.

Un partito per la democrazia governante
Infine, l’ultima decisiva sfida. Il partito democratico serve a dare compimento alla transizione verso un matura democrazia governante, serve a dare al centrosinistra il solido baricentro di cui ha bisogno per mettere in pratica una impegnativa agenda di riforme. Il pluralismo interno deve essere quindi ricondotto ad una chiara sintesi, un momento prima di presentarsi di fronte agli elettori e nel momento in cui si esercitano responsabilità di governo.
Non ci sono singoli casi storici di altri partiti che possano fare precisamente da modello. Ma si intende che i casi «comparabili» con l’oggetto di cui stiamo parlando sono i partiti a vocazione maggioritaria delle grandi democrazie europee.
Quanto alla forma organizzativa, possiamo imparare qualcosa da ciascuno dei partiti, sia di sinistra sia di destra, che nelle grandi democrazie europee a forma di governo parlamentare (Spagna, Germania, Gran Bretagna) si candidano a dare al Paese una guida solida e un governo di legislatura. La Francia da questo punto di vista non è un buon modello, per via della storica debolezza delle organizzazioni di partito, così come delle regole istituzionali della V Repubblica che hanno accentuato quella debolezza, incentivando in maniera estrema la personalizzazione6. Ma se guardiamo ai maggiori partiti spagnoli, britannici o tedeschi, capiamo subito qual è la direzione da prendere e quali sono le eredità del passato che dobbiamo superare. Per dirla senza troppi giri di parole, sotto questo profilo, i nodi principali sono due: a) la ricomposizione della leadership di partito e di governo; b) la reale contendibilità e dunque il periodico ricambio della leadership stessa. La storia dei grandi partiti italiani della prima repubblica è fatta di leadership fortissime ma non contendibili, nel caso del Pci, e, nel caso della Dc, di leadership contendibili ma rese progressivamente più deboli, cioè sempre meno espressive di un chiaro indirizzo politico, dalla disgregazione in correnti.
Quei partiti hanno inoltre teorizzato, con giustificazioni diverse, la distinzione tra le massime cariche di partito e le massime cariche istituzionali. La Dc in nome di una autonomia delle istituzioni dal partito. Il Pci per affermare la supremazia del partito rispetto ai ruoli istituzionali. La seconda tesi appare oggi culturalmente improponibile e la prima, come è noto, non ha mai in realtà difeso le istituzioni pubbliche da una penetrante colonizzazione da parte della politica.
La distinzione serviva piuttosto a tenere separate le sorti dei complicati equilibri interni al partito dagli altrettanto complicati e precari equilibri di coalizione.
Consentiva al partito di stare al governo senza assumersene appieno la responsabilità.
Il partito democratico, per fare il mestiere che gli spetta, se vuole parlare con una voce autorevole e credibile agli italiani, deve superare le distinzioni di comodo tra cariche di partito e cariche istituzionali. E deve avere leadership al tempo stesso forti e contendibili, deve avere leader costretti a sottoporsi periodicamente al vaglio di una ampia platea di sostenitori, oltre che degli elettori. Personalmente direi che le posizioni di vertice, come quelle nei ruoli parlamentari, dovrebbero anche essere vincolate ad un vero e proprio limite statutario alla reiterazione dei mandati. Dopotutto, basta pensare alla traiettoria dei leader politici più talentuosi e fortunati degli ultimi trent’anni – da Tony Blair a Bill Clinton, da Felipe Gonzales a Helmut Kohl – per capire che l’eccesso di continuità ha danneggiato la loro stessa immagine oltre che la loro parte politica. Non a caso, quello tra i quattro leader citati che ha conservato, nonostante gli incidenti di percorso, la migliore reputazione è proprio il secondo, Bill Clinton, costretto ad abbandonare la Presidenza dopo otto anni da un vincolo costituzionale, seguito da Tony Blair, mentre gli ultimi due sono usciti di scena più tardi e peggio.

Credo quindi che la scelta del leader (il «Presidente») debba essere affidata, come ormai accade in molti partiti europei7, al voto diretto e segreto degli aderenti, anche di quelli che chiedono di aderire al momento del voto. Le candidature a componente del massimo organo di indirizzo interno, che chiamerò convenzionalmente «Consiglio Federale», dovrebbero essere a mio avviso esplicitamente e formalmente collegate con le candidature alla carica di Presidente. Ho l’impressione inoltre che, fatta salva l’esistenza di una struttura esecutiva, legata al Presidente, gli organi di rappresentanza intermedi, al livello nazionale, potrebbero essere ridotti sostanzialmente a due, eventualmente convocabili in forma congiunta: un organo espressione del Consiglio Federale e degli eletti, un Coordinamento dei dirigenti regionali del partito9. Penso infine che, mentre occorrerebbe alleggerire di poteri formali le assise congressuali, di poteri che oggi non vengono di fatto esercitati se non come ratifica di decisioni già prese, sarebbe opportuno prevedere, statutariamente, lo svolgimento di conferenze programmatiche periodiche, ad esempio ogni due anni, nel corso delle quali i dirigenti del partito siano chiamati a dare conto alla base associativa, con possibilità di contraddittorio, dei contenuti e dei risultati dell’azione svolta all’interno delle istituzioni, così come dei progetti per il biennio successivo.
Mi pare questi siano i modi più efficaci per valorizzare la partecipazione, per evitare che il pluralismo interno si fossilizzi intorno alle attuali appartenenze e magari degeneri nel correntismo, e dare al Partito democratico la solida leadership di cui ha bisogno per parlare al Paese.
Il Presidente di un partito sostenuto dal largo consenso elettorale che ci attendiamo ed eletto direttamente da una ampia base di aderenti sarebbe, ovviamente, il candidato naturale alla guida del governo. O comunque, se ce ne fosse ancora il bisogno, sarebbe il candidato unico del Partito democratico alle primarie di coalizione.
Lo stesso modello potrebbe valere, con adattamenti, anche per gli altri livelli territoriali, essendo chiaro tuttavia che più si scende verso livelli territoriali circoscritti, meno è plausibile immaginare che vi sia coincidenza tra responsabilità di partito e responsabilità istituzionali. Ai livelli più bassi può essere utile tenere distinto il ruolo di chi deve promuovere e mantenere attiva la rete associativa, da chi ricopre incarichi di governo. Al livello locale, inoltre, non è sempre detto che il Partito democratico possa esprimere la candidatura del centrosinistra alla guida dell’esecutivo.
Una ragione in più per ritenere che il Partito democratico dovrebbe impegnarsi ad istituzionalizzare la pratica delle primarie per la selezione dei candidati a presidente di Regione, presidente di provincia e Sindaci. È il modo migliore per affermare l’autonomia delle diverse componenti territoriali, per promuovere un rimescolamento delle vecchie identità e il ricambio della classe dirigente, per non disperdere il grande potenziale di partecipazione che abbiamo tutti visto in moto l’anno scorso più o meno di questi tempi.
Credo che occorra però guardarsi bene da alcuni possibili rischi. Le primarie hanno senso, fanno bene ai partiti, possono favorire il ricambio, danno un surplus di legittimazione e credibilità ai candidati in vista degli appuntamenti elettorali, quando è plausibile attendersi che a votare siano molti di più di quelli che possono essere personalmente mobilitati attraverso le reti organizzative di chi fa o aspira a fare politica per professione. Si tratta quindi a mio avviso di difendere lo strumento preziosissimo delle primarie da un doppio rischio. Da un lato, che vengano praticate a macchia di leopardo, solo quando in realtà non ce ne sarebbe bisogno, e cioè quando l’esito viene ritenuto, a torto o a ragione, prevedibile. Dall’altro, al contrario, bisogna evitare che ad usarle troppo spesso, per cariche che non sollecitano l’interesse di una vasta platea di elettori, perdano di significato e che finiscano per essere la versione riveduta e corretta della lotta per le tessere o per le preferenze tra personalità o correnti dello stesso partito.
Che in altri termini, piuttosto che rafforzare la coesione e la solidità dell’indirizzo politico generale del partito, finiscano per incentivare l’esatto contrario.

Iniziare con il passo giusto
In conclusione, L’Italia e il centrosinistra hanno bisogno di un partito antioligarchico, culturalmente plurale, adeguato alla sfida del governo.
Un partito del genere può nascere se sarà aperto ad una adesione compatibile con livelli di attivismo differenziato, che offra a tutti gli aderenti la possibilità di intervenire in maniera diretta, puntuale ed efficace, nei momenti in cui vengono prese le decisioni cruciali riguardo alla scelta dei leader e, dunque, all’indirizzo politico; se il pluralismo da cui è animato l’Ulivo si tradurrà in un dibattito culturale vivace e costruttivo, in investimenti concreti nell’elaborazione programmatica e nella formazione; se i meccanismi della rappresentanza interna saranno disegnati in modo da favorire l’emergere di un chiaro indirizzo politico posto nelle mani di leadership forti ma contendibili, chiamate ad un periodico rendiconto sui contenuti e sui risultati dell’azione svolta all’interno delle istituzioni.
Naturalmente la realizzazione di questi obiettivi non dipende soltanto dalle regole che il Partito democratico si darà al suo interno. La tenuta del progetto e la realizzazione di quelle linee-guida sono legate a doppio filo al contesto istituzionale.
È difficile pensare ad un partito per la democrazia governante se le regole del gioco istituzionale dovessero continuare ad inibire, piuttosto che favorire, la costituzione di solidi governi di legislatura. Se dalla democrazia dell’alternanza si dovesse tornare alla democrazia del negoziato. Così come se dovessero continuare troppo a lungo ad operare tutti quei meccanismi che – dalla pessima legge elettorale varata nel 2005, al sistema di finanziamento pubblico dei partiti, ai regolamenti parlamentari e consiliari – premiano il frazionismo, piuttosto che incentivare la creazione di soggetti politici unitari. Il Partito democratico, e quelli che sinceramente aspirano a fondarlo, non possono insomma che schierarsi in maniera coerente e decisa a difesa del bipolarismo, per la promozione di regole istituzionali ed elettorali coerenti con il principio maggioritario.
Ciò detto, qual è il passo giusto per iniziare? In che modo e con che ritmo?
La risposta non è estranea al tema della forma partito, perché dal modo in cui si parte dipenderà l’imprinting del modello organizzativo. E del resto, non a caso, il terzo dei temi messi all’ordine del giorno di questo convegno da Romano Prodi nella sua lettera di invito, riguarda, insieme, «la forma partito e il processo costituente».

Quanto al ritmo, mi pare sia in larga misura imposto dalle scadenze elettorali.
Nel 2009 ci saranno le Europee, nel 2010 le regionali, solo nel 2011, come tutti ci auguriamo, le elezioni politiche. Ma per arrivare alla prova del 2011 con un partito rodato, già nel 2009 gli elettori dovrebbero trovare per la prima volta sulla scheda il simbolo dell’Ulivo come emblema del Partito democratico. Questo ci fa presumere che non più tardi dell’inizio del 2008 dovrebbe insediarsi un qualche organo «costituente» a cui vengano demandati alcuni compiti fondamentali: approvare la «carta dei valori» e i documenti statutari; predisporre le procedure per la prima attuazione dello statuto stesso; procedere alla costituzione degli organi al livello centrale e al riconoscimento delle articolazioni territoriali.
Il nodo principale della transizione riguarda dunque la modalità di composizione dell’organo «costituente». Per farla breve, credo si possano isolare due modelli. Naturalmente, si può pensare anche a modelli misti, che tuttavia alla prova dei fatti risultano intrinsecamente contradditori e anche poco praticabili.
In base ad un primo modello l’organo costituente potrebbe essere formato da delegati dei partiti ed eventualmente di altre realtà associative le quali, avendo stipulato tra loro un «patto federativo», decidono di dar vita al nuovo soggetto politico. Questo modello prevede una ripartizione dei seggi in base a quote formalmente prestabilite su basi pattizie dagli attuali partiti, con l’eventuale attribuzione di una quota di seggi ad altri soggetti. Si noti che questa quota verrebbe «concessa», in ultima analisi, «per cooptazione», dato che non esistono criteri oggettivi per selezionare le associazioni da coinvolgere e per misurare la loro rappresentatività. Questa soluzione presuppone peraltro che la membership delle associazioni in questione sia distinta e diversa dalla membership dei partiti, perché in caso contrario alcuni degli associati, ma non altri, sarebbero rappresentati due o più volte.
L’alternativa, a mio avviso preferibile, consiste nell’adottare, sin da subito, il principio «una testa, un voto», con il quale si definisce, sin dall’inizio, una appartenenza nuova. Il modello potrebbe ricalcare quello che ho già proposto per la fase ordinaria. Nella seconda domenica di ottobre del 2007, ad esempio, tutti i cittadini italiani che condividono il progetto, potrebbero essere chiamati a sottoscrivere un documento di intenti, una versione «minima e transitoria» dello statuto, pagare una quota di 5 euro, autorizzare l’iscrizione del loro nome nell’Albo dei sostenitori del Partito democratico, votare per l’elezione dei componenti del Consiglio Federale del partito (a cui viene attribuito un mandato costituente) e, in maniera congiunta, per il primo Presidente del partito.

Si noti che una simile modalità di formazione dell’organo costituente non esclude che, in questa fase, alle componenti partitiche che lasciano generosamente il passo al nuovo soggetto venga dato un adeguato riconoscimento. I componenti del Consiglio Federale «costituente» potrebbero essere eletti nell’ambito di collegi regionali o subregionali in ciascuno dei quali si assegnano pochi seggi sulla base di liste bloccate ma «corte», che rendono quindi visibili per gli elettori i nomi dei candidati11. Le liste sarebbero, come ho detto, univocamente collegate ad un candidato alla carica di Presidente del partito e sarebbero dunque, verosimilmente, il frutto di un accordo tra le componenti, partitiche ed associative, che esprimono quella candidatura.

Voglio dire che il secondo modello, e la preferenza per il principio «una testa, un voto», rispetto all’ipotesi di un puro accordo privatistico tra i partiti esistenti, non implica, necessariamente, né lo smantellamento delle attuali classi dirigenti, né l’azzeramento delle storie politiche e culturali del passato, né tanto meno l’idea che sia oggi utile una battaglia – che sarebbe, oggi, solo autolesionista – tra correnti, tra partiti, o tra partiti e movimenti, a chi ha più consenso nel «popolo delle primarie».
L’adozione, sin da subito, del principio «una testa, un voto», oltre ad essere importante in se stessa, in quanto da’ un segno di cosa il Partito democratico vuole essere, serve a rendere più partecipata, più trasparente, più solida e più
credibile l’impresa. Sarebbe un modo per dare gambe solide ad un cambiamento epocale nella politica del nostro paese. Perché al centrosinistra, e alla democrazia italiana, serve un nuovo partito, ma serve anche un partito nuovo.
Pippa Norris, una brillante politologa della Kennedy School of Government (Harvard University) ha proposto una suggestiva distinzione che a me pare molto utile per esprimere in cosa consiste questo cambiamento12. La Norris distingue tra bridging parties e bonding parties, tra partiti che creano ponti e partiti che tendono a marcare i propri confini. I primi allignano nelle democrazie competitive, improntate al principio maggioritario. I secondi in quelle improntate al principio proporzionale. I partiti italiani, anche quelli nati dopo il 1992, seppure in misure diverse, hanno mantenuto con tutta evidenza nel loro dna l’attitudine a marcare confini, piuttosto che a costruire ponti. Ad andare alla caccia di un circoscritto segmento dell’elettorato e poi a coltivare l’attaccamento di quell’elettorato ai propri simboli attraverso segnali divisi, attraverso l’attitudine a distinguersi, a prendere le distanze dal governo o dalla coalizione di cui sono parte, piuttosto che a prospettare un progetto di largo respiro per il paese e a cercare di tenerlo unito. La dannazione della politica italiana, espressa fino al parossismo dalla carrellata di dichiarazioni che ci servono quotidianamente i telegiornali del mezzogiorno e della sera, continua ad essere il frazionismo, l’incapacità di elaborare visioni condivise e la mancanza di un senso di responsabilità collettiva nei confronti di un progetto di lungo termine per migliorare il Paese, la continua ricerca di muretti di sostegno (pseudo)ideologico dietro i quali coltivare piccole rendite di posizione. Il partito democratico ha senso, in sintesi, se serve a superare la sindrome italica del frazionismo. Se serve ad abbattere muri, ed a costruire ponti. A rimescolare le vecchie appartenenze e creare nuovo consenso su coraggiose ipotesi di innovazione, per una società che di innovazione, ricambio della classe dirigente e progetti di lungo termine ha un disperato bisogno.
A nessuno sfugge che, a questo scopo, la forma è sostanza. Grazie per l’attenzione e buon lavoro.

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