“Lei
mi chiede se sono sicura in Turchia? E lei è
sicuro in Belgio? Siamo sicuri su questo pianeta, in
cui un mondo in cui dobbiamo fronteggiare quotidianamente
ambiguità e angoscia?”. Così ha
scritto sulla rivista inglese Opendemocracy
la scrittrice e docente di storia medio-orientale in
Arizona Elif Shafak. Eppure, per lei il 21 settembre
scorso è stato un giorno felice. E non solo perché
aveva appena dato alla luce sua figlia, ma anche perché
è stata prosciolta, causa insufficienza di prove,
dall’accusa di aver “offeso l’identità
turca” in un suo romanzo, Il bastardo di Istanbul,
in testa alle classifiche turche, nel quale i turchi
che avevano partecipato ai massacri di armeni in Anatolia
nel 1915-1916 venivano definiti “macellai”.
Ma su che base i giudici hanno portato alla sbarra
l’autrice trentacinquenne? L’articolo incriminato
– che ha scatenato le proteste in Turchia di intellettuali
e giornalisti, generando una compagna finalizzata ad
abrogare le leggi sulla diffamazione in tutti i codici
penali europei (sponsorizzata dall’OSCE, dal New
Human Rights Committee delle United Nations, dalll’
European Court of Human Rights, e da gruppi di pressione
come Articolo 19, l’International Press Institute
e Reporters Without Borders) nonché una richiesta
esplicita di abrogazione da parte dell’Unione
Europea – prevede fino a tre anni di carcere per
chi “offende l’identità turca”
(Turkishness).
Ma il governo, per paura delle reazioni nazionaliste,
non vuole sentir parlare né di emendamento né
tantomeno di cancellazione dell’articolo, nonstante
esso si intrecci con la delicata questione dei negoziati
per entrare nell’Ue. La cosa ironica, dice Elif
Shafak, è che l’articolo 301 non è
stato partorito dalle forze che si oppongono strenuamente
all’adesione all’Unione, quelle nazionaliste-secolari,
ma dallo stesso governo moderato di Erdogan, nel tentativo
di ingraziarsi insieme nazionalisti e riformisti tramite
un emendamento del codice penale frutto di un “delicato
bilanciamento”: quello che, appunto, punisce con
il carcere chi insulta “il buon nome” turco,
una formulazione così vaga “da poter essere
facilmente malinterpretata e sfruttata dagli avvocati
ultranazionalisti per attaccare le menti più
aperte della società”, conclude la scrittrice.
A condividere la sorte di Elif Shafak sono stati anche,
insieme ad altri casi, il pubblicista armeno Hrant Dink,
condannato a sei mesi di carcere e lo scrittore Orhan
Pamuk, successivamente prosciolto. La sentenza di Dink
si basa su un articolo di giornale in cui l’autore
parlava del massacro degli armeni nel 1915. “Sono
stato accusato di razzismo! Io, che ho passato una vita
a lottare contro la discrimnazione etnica! Nel mio articolo,
parlavo piuttosto dell’identità armena,
e non di quella turca, che non è mio compito
criticare”, dice Dink in un’intervista rilasciata
all’ufficio Agos di Instanbul. Dink è tuttavia
ottimista. Lungi dal vedere l’attuale governo
islamico moderato come una minaccia, crede che la Turchia
dimostrerà come l’Islam saprà rinnovarsi
dall’interno, senza alcun intervento esterno (“come
le bombe di Bush”).
Orhan Pamuk è stato invece accusato per aver
“denigrato pubblicamente l’identità
turca” in base a un’intervista rilasciata
in febbraio al giornale svizzero Tages-Anzeiger
in cui affermava che un milione di Armeni e circa
30.000 curdi sono stati uccisi in Turchia. Come racconta
Murat Belge – un altro giornalista e studioso
turco processato per aver organizzato una conferenza
storico-scientifica sulla questione armena – su
Opendemocracy, queste affermazioni hanno generato,
grazie anche al supporto dei media, una reazione isterica
di massa con manifestazioni e incendio dei libri dell’autore
(si è formato persino un “circolo di odiatori
di Pamuk”). Anche il caso di Pamuk è stato
trascinato nel dibattito sull’Unione Europea,
che spacca il paese, perchè ogni questione che
getta luce sfavorevole sulla Turchia viene usata come
carburante per la campagna anti-UE.
Insomma, il tema della ricostruzione della memoria
è all’ordine del giorno in Turchia, soprattutto
in relazione alla questione armena, su cui il governo
di Ankara si gioca un possibile futuro Ue, poiché
continua a resistere alle pressioni che la spingono
a classificare quello armeno come “genocidio”.
(Non è un caso che la giornalista Daria Vaisman
abbia notato, su Opendemocracy, un parallelismo
tra le vicende turche e il caso dello storico austriaco
David Irving, condannato nel febbraio 2006 per aver
negato l’Olocausto. In entrambi i casi, l’Europa
sembrerebbe voler affermare “l’idea della
libertà di espressione come principio che mina
l’impulso a negare ciò che è vissuto
come abominenevole e insopportabile”, dice).
Ecco perchè, come ha scritto lo storico David
Bidussa (su Reset. 97, settembre-ottobre 2006), “Nazionalismo,
opposizione all’Europa, questione armena, in particolare
ammissione che ci fu genocidio armeno, sono tre ingredienti
legati tra loro e il cui risultato è il caleidoscopio
complesso – talora persino indecifrabile –
chiamato Turchia moderna”.
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