Dal sito Ulivo.it,
proponiamo la relazione del prof. Pietro Scoppola al
seminario "Per il Partito Democratico" svolto
a Orvieto il 6 e 7 ottobre 2006.
I. Nella sua lettera di invito Prodi
indica chiaramente le ragioni che ispirano la proposta
di dar vita a un partito democratico: caduti i motivi
che in una lunga stagione storica hanno diviso le forze
democratiche e riformatrici, occorre, in un sistema
bipolare “trasparente e moderno”, dar vita
a un soggetto capace di raccogliere la domanda di unità
e di cambiamento che sale dal Paese. L’obiettivo
è quello di condurre in porto “quel processo
politico che dopo anni di sforzi ed esperimenti, ha
portato, anche attraverso le primarie del 16 ottobre
2005, alla decisione di proporre la lista unitaria dell’Ulivo
alla Camera”.
Il cenno alle primarie indica la volontà di
una apertura a realtà popolari, ad associazioni
e a personalità che hanno lavorato per l’Ulivo
e poi per il Partito democratico. Ma è esplicito
nella lettera il richiamo ai partiti che hanno dato
voce e rappresentanza alle tradizioni riformatrici e
sono parte fondamentale e costitutiva della Repubblica
e dello Stato democratico. Perciò -dice Prodi-
“dobbiamo immaginare un percorso in cui le scelte
e le decisioni dei partiti (nei loro organi decisionali
fino ai congressi) si incontrino e convergano con una
platea di soggetti più ampia e meno o diversamente
strutturata”.
I partiti sono perciò i principali protagonisti
del processo verso il partito democratico che Romano
Prodi propone. E’ inevitabile che sia così
come era inevitabile -se è consentito un paradossale
richiamo storico- che i sovrani assoluti, i detentori
del potere, quando erano costretti dagli eventi, concedessero
le costituzioni. L’alternativa era solo la rivoluzione
i cui esiti, peraltro, come la storia insegna, sono
stati sempre ricondotti entro un equilibrio fra vecchi
e nuovi poteri.
Voglio dire insomma che nella proposta di Prodi non
c’è un azzeramento dell’esistente,
non c’è e non ci poteva essere uno scioglimento
preventivo dei partiti. I partiti sono e rimangono protagonisti
della transizione.
Ho richiamato questo dato della decisiva rilevanza
dei partiti solo perché di qui nascono le difficoltà,
le tensioni con cui dobbiamo misurarci.
Dice Prodi nella sua lettera: “in tutte le obiezioni
che vengono mosse al progetto [....] c’è
qualcosa di vero”. Ma noi, prosegue, dobbiamo
tener conto di tutti i dubbi e non farci bloccare. Effettivamente
le polemiche intorno alla proposta di un partito democratico
sono tante e così piene di equivoci da esigere
il massimo di chiarezza e onestà intellettuale.
Tener conto di quei dubbi significa anzitutto capirne
le ragioni.
La prima domanda da porsi è quella più
radicale: il partito non è ormai una forma vuota
ed anzi rifiutata per la partecipazione alla vita politica?
Non rischia di servire solo per consentire alle oligarchie
di sopravvivere, come è avvenuto in altri campi,
in economia, nella finanza, quando attraverso fusioni,
incorporazioni, od operazioni straordinarie sul capitale,
capi deboli o azionisti di minoranza hanno preteso di
conservare il loro potere? Le reazioni di molti all’idea
del partito democratico sono il segno di problemi reali,
di verità da non nascondere.
E allora appena riconosciuto realisticamente il ruolo
prevalente e, per restare nel paradosso storico, il
carattere octroyé del partito democratico, bisogna
porre al giusto livello le condizioni perché
l’operazione sia possibile e al tempo stesso credibile
ed efficace.
La centralità del ruolo dei partiti non poteva
non provocare le reazioni identitarie, a sinistra come
al centro. A sinistra si teme di perdere un’identità
che ha radici profonde nella nostra storia e che ha
indubbiamente contribuito a fare del nostro Paese una
democrazia veramente popolare, ha sostenuto rivendicazioni
fondamentali di libertà e di giustizia. Ma la
sinistra, nel partito democratico, può guardare
al futuro.
I cattolici democratici non possono accettare il pur
cortese invito a ritrovarsi in Europa nella casa socialista,
come se fossero dei nostalgici o degli sconfitti.
Consentitemi un rinvio alla prefazione scritta “a
quattro mani” con Beppe Tognon alla seconda edizione
dell’intervista su La Democrazia dei cristiani.
Quello che è avvenuto in Francia, con figure
di grande prestigio come un Delors, non può avvenire
in Italia per tre ragioni che si riassumono in tre parole:
per la forza maggiore nel nostro Paese della tradizione
politica cattolico democratica, per la debolezza della
tradizione socialdemocratica e per il peso dell’eredità
comunista nella nostra storia. E quando dico peso, dico
importanza, forza di condizionamento della nostra società
e della vita politica, in positivo e in negativo.
E per un’ulteriore ragione alla quale tutti i
democratici dovrebbero essere sensibili: perché
spingerebbe irrimediabilmente verso una destra senza
storia la Chiesa italiana vanificando lo sforzo di due
generazioni di democratici cristiani da De Gasperi a
Moro che hanno lavorato con passione, con sofferenza,
ma con frutto per tenere la Chiesa agganciata alla democrazia,
per l’ “istituzione della democrazia nel
mondo cristiano” per dirla con Tocqueville. E’stato
più difficile che altrove per la Chiesa italiana
adattarsi ad uno schema bipolare: evitiamo di favorire
il riflusso verso destra di questa Chiesa.
Non è un caso che si sia affidata, di nuovo,
a Romano Prodi, la guida del governo non solo per la
sua indiscussa competenza, ma anche, io credo, perché
nella sua formazione non è certo assente il cattolicesimo
democratico.
Il problema della collocazione europea, dovrebbe essere
semplicemente rinviato a dopo la nascita del partito,
quando i suoi aderenti potranno far sentire la loro
voce.
Non penso che i problemi cosiddetti eticamente sensibili
rappresentino un ostacolo insuperabile purché
siano assunti come problemi da risolvere e non come
pretesto per dividersi e purché si sappia collocarli
in una dimensione pienamente consapevole della complessità
del rapporto oggi esistente fra la scienza e una tecnologia
che ha ambizioni di onnipotenza.
Dunque i partiti del centro sinistra facciano i passi
possibili sulla via dell’unità: unità
di liste, unità di gruppi, momenti assembleari
aperti alla partecipazione di non iscritti ai partiti,
assemblee costituenti a livello territoriale. Naturalmente
l’esito dipenderà dalla regia e c’è
da augurarsi che la regia sia illuminata ed aperta a
questi sviluppi e perciò sia affidata ad un organismo
sufficientemente libero e indipendente dalle logiche
di partito. C’è da augurarsi che una costituente
del partito democratico, se ad essa si arriverà,
sia formata sulla base di una partecipazione larga ed
aperta.
Una questione pregiudiziale è quella della riforma
elettorale. Abbiamo una legge elettorale che esaspera
il potere dei gruppi dirigenti dei partiti, che taglia
ogni legame fra gli elettori e gli eletti e che è
funzionale ad una partitocrazia..... senza veri partiti.
Bisogna dirlo chiaramente: senza riforma elettorale
il partito democratico non può mettere radici;
ma la determinazione dei partiti su questo tema, dopo
l’appello di Prodi per una riforma, appare assai
incerta.
Altro elemento qualificante del nuovo partito dovrebbe
essere a mio avviso l’applicazione del famoso
artico 49 della Costituzione anche alla vita interna
dei partiti.
Ai molti che in questi anni hanno con generosità
aiutato Prodi e l’Ulivo. alle numerose associazioni
che si battono per il nuovo partito, a tutti quanti
hanno creduto e sperato nell’Ulivo e ora nel Partito
democratico io direi: prendiamo atto dei passi oggi
possibili, ma teniamo viva una idea, una speranza più
impegnativa e giochiamola non contro il processo ma
oltre, oltre questo processo oggi possibile, quando
scelte più impegnative saranno necessarie. Teniamo
viva l’idea di un vero partito nuovo.
II. Ma quale partito nuovo? Quale
è il suo retroterra sociale e culturale? A quali
riserve si può attingere? Come fare per metterle
in circolo?
Storicamente i partiti nascono per rappresentare interessi
e valori emergenti che non hanno spazio nella realtà
sociale e politica e vogliono conquistarlo: così
il partito liberale, così il partito socialista,
così il partito popolare e poi i comunisti, la
Democrazia cristiana, e più tardi gli ambientalisti,
i verdi.
Cosa di nuovo dovrebbe rappresentare il partito democratico,
a quali interessi, a quali valori, a quali domande dovrebbe
rispondere? Certo c’è un problema di difesa,
di conservazione, con i necessari aggiornamenti, delle
conquiste del periodo precedente alle quali hanno contribuito
in forme diverse socialisti e cattolici: intendo la
difesa del Welfare dalla sfida della globalizzazione.
Ma questa è una funzione di sostanziale, legittima
conservazione delle conquiste conseguite, una funzione
che da sola non può innervare culturalmente un
partito nuovo.
Dobbiamo chiederci quali sono le domande inevase che
giustificano la nascita di un partito nuovo: sono le
domande, i problemi che il secolo scorso ha lasciati
irrisolti, legati tutti a un intreccio di beni e interessi
materiali e immateriali. Dobbiamo scavare nella eredità
del vecchio secolo per guardare al futuro.
Provo a indicare alcuni di questi nodi. Non posso fare
a meno di riprendere alcune idee già enunciate
a Chianciano nel convegno dei Popolari il 27 scorso.
Il secolo scorso è stato dominato dalla domanda
assillante su come rispondere alla sfida di una modernità
che metteva in crisi tutte le vecchie identità
tradizionali. Gran parte del ‘900 è stato
attraversato dalla nostalgia per la “coesione
sociale”, una nostalgia che ha condizionato le
diverse ideologie.
I totalitarismi di destra hanno tentato di rispondere
a loro modo, rifiutando la pluralità, la complessità,
attraverso la sacralizzazione della nazione, dello stato,
della razza.
Anche il comunismo si è posto lo stesso problema;
la sua risposta è stata abissalmente diversa
nella prospettiva del futuro da costruire -un futuro
di libertà e di uguaglianza – ma è
stata tuttavia travolta, dagli strumenti di governo
e di repressione adottati. Questo scarto totale fra
obiettivi ideali e realizzazione storica ha messo radicalmente
in crisi tutta l’ideologia ispiratrice del comunismo.
In definitiva la democrazia ha vinto: in Italia un
ruolo importante per la sua vittoria lo hanno certamente
avuto la tradizione liberal democratica e liberal socialista;
i cattolici democratici, e i comunisti italiani, con
la loro diversità, pur sulla base di un aspro
conflitto hanno saputo dare alla democrazia un vasto
consenso di popolo. Ma la domanda da cui quei movimenti
totalitari erano nati–quella esigenza di coesione
sociale e in definitiva di nuova identità collettiva-
non è stata compiutamente accolta: le identità
cui la democrazia ha dato luogo, sulla scia del modello
americano, sono risultate legate prevalentemente alle
dinamiche della produzione e dei consumi.
In Italia la rinascita democratica è stata segnata
per giunta dalla fragilità di una comune identità
democratica in favore di identità di partito.
In fondo, si potrebbe dire che anche la contestazione
del ’68 – pur nell’enorme differenza
di strumenti e di esiti - è stata animata, in
forme contraddittorie e talvolta impazzite, da quel
problema di identità. Si pensi ad alcuni temi
del movimento: l’infelicità prodotta dall’individualismo,
il rifiuto del materialismo, il desiderio di ritrovare
un contatto con la natura, l’angoscia per l’isolamento,
per l’alienazione prodotta da una società
sempre più anonima.
Ma anche per il ’68 come per i totalitarismi
“tutto era politica”; la politica invadeva
la vita quotidiana. Proprio i movimenti di contestazione
degli anni ’60 e ’70, e più di recente
il movimento cosiddetto “no-global”, hanno
mostrato che se la democrazia è riuscita ad integrare
le masse popolari nello Stato, se ha prodotto maggiore
benessere, se ha distribuito in modo più equo
la ricchezza, non ha risposto fino in fondo alle domande,
alle paure provocate dalla «modernità».
La politica non ha dato e non poteva dare queste risposte.
Quando la politica manifesta il suo limite, essa viene
travolta da spinte opposte e distruttive: da risposte
antidemocratiche o da risposte antipolitiche, che diventano
a loro volta antidemocratiche.
Risposte antidemocratiche, come nel caso dei movimenti
rivoluzionari o dei fondamentalismi di oggi.
Risposte antipolitiche, come abbiamo potuto vedere
proprio nel nostro paese, anche se i segnali in questa
direzione si moltiplicano in altre aree geografiche.
Ma le posizioni antipolitiche, che teorizzano un mondo
privo di conflitti (e dunque privo di politica), si
trovano di fronte all’insanabile contraddizione
rappresentata dal fatto che si appellano alla politica
– come con la famosa «discesa in campo»
del 1994 – per produrre la fine della politica
stessa.
Si promette cioè di giungere a una situazione
in cui una buona amministrazione sostituirà una
volta per tutte la politica, ma nello stesso tempo si
produce un’estremizzazione dello scontro frontale,
la demonizzazione dell’avversario, l’esasperazione
dei toni per chiamare alla mobilitazione contro i nemici
della libertà individuale. In altre parole, ci
si propone di cancellare la dimensione politica con
l’uso estremo delle armi fornite dalla politica
stessa.
III. Il tema della identità
si salda con quella che definirei la questione democratica.
In sostanza il secolo XX ha segnato il fallimento delle
ideologie di liberazione dell’uomo legate al mito
dell’uomo nuovo costruito dal potere politico
o dalla Stato.
Ma ha segnato anche il fallimento del mito di una democrazia
spontaneamente capace di assicurare le risposte giuste
alle sfide della modernità, di diffondersi, di
conquistare terre e popoli nuovi e di autoriprodursi.
Già nel suo libro del 1984 Il futuro della democrazia
Bobbio osservava che una delle promesse della democrazia
era quella di alimentare autonomamente e spontaneamente
lo spirito democratico, ma che questa promessa non era
stata mantenuta: insomma la democrazia spontaneamente
non si alimenta; la democrazia non è autosufficiente.
Quella intuizione di Bobbio è stata ripresa
e approfondita in una ampia letteratura che è
impossibile qui richiamare. La democrazia è in
crisi sotto l’effetto della società dei
due terzi; è spesso schiava degli interessi costituti,
degli interessi forti, più che interprete delle
speranze dei deboli.
E’ in crisi la democrazia americana: si riprenderà
perché ha radici profonde, ma il suo disagio
è evidente e sintomatico.
La democrazia stenta a rappresentare e a fare sintesi
di fronte ad una realtà sempre più complessa
e contraddittoria; nel suo recentissimo libro Forme
di Stato e forme di governo Giuliano Amato stabilisce
un parallelo fra la sfida alla democrazia rappresentata
all’inizio del secolo dai totalitarismi e le nuove
sfide del nostro tempo che nascono da una esasperata
complessità sociale.
La crisi della democrazia è anche problema di
classi dirigenti.
Il passaggio di secolo ha reso visibile la mancanza
di grandi figure politiche. La figura di Papa Wojtyla
è stata di gran lunga quella dominante. Nessun
politico nel mondo ha dominato la scena del passaggio
di millennio.
Il vecchio secolo ci ha consegnato dunque un problema
irrisolto di selezione delle classi dirigenti e di leadership.
Ci sono ottimi professionisti sulla scena, ci sono ancora
politici che credono in quello che fanno, ma non possiamo
negare che nel momento in cui la complessità
dei problemi richiederebbe il massimo di apertura a
nuove competenze e a nuove generazioni, abbiamo, almeno
in Italia, il massimo di autoreferenzialità del
sistema politico.
La forma partito che abbiamo ereditato dal secolo scorso
non è più idonea a selezionare una classe
politica all’altezza delle nuove sfide ed è
per questo che dobbiamo tenere ben presente la domanda
di partenza: quale è il retroterra sociale e
culturale del partito democratico? A quali riserve si
può attingere? come fare per metterle in circolo?
La questione democratica comprende per noi italiani
quella della riforma costituzionale. La nostra Costituzione
“contesa” alla fine del secolo scorso è
stata poi “aggredita”, per riprendere un
titolo di Leopoldo Elia, dalla riforma imposta dalla
destra nella passata legislatura, ma ha ritrovato il
suo radicamento nel recente referendum popolare: il
referendum ha confermato e rafforzato quello che in
altra sede mi è sembrato di poter definire il
triplice radicamento della Costituzione: nella storia
d’Italia e in una Resistenza intesa sempre più
come vicenda di popolo e non come una guerra civile
di minoranze; un radicamento nella grande tradizione
del costituzionalismo europeo; un radicamento nella
coscienza religiosa del Paese per avere, nel primo comma
dell’articolo 7, dato una definitiva risposta
alla questione storica della presenza del Papato in
Italia.
Il rinnovato radicamento non esclude anzi esige una
riforma, sulla quale giustamente il Presidente Napolitano
ha richiamato ripetutamente l’attenzione, una
riforma calibrata sulle nuove esigenze, ma fedele alla
tradizione parlamentare e quindi non plebiscitaria,
non presidenzialista, non tale da tradurre la spinta
alle autonomie in un rischio per la unità nazionale.
La giusta esigenza di cercare un ampio consenso intorno
alla riforma non può tradursi in cedimento di
fronte a principi e valori che il voto popolare del
giugno 2006 ha solennemente consacrato.
Connessa al tema della riforma è la questione
della identità e della unità nazionale
che esige un ripensamento della idea di cittadinanza.
Oggi non c’è un soggetto sociale, classi
o ceti ben determinati da integrare: la realtà
è frammentata. Da una parte, è necessario
evitare che i soggetti deboli (le nuove povertà)
siano espulsi o messi ai margini del sistema; dall’altra,
è necessario produrre una nuova integrazione
per gli immigrati, che non hanno accesso al benessere
prodotto dal nostro modello di sviluppo; infine bisogna
ricreare le condizioni per una corretta mobilità
sociale fondata sull’impegno e sul merito. È
necessario produrre un’integrazione che dia senso
dell’appartenenza comune, senso dei diritti e
dei doveri, delle regole, della partecipazione attiva
e del confronto, che sono tra le eredità più
positive lasciateci dal mondo cattolico e dal movimento
dei lavoratori.
Centrale è dunque la questione della cittadinanza,
cioè della piena appartenenza alla comunità
politica, che è anche una comunità di
culture plurali che si riconoscono reciprocamente, di
storie plurali ognuna delle quali trova un posto e un
ruolo rispetto alle altre, in cui non ci sono ghetti
o isole di esclusione o di autoesclusione.
IV. Ma la questione democratica con
le sue varie implicazioni è solo un aspetto della
eredità del XX secolo.
Quella crisi di identità prodotta dalla modernità
che ha dominato il secolo scorso assume oggi forme ancor
più incisive e allarmanti. Il secolo XX ci ha
consegnato un modello di società, un modello
di sviluppo (mi riferisco al modello nostro occidentale)
in cui il futuro è rigidamente preordinato, in
cui non c’è futuro libero.
Sappiamo con certezza scientifica che il nostro modello
di sviluppo se non subirà modifiche radicali,
renderà in un tempo che con qualche approssimazione
è stato già calcolato, il pianeta invivibile.
Il problema enorme, che tuttavia un partito che guardi
al futuro non può non aver presente come orizzonte
culturale, è quello della libertà delle
future generazioni oggi chiuse, e per questo senza speranza
e fiducia nel futuro, in un ferreo determinismo. Il
secolo scorso che si aprì nel clima ingenuo di
una sconfinata fiducia nella possibilità della
scienza di operare per la liberazione dell’uomo,
ci consegna in eredità la drammatica coscienza
di un progresso tecnologico che sfugge alla possibilità
di ogni controllo.
Abbiamo bisogno di cercare e inventare nuovi modelli
di sviluppo: gioverebbe forse a questo fine prestare
attenzione alle voci che ci vengono da lontane civiltà
asiatiche che propongono di sostituire al prodotto interno
lordo, come indice di progresso, l’indice della
complessiva felicità nazionale.
E’ cresciuta la dimensione reale e la coscienza
dell’ insostenibile rapporto fra il Nord e il
Sud del pianeta, un rapporto che, così come sta
oggi, non può durare. Il rapporto attuale fra
popolazione e risorse nelle diverse aree del pianeta
non è sostenibile: il fenomeno delle immigrazioni
sarà sempre più massiccio senza interventi
che vadano alle radici del problema. Su questi temi
pesa l’eredità di una lunga storia dei
processi di colonizzazione e decolonizzazione che chiamano
direttamente in causa l’Europa.
Il fattore religioso è riemerso sulla scena
mondiale in primo piano, ma ha assunto anche, specie
nell’Islam, forme fondamentaliste che rappresentano
una sfida imprevedibile e inquietante alla democrazia
e ai valori liberali: proprio a questi valori il fondamentalismo
islamico attribuisce la responsabilità della
crisi del tessuto etico religioso della società
occidentale verso la quale concentra perciò la
sua polemica e il suo attacco.
Guai ai corti circuiti e alle semplificazioni culturali,
ma il fatto che il secolo si sia aperto con la tragedia
dell’11 settembre non è certo casuale.
La risposta non può essere la rinuncia alla
libertà religiosa e alla laicità dello
Stato ma dobbiamo forse ripensare la laicità
in termini che non escludano anzi valorizzino l’apporto
delle esperienze religiose alla formazione del tessuto
etico della società. Se non vogliamo che del
fattore religioso, del cristianesimo, si impadroniscano
i teocon, con l’effetto di favorire uno scontro
di civiltà in cui di fatto i valori di libertà
cui essi si appellano, quando parlano di Occidente,
sarebbero radicalmente compromessi.
Il terrorismo ha avuto una sua prima vittoria nel porre
in crisi, con il Patriot Act i principi stessi dell’habeas
corpus, fondamento del liberalismo. Dahrendorf segnalava
pochi giorni fa come uno scandalo la “nuova teoria”
enunciata dal primo ministro inglese Blair, secondo
cui la sicurezza sarebbe la prima delle libertà,
una sicurezza della quale lo Stato definisce le condizioni
anche limitando la libertà dei cittadini.
Così al senso di dipendenza e di frustrazione
prodotto da un determinismo frutto del sistema economico
e dalla rincorsa tecnologica si aggiunge un secondo
motivo di insicurezza tutto interno alle responsabilità
politiche e religiose: la crisi nel rapporto tra i popoli
e le religioni.
La libertà dal determinismo, la liberazione
dalla paura e la riscoperta della speranza come spazio
vitale necessario alle nuove generazioni non sono certo
obiettivi facili, alla portata soltanto di un partito
politico, sono tuttavia elemento essenziale di una cultura
che un partito democratico deve coltivare. Tutto si
inquadra in una visione europeistica e internazionalistica
che non deve essere un punto del programma del nuovo
partito ma una sua connotazione essenziale.
Ma l’incertezza che assilla le nuove generazioni
ha altri aspetti che sono parte essenziale di una nuova
domanda di politica.
Si pensi alla possibilità e alla stabilità
del lavoro, alle garanzie per la vecchiaia e per la
malattia, insomma a quello che il welfare aveva conquistato
e la globalizzazione ha messo in discussione. Qui il
rischio è quello di una difesa quantitativa che
si risolva in un progressivo arretramento senza un salto
di qualità.
Quello che l’individuo della società preindustriale
trovava nella grande famiglia patriarcale di un tempo
e che l’individuo isolato e la famiglia nucleare
della società industriale ha cercato e trovato,
almeno in parte, nello Stato sociale, deve essere ricuperato
sul terreno di un tessuto sociale nuovo che alla solitudine
dell’uomo moderno risponda con un tessuto libero
di amicizie. L’amicizia contro la solitudine,
l’amicizia come l’etimologia suggerisce
che nasce dall’amore e non l’amicizia politica
anticamera di corruzione.
La riforma del Welfare in altre parole non è
questione di quantità o di tagli, ma di riconversione
qualitativa nel senso di un coinvolgimento di tutto
il tessuto sociale su valori di convivenza. solidarietà,
amicizia appunto.
Non si tratta solo di vecchiaia o di malattia: si tratta
anche di socializzazione di giovani e giovanissimi.
Si pensi ai bambini e ai ragazzi la cui socializzazione
è affidata oggi alla vita di banda nelle strade,
a rumorose sale da gioco, alla pratica non dello sport
ma del fanatismo sportivo, alla televisione. Perché
non pensare ad una funzione più ampia della scuola
e ad una valorizzazione, con opportuni incentivi, di
tutte le iniziative esistenti nel quadro di una applicazione
larga, non gelosa, del principio di sussidiarietà.
Ecco: crisi di identità e questione democratica,
determinismo e libertà, paura e speranza di futuro,
solitudine e amicizia, sono queste alcune delle dicotomie
sulle quali un partito nuovo dovrebbe costruire la sua
identità e il suo progetto. I miei sono solo
esempi: il discorso avrebbe bisogno di ben altri sviluppi
e ben altre competenze.
Ma questi accenni sono sufficienti per comprendere
che un partito che si muova in un simile orizzonte culturale
esige una struttura del tutto nuova, tutta da inventare,
una nuova forma partito.
Non si tratta di mettere insieme pezzi di classi dirigente
portatori di tradizioni culturali di partito, spesso
ossificate, ma pezzi di popolo, milioni di cittadini
personalmente coinvolti ciascuno con la sua storia,
la sua cultura, la sua sensibilità.
L’apporto delle diverse culture e tradizioni
democratiche è essenziale purché non si
scambi questa feconda integrazione solo con un incontro
e una intesa dei gruppi dirigenti dei partiti.
Le sfide per la democrazia oggi riguardano la possibilità
di restituire fiducia nella capacità costruttiva
della politica, nell’utopia democratica, di restituire
a quest’ultima nuovo vigore.
V. Ripeto: i gruppi dirigenti dei
partiti e i partiti si incontrino e diano vita per quanto
possibile a un nuovo soggetto unitario ma avvertano
il rischio e la tremenda responsabilità delle
parole: il rischio che le speranze cresciute in questi
anni, che negli ultimi mesi i partiti stessi hanno acceso
e diffuso e che hanno dato vita ad un significativo
protagonismo femminile, ad una mobilitazione di popolo
che ha coinvolto milioni di donne, di uomini e di giovani
diventino nuove delusioni. Non si può ripetere
all’infinito che il paese è maturo per
un partito democratico, che c’è una diffusa
domanda di base, senza compiere poi atti conseguenti,
seri ed efficaci.
I partiti facciano i passi oggi possibili, ma lascino
aperta una grande finestra verso il futuro.
E teniamo noi tutti, cittadini della Repubblica. viva
dentro e fuori i partiti una prospettiva più
ampia, un disegno più ambizioso, una tensione
ideale che superi le singole appartenenze, che non guardi
più alle componenti come realtà separate
e non comunicanti, ma piuttosto esalti i valori comuni.
Valori comuni da cercare proprio nella nostra Costituzione.
Si discusse alla Costituente se la nuova Costituzione
dovesse avere un presupposto ideologico e un punto di
incontro fu trovato nell’idea della dignità
della persona umana. Era una idea di matrice cristiana
che laicamente declinata ispirò largamente il
testo costituzionale.
Mi chiedo se quella intuizione che ha fondato non solo
tutte le tradizionali libertà ma il principio
di uguaglianza e il rifiuto della guerra non possa diventare
principio animatore della vita associata, non possa
ispirare una laicità e una libertà di
coscienza e di religione che non neghino, anzi valorizzano,
l’apporto delle esperienze religiose alla vita
sociale, non possa animare non solo le iniziative statali
di welfare, ma uno spirito di solidarietà (di
amicizia) in tutto il tessuto sociale, non possa sollecitare
la ricerca di nuovi modelli di sviluppo. Il partito
democratico può trovare in questo patrimonio
di valori la sua stella polare.
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