Il dibattito
sull’eutanasia aperto dalla lettera di Piergiorgio
Welbi indirizzata al presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano, ha riacceso i riflettori su alcune proposte
di legge che giacevano alle Camere e in Senato. “Sicuramente
però c’è molta confusione in proposito”,
avverte subito Demetrio Neri, professore di bioetica
all’Università di Messina e membro della
consulta di bioetica di Milano.
Eutanasia, una questione morale più
che scientifica?
Esattamente. Qui però l’etimologia non
ci aiuta molto, perché eutanasia vuol dire soltanto
“dolce morte” che è quella che tutti
ci auguriamo dal momento che morire è una necessità
per tutti e quindi una morte che arrivi senza tante
sofferenze, o per lo meno non con sofferenze insopportabili,
è un tema antichissimo. Oggi questo termine ha
assunto un significato convenzionale, di solito viene
usato come equivalente di un’anticipazione del
momento della morte ottenuta attraverso un intervento
diretto del medico o di altre persone. Su richiesta
della persona interessata ovviamente, altrimenti sarebbe
un vero e proprio omicidio. E’ di questo di cui
si discute e che nella fattispecie si è deliberato
in Olanda e anche in Belgio, su cui esiste una tradizione
anche in altri paesi, in forma differente, per esempio
attraverso il cosiddetto suicidio assistito.
Che differenza c’è tra eutanasia
e suicidio assistito?
La differenza è che per esempio nello stato
dell’Oregon il medico può prescrivere al
paziente la dose giusta di farmaci, ma è poi
il paziente che deve assumerla da sé: ecco perché
è suicidio assistito. Questo avviene anche in
Svizzera. Ma se usiamo il termine eutanasia così
come termine generico come tutto quello che può
avvenire alla fine della vita umana rischiamo di fare
una gran confusione e anche di indebolire altre questioni
sul quale tutto sommato c’è accordo, per
esempio evitare forme di accanimento terapeutico, che
avviene indipendentemente dalla questione dell’eutanasia
e può verificarsi in varie forme: per esempio
un trattamento che si riveli assolutamente futile dal
punto di vista dei suoi benefici, o i cui benefici sono
minimi o comunque sono compensati da effetti collaterali
molto pesanti. Finché è consapevole di
sé e discute con il medico, il paziente può
benissimo chiedere al dottore di rinunciare a un trattamento
di questo tipo.
Ma come è possibile stabilire cosa sia
realmente accanimento terapeutico?
Facciamo un esempio banale ma al limite: un vecchio
di novant’anni che soffre di una grave forma di
malattia tumorale a cui sopravviene una polmonite. Beh,
una volta si diceva che la polmonite è l’amica
degli anziani, perché non c’erano gli antibiotici
e li portava persone in età avanzata facilmente
e rapidamente alla morte. Oggi possiamo curare la polmonite,
perché abbiamo antibiotici efficaci. Il problema
morale che ci poniamo è: dobbiamo curarla? Se
il paziente ci chiede “lasciatemi morire in pace
per questa malattia”, dobbiamo soddisfare la sua
richiesta? È chiaro che non è un intervento
attivo, è una omissione. Ma la medicina moderna
ha un po’ indebolito la distinzione stessa tra
omettere e fare. E da questo nascono tutti i problemi
che ci troviamo di fronte, anche nel caso di Piergiorgio
Welbi.
Anche Veronesi ha posto l’accento sulla
distinzione tra eutanasia e testamento biologico…
Oltre a insegnare bioetica all’università
di Messina faccio parte della consulta di bioetica di
Milano: noi abbiamo lanciato molto prima di Veronesi,
almeno quindici anni fa, la prima forma Italiana di
testamento biologico. Si chiama Biocard e se un medico
sa che un paziente ha redatto la Biocard, o come propone
Veronesi un vero e proprio testamento di fronte al notaio,
già ora se vuole può tenerlo in considerazione
valutando se quello che il paziente ha chiesto è
ancora applicabile alla sua situazione, e così
via. Certo, pochi medici lo fanno, perché effettivamente
c’è in quest’area parecchia incertezza
sul piano giuridico e così i medici sono portati
ad attenersi alla strada più sicura. Una legge
sul testamento biologico creerebbe le condizioni che
possono, da un lato favorire la serenità con
cui il medico deve prendere queste decisioni, e dell’altro
dimostrare al paziente che il medico prende in considerazione
i desideri che egli ha espresso sul modo in cui vuole
essere trattato quando non può più comunicare
direttamente con chi lo ha in cura (quindi è
inconsapevole).
Perché secondo lei in Italia rispetto
a paesi del nord Europa c’è questa grande
difficoltà a legiferare in modo più chiaro,
un modo che potrebbe favorire il lavoro dei medici oltre
che aiutare i pazienti?
Purtroppo vedo che in Italia si continua ancora a ragionare
in termini di contrapposizione tra laici e cattolici,
come se per esempio nell’ambito delle religioni
non esistessero i protestanti. Per esempio il lavoro
che la tavola Valdese ha fatto sulle questioni etiche
alla fine della vita umana è un lavoro bellissimo
ed esemplare. Esistono anche altre religioni. Tutte
devono avere la possibilità di manifestare le
proprie convinzioni. Poi ovviamente sarà il legislatore
a decidere quale strada intraprendere. Ma in una società
laica democratica e pluralista, il compito del legislatore
in questa materia dovrebbe essere quello di stabilire
che ognuno di noi possa perseguire la sua personale
risposta alle questioni morali che riguardano la fine
della vita umana.
Siamo tutti rispettabili. I giornali hanno adottato
il sistema di contrapporre alle richieste di Piergiorgio
Welbi quelle di un’altra persona che nelle stesse
condizioni dica “io voglio vivere”: nessuno
lo obbligherà mai a chiedere la morte. Ma la
simmetria resta: mentre quest’ultimo può
chiedere di continuare a vivere, perché mai Piergiorgio
Welbi (che fino all’altro giorno ha resistito
sulla trincea di onorare la vita, ma che ora è
stanco) non può esaudire il suo desiderio di
chiudere la sua vicenda terrena nel modo che sia confacente
ai valori nei quali ha sempre creduto?
Come si può arrivare a una simile decisione
“serenamente”?
Piergiorgio non è un tipo depresso che appena
saputo della malattia si è arreso e si è
buttato in un letto. Forse addirittura si potrebbe dire
che ha vissuto una vita più intensa negli ultimi
anni, in cui la malattia faceva il suo percorso gravissimo
(è una malattia degenerativa), perché
ha cominciato a scrivere, a lavorare, a partecipare
alla vita pubblica, alla vita politica. Quindi ha avuto
una vita piena, adesso la malattia gli impedisce anche
questo, e Welbi non vuole restare lì su un letto,
per quanto curato amorevolmente dalla moglie, dai nipoti
e dagli altri familiari. Non vuole restare lì
finché la morte non sopraggiunga: questo solo
chiede.
Quali sono le sue convinzioni a riguardo?
Io personalmente sono favorevole all’eutanasia
intesa come intervento diretto, però non si deve
confondere l’eutanasia con il testamento biologico.
Per due anni ho lavorato al documento del comitato nazionale
sul testamento biologico che è uscito nel dicembre
del 2003. Il gruppo di lavoro che abbiamo coordinato
insieme al professor Salvatore Amato era di altissimo
livello. E ancora prima, nel 1995 avevo scritto un libro
nel quale cercavo di chiarire proprio queste distinzioni
fondamentali, sulla base della letteratura più
accurata.
In quali casi potrebbe essere utile un testamento
biologico? È un mezzo per impedire l’accanimento
terapeutico?
Tutti ricordano la signora di Catania che rifiutò
l’amputazione del piede nonostante i medici l’avvertissero
che rischiava di andare in cancrena e di morire. Questa
signora, che venne riconosciuta perfettamente consapevole
di sé, perfettamente al corrente delle eventuali
conseguenze, concluse: “Sia fatta la volontà
di Dio, ma io il piede lo voglio con me”. Nessuno
ha potuto obbligarla a subire quel trattamento, e non
sarebbe stato accanimento terapeutico, sarebbe stato
accanimento puro e semplice sulla persona e anche sulle
sue credenze, sui suoi valori. Ecco perché io
dico che spostare il discorso riguardo al testamento
biologico sul sì o no all’accanimento terapeutico
è fondamentalmente sbagliato. Si rischia di fare
una legge che non servirà assolutamente a nulla.
E in assenza di leggi, come ora?
Racconterò un episodio per capire meglio come
stanno le cose: una volta partecipai a una trasmissione
radiofonica con il giudice Norvio, che a quei tempi
presiedeva una commissione di grazia e giustizia per
la revisione del codice penale. Il giudice aveva lanciato
un’idea anche sul Corriere della Sera: mettere
una norma che riconoscesse le volontà anticipate.
Gli sembrava una cosa importante, e lo era. Io gli spiegai
che in realtà non ci sarebbe neanche bisogno
di una legge, perché citavo la convenzione di
Oviedo, che il nostro Parlamento ha ratificato, ed è
quindi parte del nostro ordinamento. Citavo il codice
medico deontologico, che la stessa Corte di Cassazione
riconosce essere il tipo di comportamento cui il medico
deve attenersi. E quindi gli dicevo: se un medico oggi
– erano 4 o 5 anni fa – si attenesse alle
volontà che il paziente gli ha comunicato, o
per iscritto o attraverso i parenti, non farebbe nulla
di sbagliato. Certo, rispose il giudice Norvio, ma a
suo rischio e pericolo, perché dal punto di vista
giuridico c’è ancora una larga incertezza
sul valore della volontà del paziente, anche
di quello competente in ambito sanitario. Ecco perché
i medici cercano di seguire la strada più sicura,
che però è quella più tormentosa
per il paziente.
Una legge che riconosca il valore giuridico delle direttive
anticipate, del testamento biologico, sarà una
legge che andrà non solo a favore dei pazienti,
ma anche a favore dei medici, perché li restituirà
quella tranquillità d’animo, quella serenità
per poter prendere delle decisioni. Decisioni che comunque
devono prendere, perché un medico non può
astenersi dal decidere se questo paziente deve essere
trattato o meno. E allora: che questa sua decisione
sia quanto più congrua possibile con i valori
del paziente io credo che sia una situazione preferibile
a quella in cui il medico decide da solo o solo attraverso
l’aiuto dei familiari.
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