308 - 26.10.06


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Eutanasia, una legge
che aiuti medici e pazienti

Demetrio Neri con
Sara Capogrossi Colognesi


Il dibattito sull’eutanasia aperto dalla lettera di Piergiorgio Welbi indirizzata al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha riacceso i riflettori su alcune proposte di legge che giacevano alle Camere e in Senato. “Sicuramente però c’è molta confusione in proposito”, avverte subito Demetrio Neri, professore di bioetica all’Università di Messina e membro della consulta di bioetica di Milano.

Eutanasia, una questione morale più che scientifica?

Esattamente. Qui però l’etimologia non ci aiuta molto, perché eutanasia vuol dire soltanto “dolce morte” che è quella che tutti ci auguriamo dal momento che morire è una necessità per tutti e quindi una morte che arrivi senza tante sofferenze, o per lo meno non con sofferenze insopportabili, è un tema antichissimo. Oggi questo termine ha assunto un significato convenzionale, di solito viene usato come equivalente di un’anticipazione del momento della morte ottenuta attraverso un intervento diretto del medico o di altre persone. Su richiesta della persona interessata ovviamente, altrimenti sarebbe un vero e proprio omicidio. E’ di questo di cui si discute e che nella fattispecie si è deliberato in Olanda e anche in Belgio, su cui esiste una tradizione anche in altri paesi, in forma differente, per esempio attraverso il cosiddetto suicidio assistito.

Che differenza c’è tra eutanasia e suicidio assistito?

La differenza è che per esempio nello stato dell’Oregon il medico può prescrivere al paziente la dose giusta di farmaci, ma è poi il paziente che deve assumerla da sé: ecco perché è suicidio assistito. Questo avviene anche in Svizzera. Ma se usiamo il termine eutanasia così come termine generico come tutto quello che può avvenire alla fine della vita umana rischiamo di fare una gran confusione e anche di indebolire altre questioni sul quale tutto sommato c’è accordo, per esempio evitare forme di accanimento terapeutico, che avviene indipendentemente dalla questione dell’eutanasia e può verificarsi in varie forme: per esempio un trattamento che si riveli assolutamente futile dal punto di vista dei suoi benefici, o i cui benefici sono minimi o comunque sono compensati da effetti collaterali molto pesanti. Finché è consapevole di sé e discute con il medico, il paziente può benissimo chiedere al dottore di rinunciare a un trattamento di questo tipo.

Ma come è possibile stabilire cosa sia realmente accanimento terapeutico?

Facciamo un esempio banale ma al limite: un vecchio di novant’anni che soffre di una grave forma di malattia tumorale a cui sopravviene una polmonite. Beh, una volta si diceva che la polmonite è l’amica degli anziani, perché non c’erano gli antibiotici e li portava persone in età avanzata facilmente e rapidamente alla morte. Oggi possiamo curare la polmonite, perché abbiamo antibiotici efficaci. Il problema morale che ci poniamo è: dobbiamo curarla? Se il paziente ci chiede “lasciatemi morire in pace per questa malattia”, dobbiamo soddisfare la sua richiesta? È chiaro che non è un intervento attivo, è una omissione. Ma la medicina moderna ha un po’ indebolito la distinzione stessa tra omettere e fare. E da questo nascono tutti i problemi che ci troviamo di fronte, anche nel caso di Piergiorgio Welbi.

Anche Veronesi ha posto l’accento sulla distinzione tra eutanasia e testamento biologico…

Oltre a insegnare bioetica all’università di Messina faccio parte della consulta di bioetica di Milano: noi abbiamo lanciato molto prima di Veronesi, almeno quindici anni fa, la prima forma Italiana di testamento biologico. Si chiama Biocard e se un medico sa che un paziente ha redatto la Biocard, o come propone Veronesi un vero e proprio testamento di fronte al notaio, già ora se vuole può tenerlo in considerazione valutando se quello che il paziente ha chiesto è ancora applicabile alla sua situazione, e così via. Certo, pochi medici lo fanno, perché effettivamente c’è in quest’area parecchia incertezza sul piano giuridico e così i medici sono portati ad attenersi alla strada più sicura. Una legge sul testamento biologico creerebbe le condizioni che possono, da un lato favorire la serenità con cui il medico deve prendere queste decisioni, e dell’altro dimostrare al paziente che il medico prende in considerazione i desideri che egli ha espresso sul modo in cui vuole essere trattato quando non può più comunicare direttamente con chi lo ha in cura (quindi è inconsapevole).

Perché secondo lei in Italia rispetto a paesi del nord Europa c’è questa grande difficoltà a legiferare in modo più chiaro, un modo che potrebbe favorire il lavoro dei medici oltre che aiutare i pazienti?

Purtroppo vedo che in Italia si continua ancora a ragionare in termini di contrapposizione tra laici e cattolici, come se per esempio nell’ambito delle religioni non esistessero i protestanti. Per esempio il lavoro che la tavola Valdese ha fatto sulle questioni etiche alla fine della vita umana è un lavoro bellissimo ed esemplare. Esistono anche altre religioni. Tutte devono avere la possibilità di manifestare le proprie convinzioni. Poi ovviamente sarà il legislatore a decidere quale strada intraprendere. Ma in una società laica democratica e pluralista, il compito del legislatore in questa materia dovrebbe essere quello di stabilire che ognuno di noi possa perseguire la sua personale risposta alle questioni morali che riguardano la fine della vita umana.
Siamo tutti rispettabili. I giornali hanno adottato il sistema di contrapporre alle richieste di Piergiorgio Welbi quelle di un’altra persona che nelle stesse condizioni dica “io voglio vivere”: nessuno lo obbligherà mai a chiedere la morte. Ma la simmetria resta: mentre quest’ultimo può chiedere di continuare a vivere, perché mai Piergiorgio Welbi (che fino all’altro giorno ha resistito sulla trincea di onorare la vita, ma che ora è stanco) non può esaudire il suo desiderio di chiudere la sua vicenda terrena nel modo che sia confacente ai valori nei quali ha sempre creduto?

Come si può arrivare a una simile decisione “serenamente”?

Piergiorgio non è un tipo depresso che appena saputo della malattia si è arreso e si è buttato in un letto. Forse addirittura si potrebbe dire che ha vissuto una vita più intensa negli ultimi anni, in cui la malattia faceva il suo percorso gravissimo (è una malattia degenerativa), perché ha cominciato a scrivere, a lavorare, a partecipare alla vita pubblica, alla vita politica. Quindi ha avuto una vita piena, adesso la malattia gli impedisce anche questo, e Welbi non vuole restare lì su un letto, per quanto curato amorevolmente dalla moglie, dai nipoti e dagli altri familiari. Non vuole restare lì finché la morte non sopraggiunga: questo solo chiede.

Quali sono le sue convinzioni a riguardo?

Io personalmente sono favorevole all’eutanasia intesa come intervento diretto, però non si deve confondere l’eutanasia con il testamento biologico. Per due anni ho lavorato al documento del comitato nazionale sul testamento biologico che è uscito nel dicembre del 2003. Il gruppo di lavoro che abbiamo coordinato insieme al professor Salvatore Amato era di altissimo livello. E ancora prima, nel 1995 avevo scritto un libro nel quale cercavo di chiarire proprio queste distinzioni fondamentali, sulla base della letteratura più accurata.

In quali casi potrebbe essere utile un testamento biologico? È un mezzo per impedire l’accanimento terapeutico?

Tutti ricordano la signora di Catania che rifiutò l’amputazione del piede nonostante i medici l’avvertissero che rischiava di andare in cancrena e di morire. Questa signora, che venne riconosciuta perfettamente consapevole di sé, perfettamente al corrente delle eventuali conseguenze, concluse: “Sia fatta la volontà di Dio, ma io il piede lo voglio con me”. Nessuno ha potuto obbligarla a subire quel trattamento, e non sarebbe stato accanimento terapeutico, sarebbe stato accanimento puro e semplice sulla persona e anche sulle sue credenze, sui suoi valori. Ecco perché io dico che spostare il discorso riguardo al testamento biologico sul sì o no all’accanimento terapeutico è fondamentalmente sbagliato. Si rischia di fare una legge che non servirà assolutamente a nulla.

E in assenza di leggi, come ora?

Racconterò un episodio per capire meglio come stanno le cose: una volta partecipai a una trasmissione radiofonica con il giudice Norvio, che a quei tempi presiedeva una commissione di grazia e giustizia per la revisione del codice penale. Il giudice aveva lanciato un’idea anche sul Corriere della Sera: mettere una norma che riconoscesse le volontà anticipate. Gli sembrava una cosa importante, e lo era. Io gli spiegai che in realtà non ci sarebbe neanche bisogno di una legge, perché citavo la convenzione di Oviedo, che il nostro Parlamento ha ratificato, ed è quindi parte del nostro ordinamento. Citavo il codice medico deontologico, che la stessa Corte di Cassazione riconosce essere il tipo di comportamento cui il medico deve attenersi. E quindi gli dicevo: se un medico oggi – erano 4 o 5 anni fa – si attenesse alle volontà che il paziente gli ha comunicato, o per iscritto o attraverso i parenti, non farebbe nulla di sbagliato. Certo, rispose il giudice Norvio, ma a suo rischio e pericolo, perché dal punto di vista giuridico c’è ancora una larga incertezza sul valore della volontà del paziente, anche di quello competente in ambito sanitario. Ecco perché i medici cercano di seguire la strada più sicura, che però è quella più tormentosa per il paziente.
Una legge che riconosca il valore giuridico delle direttive anticipate, del testamento biologico, sarà una legge che andrà non solo a favore dei pazienti, ma anche a favore dei medici, perché li restituirà quella tranquillità d’animo, quella serenità per poter prendere delle decisioni. Decisioni che comunque devono prendere, perché un medico non può astenersi dal decidere se questo paziente deve essere trattato o meno. E allora: che questa sua decisione sia quanto più congrua possibile con i valori del paziente io credo che sia una situazione preferibile a quella in cui il medico decide da solo o solo attraverso l’aiuto dei familiari.

 



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