Dal sito Ulivo.it,
proponiamo la relazione del prof. Roberto Gualtieri
al seminario "Per il Partito Democratico"
svolto a Orvieto il 6 e 7 ottobre 2006.
Ragionare sull’identità del Partito democratico
significa individuare i compiti che deve affrontare,
la funzione che è chiamato ad assolvere. La sfida
entro cui collocare il nostro ragionamento è
il rinnovamento della democrazia di fronte ai colossali
mutamenti che si sono innescati a partire dagli anni
settanta e che sono comunemente definiti con il concetto
di globalizzazione: la liberalizzazione dei movimenti
di capitale, che ne ha indotto l’incremento esponenziale
al di fuori del controllo degli stati; l’ascesa
di nuovi protagonisti economici e politici soprattutto
in Asia e l’affermazione di una nuova divisione
internazionale del lavoro accompagnata da un poderoso
ciclo di innovazione tecnologica; la crescente terziarizzazione
delle società occidentali e l’emergere
di soggettività e bisogni inediti; l’irrompere
sulla scena mondiale di popoli e culture differenti.
Tali mutamenti hanno minato i fondamenti della democrazia
a base statal-nazionale. Da un lato infatti le basi
sociali dei soggetti che ne avevano promosso lo sviluppo
sono state erose; dall’altra sono divenuti in
parte inefficaci gli strumenti - l’economia mista,
il keynesismo nazionale - con cui quei soggetti avevano
saputo creare un circolo virtuoso tra sviluppo ed equità,
realizzando una straordinaria “civilizzazione”
della società europea. Infine, la globalizzazione
ha travolto il vecchio sistema internazionale bipolare
entro cui la democrazia aveva potuto prosperare in Europa
occidentale, senza che sulle macerie del muro di Berlino
nascesse un nuovo ordine mondiale capace di assicurare
pace, sicurezza e sviluppo sostenibile.
Di fronte a mutamenti di questa portata, tutte le culture
politiche del novecento sono impegnate in un profondo
ripensamento. I protagonisti della democrazia sociale
postbellica – i cattolici democratici, i socialisti,
i liberaldemocratici – si misurano non da oggi
con le sfide inedite della democrazia contemporanea
per delineare una nuova configurazione del riformismo,
ridefinendone obiettivi e strumenti. E’ un processo
che in Europa investe la natura e il profilo stesso
delle grandi famiglie politiche, e i caratteri di un’articolazione
dei diversi sistemi politici nazionali che non appare
ancora in grado di offrire una solida guida alla società
europea ed alla sua integrazione politica.
In Italia questo compito è particolarmente urgente,
perché le modalità drammatiche con cui
è precipitata la crisi del vecchio sistema politico
hanno reso più acuto che altrove il problema
della debolezza della democrazia e dei suoi soggetti.
La sfida che abbiamo davanti è ben più
impegnativa che rimediare ai danni prodotti nell’ultimo
quinquennio. I mali di cui soffre l’Italia sono
più profondi, e la stessa anomalia della destra
italiana ne è un sintomo assai più che
una causa. Alla radice della crisi del paese vi è
il drammatico deficit di politica che ha caratterizzato
l’epilogo della “prima repubblica”
e la successiva interminabile transizione, e che si
manifesta nell’assenza di grandi partiti.
La sconfitta del centrodestra e la bella vittoria del
no al referendum costituzionale inducono a pensare che
la lunga stagione dell’antipolitica, che ha fatto
velo alla realtà di un drammatico declino dell’Italia,
sia giunta al capolinea. Esiste nel paese una forte
domanda di democrazia, ossia di una politica forte ma
dotata di “misura”, capace di favorire e
organizzare la partecipazione dei cittadini ed allo
stesso tempo di definire ed indicare una direzione di
marcia, una prospettiva, un orizzonte. E’ un’esigenza
che viene d’altronde corroborata dalla percezione
che anche sul terreno internazionale siamo dinanzi ad
un cambiamento di fase. Sono infatti in crisi le due
principali culture politiche che, variamente combinate
tra loro, hanno dominato la prima fase dell’epoca
della globalizzazione: l’idea di una fine della
storia che imporrebbe di adeguarsi agli imperativi di
un mercato globale considerato di per sé in grado
di produrre benessere e pace; e l’idea che i processi
mondiali possano essere decifrati con gli strumenti
della geopolitica o interpretati come “scontro
di civiltà”, e che implica un ritorno alla
logica amico emico, al ripiegamento identitario, al
protezionismo, alla guerra. Tali visioni, e le politiche
che da esse hanno tratto ispirazione, si sono dimostrate
drammaticamente inadeguate a comprendere il mondo di
oggi, a governare i suoi conflitti, al punto da imporre
a tutti, ce lo dicono le cronache di questi mesi, un
ripensamento e la ricerca di strade nuove per la politica.
Sono quindi le grandi cose del mondo e le vicende del
nostro paese che ci parlano della necessità e
della possibilità di dare vita in Italia a un
grande Partito democratico, e che ci impongono di costruire
non un nuovo partito ma un partito nuovo, cioè
una forza capace di interpretare le novità della
nostra epoca e di cogliere le opportunità della
fase che si sta aprendo.
Questo progetto nasce dall’Ulivo, che fin dal
1995 si è configurato come l’embrione di
un possibile nuovo soggetto politico, e che con il successo
della lista unitaria e la formazione dei gruppi parlamentari
unici ha compiuto già una parte significativa
del cammino verso il Partito democratico. Le profonde
divisioni sociali (divisione tra classe operaia e ceto
medio), culturali (incomunicabilità ideologica
tra movimento socialista e cattolicesimo politico) internazionali
(guerra fredda) e politiche (presenza di un forte partito
comunista con le caratteristiche del Pci) che avevano
dato forma al sistema politico della “prima repubblica”
e alla divisione dei riformisti sono venute meno. C’è
nel paese un’unità profonda tra gli elettori
dell’Ulivo che costituisce la potenziale base
per un nuovo partito, mentre l’esperienza delle
primarie ha dimostrato l’esistenza di una forte
spinta alla partecipazione che va oltre il perimetro
dei partiti esistenti. Perché questo processo
giunga a compimento occorre però affrontare un
nodo ineludibile, la cui importanza è persino
superiore a quella delle regole e delle tappe del processo
unitario: il nodo della cultura politica. Se vorrà
essere un organismo vitale e duraturo, il Partito democratico
dovrà infatti affondare le sue radici in una
nuova cultura politica, ossia definire una propria visione
del paese e dei processi internazionali, affrontare
la questione dei valori e dei principi, delineare un
“programma fondamentale”.
In questa ricerca non siamo soli e non partiamo da
zero. Lo sforzo di revisione e di elaborazione che vede
impegnate, non solo in Europa, le principali forze socialiste
e democratiche, fa intravedere i contorni di un nuovo
grande campo riformista che si caratterizza per l’incontro
tra culture politiche differenti. Il terreno di tale
incontro è una percezione della globalizzazione
che si fonda sul riconoscimento del destino comune del
genere umano nell’epoca dell’interdipendenza
e che per questo è profondamente diversa da quella
che caratterizza le forze conservatrici. E’ una
visione che riconosce e valorizza le straordinarie opportunità
che derivano dalla capacità della mondializzazione
del capitalismo di favorire lo sviluppo delle forze
produttive. E’ inoltre pienamente consapevole
sia dell’inadeguatezza di molti dei tradizionali
strumenti di regolazione dell’economia su base
nazionale, sia del ruolo importante che, nell’epoca
dell’economia della conoscenza, figure sociali
nuove legate al mondo dell’impresa, delle professioni,
dei servizi, della comunicazione, particolarmente sensibili
ai temi delle libertà economiche individuali,
devono avere in un blocco sociale democratico e riformista.
Allo stesso tempo, il riformismo considera l’assetto
del sistema politico, economico e finanziario internazionale
che ha preso forma a partire dagli anni novanta non
solo ingiusto, perché portatore di grandi asimmetrie
nella distribuzione della ricchezza, ma anche instabile,
poco efficiente e poco sicuro. Instabile perché
fondato su crescenti pericolosi squilibri finanziari,
come dimostra il livello del deficit corrente degli
Stati Uniti e la corrispondente sottovalutazione delle
monete dei paesi emergenti. Poco efficiente, perché
una distribuzione della ricchezza che penalizza il lavoro
rischia di comprimere la domanda globale, perché
nell’economia della conoscenza la mancanza di
coesione e di investimenti sul capitale umano e sociale
ostacola lo sviluppo, e perché la ricerca del
profitto immediato da parte degli intermediatori finanziari
globali molto spesso scoraggia gli investimenti produttivi
a lungo termine. Infine insicuro, perché l’unilateralismo
e l’idea della guerra come strumento per l’“esportazione”
della democrazia si sono dimostrati inadeguati a risolvere
i conflitti e ad affrontare la minaccia del terrorismo,
e perché l’assenza di un governo democratico
dello sviluppo accentua le minacce per l’ecosistema.
La globalizzazione non è dunque politicamente
neutra e le sue forme, profondamente segnate fino ad
oggi dalla rivoluzione neoconservatrice e dall’unilateralismo,
sono ora finalmente in discussione. Essa non pone insomma
solo problemi di competitività a cui adeguarsi,
ma costituisce anche un terreno di lotta politica e
di iniziativa per affermare un diverso modello di regolazione
dell’economia e delle relazioni internazionali.
Per questo, la politica democratica deve oggi collocarsi
oltre la dimensione dello stato nazionale e delle sue
istituzioni, entro le quali essa è stata sinora
pensata e praticata. Da un lato, superando le tradizionali
visioni della politica internazionale fondate sulla
coppia amico emico, e facendo scaturire dai principi
di unità del genere umano e di interdipendenza
la necessità di concepire l’azione politica
in una dimensione globale e di rafforzare il tessuto
delle istituzioni internazionali. Dall’altro valorizzando
in forme nuove la sfera della società civile:
non solo come il terreno entro cui si svolge il conflitto
tra gli attori del mercato e la competizione per il
governo delle istituzioni dello stato, ma come un ambito,
definito dall’incontro tra l’etica e la
politica e strutturato intorno ai suoi corpi intermedi
e alle sue culture, che costituisce una dimensione fondamentale
della democrazia.
Questa idea della democrazia presuppone un robusto
fondamento etico all’azione politica. Ciò
rimanda ai grandi principi, elaborati dal liberalismo,
dal socialismo e dal pensiero cristiano, che sono alla
base del processo di integrazione e del modello sociale
europeo: la libertà, la giustizia e la solidarietà,
che vengono declinati e combinati in forme in parte
nuove. La libertà da interventi e costrizioni
esterne, ma anche intesa come l’effettiva capacità
delle donne e degli uomini di costruire la propria esistenza;
la giustizia come eguaglianza di opportunità
e diritti della persona; la solidarietà come
impegno per il bene comune, divengono infatti, ancor
più che in passato, principi reciprocamente necessari.
Nel loro inscindibile intreccio, essi connotano la democrazia
non solo come una procedura ma come sforzo per la promozione
della piena libertà della persona umana. E ciò
sulla base di un’impostazione che supera ogni
economicismo e riduzionismo sociologico mettendo al
centro la persona come soggetto irripetibile, ma che
respinge la visione utilitaristica che concepisce gli
esseri umani come meri massimizzatori di interessi individuali,
e considera l’individuo una persona sociale, attore
consapevole dei grandi processi politici che attraversano
il mondo contemporaneo.
Questa visione della globalizzazione e i principi regolativi
che da essa originano stanno generando le idee fondamentali
di un nuovo riformismo. In Europa gli esiti di tale
esperienza coincidono in gran parte con gli obiettivi
e i percorsi stessi del processo di integrazione. In
virtù dei suoi valori fondativi, del suo modello
sociale, del metodo e delle istituzioni su cui si basa,
l’Unione europea prefigura infatti un’inedita
“potenza civile”, che può essere
protagonista dell’edificazione di un nuovo sistema
mondiale multilaterale e democratico, promuovendo una
visione più umana e più efficiente del
“governo del mondo”. Per far ciò,
l’Europa deve però trovare la strada per
un governo unitario del proprio sviluppo e della propria
azione internazionale: deve raggiungere una dimensione
compiutamente politica. Ciò presuppone un rinnovamento
della politica europea e dei suoi soggetti, che punti
a colmare il vero e proprio “vuoto di egemonia”
che caratterizza la scena politica continentale, e che
sfida i riformismi europei a ripensare se stessi e ad
allargare i propri confini.
Il nuovo riformismo europeo si definisce perciò
per l’impegno a rilanciare il ruolo di attore
globale dell’Europa, a promuoverne l’unità
politica e ad affermare un modello di società
della conoscenza fondato sull’innovazione, sullo
sviluppo sostenibile e sulla coesione sociale. Esso
si caratterizza per un forte intreccio tra sussidiarietà
e solidarietà, che punta a rafforzare il coordinamento
delle politiche nazionali e l’autogoverno delle
comunità locali, e a promuovere lo sviluppo della
società civile europea valorizzandone i corpi
intermedi intorno ai principi della democrazia, del
dialogo interculturale, della partecipazione e dell’inclusione.
L’intera esperienza dell’Ulivo si colloca
in questo orizzonte, che è ora al centro dell’azione
del governo e costituisce il principale punto di riferimento
del “programma fondamentale” del Partito
democratico. Non è necessario in questa sede
analizzarne nel dettaglio i contenuti. Più utile
può essere mettere in luce la peculiare visione
dell’Italia che lo ispira e le sue linee di fondo,
per evidenziare le innovazioni che lo hanno sorretto.
Si tratta di un aspetto cruciale, perché se i
problemi e le sfide che il paese ha di fronte a sé
sono comuni al resto del continente, ed essi non possono
essere affrontati al di fuori del quadro europeo, il
modo in cui si presentano, la loro forma, rimanda invece
ai caratteri peculiari della vicenda storica nazionale.
Siamo quindi chiamati a tradurre in termini nazionali
la sfida europea e al tempo stesso a “europeizzare”
il problema italiano, e ciò, come vedremo, riguarda
sia la dimensione programmatica, sia quella della cultura
politica e della natura stessa del nuovo soggetto riformista.
La crisi del paese si manifesta in una molteplicità
di fratture sociali, territoriali, generazionali, di
genere, e in una frantumazione localista e corporativa
che lacera il tessuto della nazione e genera una conflittualità
endemica, rendendo l’Italia vulnerabile al richiamo
del populismo e mettendone in discussione la stessa
unità. Tali fratture si sono accentuate in modo
preoccupante dagli anni settanta, quando è iniziato
il declino dell’economia italiana e del suo ruolo
nella divisione internazionale del lavoro. Fu allora
che i due pilastri dello sviluppo del paese, l’economia
pubblica e il capitalismo familiare, persero la loro
capacità di svolgere una funzione propulsiva.
Il sistema delle piccole e medie imprese, che da allora
in poi si è fortemente sviluppato, è stato
a lungo ritenuto in grado di assumere il ruolo di “motore”
della crescita del paese, ma di fronte alla sfida delle
nuove economie emergenti risulta ormai chiaro che esso,
pur costituendo una risorsa straordinaria, non è
sufficiente ad arrestare il declino dell’Italia.
Quella che è in atto quindi è una vera
e propria crisi del capitalismo italiano e del modello
di sviluppo del paese, ma essa non è una crisi
solo economica, bensì anche politica, culturale
e morale: è una crisi di classi dirigenti.
Essa affonda le sue radici nel venir meno delle condizioni
interne e internazionali del compromesso economico,
territoriale, politico e istituzionale che aveva garantito
per decenni il progresso del paese e la sua europeizzazione.
Di fronte a ciò, le culture politiche italiane
non hanno saputo rinnovarsi per tempo e guidare il processo
di modernizzazione che la “repubblica dei partiti”
aveva saputo promuovere. Questa sconfitta della politica
ha reso più traumatico che nel resto d’Europa
l’impatto della globalizzazione, e ha indebolito
la capacità dell’Italia di adattarsi ai
mutamenti della competizione internazionale. Ciò
a sua volta ha determinato lo smarrimento della capacità
del paese di pensare autonomamente se stesso, la propria
storia, i propri destini. Dietro l’apparenza di
un’acculturazione di massa, è maturata
una frattura tra intellettuali e popolo che ha visto
il declino delle istituzioni formative e dell’industria
culturale, e la trasformazione della cultura in intrattenimento
e veicolo passivo della società dei consumi.
In questo quadro, il tessuto etico e politico della
nazione si è inaridito, fino al punto di mettere
in discussione l’unità degli italiani e
il rispetto della legalità come principio elementare
di convivenza.
Il Partito democratico nasce intorno alla consapevolezza
che il paese ha bisogno di una guida politica. Una guida
capace di coinvolgere, intorno a una rinnovata idea
dell’Italia, le migliori energie del paese in
uno sforzo collettivo analogo a quello che nel secondo
dopoguerra animò la ricostruzione e l’edificazione
della democrazia. Porre il problema della nazione italiana
su basi nuove significa avere una percezione realistica
dei problemi del paese, ma anche delle sue grandi opportunità
e responsabilità. Le opportunità che derivano
dalle sue straordinarie risorse culturali e ambientali,
dal genio del lavoro e dell’impresa italiani,
dal ruolo che l’Italia ha di ponte tra l’Europa
ed un continente asiatico che, dopo cinque secoli di
ripiegamento, torna ad essere un protagonista dell’economia
mondiale; le responsabilità che discendono dalla
sua peculiare natura di centro mondiale della cristianità.
L’elaborazione e l’esperienza di governo
dell’Ulivo delineano i contorni di un programma
all’altezza di tali ambizioni, che punta a ricucire
il tessuto nazionale e a rilanciare la missione dell’Italia
nel mondo. Il punto di partenza è che l’interesse
europeo e quello italiano in buona misura coincidono,
ossia che i problemi fondamentali del paese possono
essere avviati a soluzione solo se progredisce l’unità
politica dell’Europa. D’altronde l’Ulivo
nasce non a caso dall’unione dei diversi filoni
dell’europeismo italiano, e ha fatto della politica
europea il terreno qualificante della propria azione
politica. La nuova politica estera italiana è
caratterizzata infatti dall’impegno per la definizione
di un interesse comune europeo e per l’affermazione
dell’Europa sui grandi temi dell’agenda
internazionale, a cominciare dal problema mediorientale.
L’obiettivo è il rilancio del multilateralismo
e di un “governo sussidiario dell’ordine
mondiale” che dia efficacia e legittimità
all’azione della comunità internazionale
valorizzando la dimensione regionale nel quadro di una
rinnovata centralità delle Nazioni Unite. Si
tratta di un’impostazione che, di fronte ai limiti
dell’unilateralismo e ai fallimenti della nuova
dottrina statunitense di sicurezza nazionale, può
essere vista dagli stessi Stati Uniti come un’opportunità
per costruire un partenariato euro-atlantico più
efficace di quello basato sulla coalizione dei “volenterosi”.
Allo stesso tempo, essa consente uno sviluppo di quel
dialogo interregionale nei confronti dell’Asia,
dell’America latina, dell’Africa e dei paesi
del Mediterraneo, che è reso indispensabile dal
carattere sempre più multipolare del sistema
internazionale e dal rischio di uno spostamento dell’asse
dello sviluppo mondiale nel Pacifico intorno alla cosiddetta
“nuova Bretton Woods” tra Stati Uniti e
Cina.
Contribuire a rendere l’Europa un attore globale
significa quindi affrontare sia le questioni della pace
e della sicurezza, che quelle riguardanti la collocazione
del nostro paese nella divisione internazionale del
lavoro. Nel contempo, l’avanzamento del processo
di integrazione e la definizione di una politica economica
europea comune costituiscono le condizioni per affrontare
i problemi della competitività nella prospettiva
dello sviluppo. La disciplina dell’unione economica
e monetaria è essenziale non solo per evitare
una drammatica crisi finanziaria ma anche per superare
il “circolo vizioso della rendita” affermatosi
negli anni ottanta e liberare risorse per gli investimenti.
Allo stesso tempo, la decisa politica riformatrice che
deve affiancarsi all’azione di risanamento può
avere efficacia solo se saprà affrontare la specificità
dei problemi dell’economia italiana in modo coerente
con gli indirizzi di Lisbona, nel quadro di un più
efficace coordinamento europeo delle politiche economiche
e della realizzazione di grandi programmi europei di
investimento nella ricerca, nell’innovazione,
nel potenziamento delle imprese strategiche e nelle
infrastrutture.
L’azione del governo si colloca pienamente in
questo orizzonte. Preso atto dei limiti della retorica
del “piccolo è bello” e della “centralità
dell’impresa”, che aveva condizionato il
discorso pubblico anche a sinistra negli anni novanta,
l’obiettivo principale è infatti quello
di far crescere le imprese, spostarle verso l’economia
dell’informazione ed affermare la logica dell’investimento
industriale rispetto a quello finanziario approfittando
delle opportunità di internazionalizzazione finanziaria
create dall’Uem e della nascita di grandi attori
bancari di dimensioni finalmente europee. Ossia di promuovere
una riforma del capitalismo italiano ed una sua europeizzazione
da un lato con l’introduzione di una maggiore
“concorrenza regolata” nei mercati e spostando
risorse dalla rendita al lavoro e agli investimenti,
e dall’altro attraverso una nuova politica industriale
fondata sulla riqualificazione dell’intervento
pubblico verso le grandi reti infrastrutturali ed i
settori emergenti.
Un analogo mutamento di paradigma, a un tempo più
“nazionale” e più europeo, riguarda
il problema del Mezzogiorno, che dopo una lunga eclissi
della nozione stessa di “questione meridionale”
viene finalmente concepito come una grande macroregione
che ha bisogno di più mercato, sicurezza e regole
certe, e di un impegno politico ed economico straordinario
per farne la piattaforma logistica e commerciale dell’Europa
nel Mediterraneo. Anche la realizzazione di un nuovo
patto sociale più equo socialmente e generazionalmente
e più capace di promuovere lo sviluppo passa
per una maggiore europeizzazione del welfare, che disegni
una nuova idea della cittadinanza e di accompagnamento
della vita attiva capace di conciliare flessibilità
e sicurezza, di coinvolgere di più le comunità
locali e la società civile, di puntare all’inclusione
dei lavoratori immigrati nel circuito della rappresentanza
e dei diritti politici e sociali.
Tali obiettivi si collocano in uno scenario europeo
ma presuppongono la ricostruzione di una statualità
condivisa. Ciò impone una riflessione critica
sulle riforme elettorali, costituzionali e amministrative
del decennio passato. Impostare il tema delle riforme
elettorali e costituzionali nella prospettiva di una
nuova democrazia dei partiti fondata sull’alternanza,
costituisce senza dubbio una grande sfida politica e
culturale. Essa si collega all’esigenza (emersa
anche nel seminario di Frascati dei gruppi parlamentari
dell’Ulivo) di promuovere un riequilibrio tra
rappresentanza e decisione per temperare gli eccessi
di leaderismo emersi nel corso degli anni novanta. Per
quanto riguarda il federalismo, rimediare alla insufficienza
del modello funzionalista di integrazione europea e
della connessa idea dell’“Europa delle regioni”,
non significa certo rinunciare alla sussidiarietà
e alla valorizzazione dei territori. Ma ciò richiede
da un lato un più forte inquadramento del sistema
delle autonomia nella cornice dell’interesse nazionale,
e dall’altro una migliore applicazione del principio
di responsabilità, basata su un qualche tipo
“sussidiarietà fiscale” che colleghi
in modo più trasparente e diretto l’erogazione
dei servizi alla corrispettiva tassazione. Infine, è
urgente una riflessione sull’effetto che un meccanismo
dell’alternanza fondato su partiti deboli e privo
di solidi contrappesi istituzionali sta avendo sulla
pubblica amministrazione, innescando in diversi ambiti
un sistema di “spoil system cumulativo”
che ne aggrava i costi, ne riduce l’efficienza
e la terzietà, e incentiva la tendenza a utilizzarla
come strumento per la retribuzione di funzioni parapolitiche.
Sono sfide ambiziose. Per affrontarle e vincerle un
buon governo e delle buone leggi sono essenziali, ma
non bastano. Lo abbiamo già sperimentato negli
anni passati: il riformismo dall’alto, il riformismo
senza partiti, non riesce ad affermarsi. Il riformismo
di governo ha bisogno di una grande forza politica in
grado di sostenere le riforme e di suscitare un moto
profondo di partecipazione democratica intorno a un
ambizioso disegno di riscossa nazionale. Questa forza
può essere il Partito democratico, che si configura
quindi come partito della democrazia. Un partito di
governo, che sappia interpretare l’interesse generale
e ponga fine a quella scissione tra premiership e leadership
che ha a lungo segnato la politica italiana. Un partito
popolare e non una rete di comitati elettorali: cioè
una forza aperta alla società, radicata nel territorio,
capace di rappresentare e dare voce ai bisogni e alle
aspirazioni innanzitutto dei più deboli, costantemente
impegnata a rendere partecipati e condivisi i processi
di riforma. Un partito capace di contribuire al rinnovamento
della cultura e delle strategie delle organizzazioni
di interesse, perché siano costantemente capaci
di aggiornare la loro visione dell’interesse generale.
Un partito di donne e di uomini, che riconosce le differenze
di genere, promuove la libertà femminile, lavora
per rafforzare il ruolo delle donne nella società
e nella politica. Un partito né burocratico né
leaderistico, ma plurale e democratico nella definizione
dei programmi, nella scelta dei dirigenti, nella impostazione
dell’azione politica. Un partito nazionale ed
europeo, cioè radicato nella storia del paese
e capace di interpretarne l’unità e gli
interessi nel quadro della costruzione dell’unità
politica dell’Europa. Un partito infine culturalmente
attrezzato e dotato di una forte carica etica, che si
ponga l’obiettivo di contribuire al rilancio dell’intelligenza
italiana e alla ricomposizione del tessuto civile della
nazione, che promuova e alimenti una vera e propria
riforma intellettuale e morale.
Il primo aspetto di tale riforma riguarda il rinnovamento
della cultura italiana. La globalizzazione e l’integrazione
europea sfidano le culture nazionali a un rinnovamento
per inserirsi in modo non subalterno nelle grandi reti
transnazionali dei saperi e della circolazione delle
idee. Ciò richiede innanzitutto che si restituisca
qualità e spessore alla scuola, all’università,
alla ricerca, prendendo anche atto dei limiti di un’impostazione
troppo incentrata sul rapporto tra formazione e impresa
(che per le ragioni sopra esposte in Italia non poteva
che deprimere invece che stimolare la qualità
e l’eccellenza), e valorizzando invece di più
l’alta cultura e il merito. E al tempo stesso
s’impone il problema di un’industria culturale
soffocata dal carattere oligopolistico del mercato pubblicitario
e televisivo, così come quello di un giornalismo
mortificato da un assetto proprietario della grande
stampa che ne condiziona l’autonomia e il prestigio.
Tutto ciò è necessario e urgente, ma
non è sufficiente. Alla politica non spetta solo
il compito normativo di regolare sul piano delle leggi
e delle istituzioni l’industria culturale e il
mondo della ricerca e della formazione. Essa è
chiamata a partecipare al rinnovamento della cultura
nazionale sul terreno che le compete direttamente: l’elaborazione
di una nuova cultura politica. Una cultura pluralista,
capace di integrare le competenze delle diverse discipline,
di riconoscere il limite della politica e al tempo stesso
di innervare il discorso pubblico. Una cultura che aiuti
l’Italia ad avere una concezione di se stessa
più realistica e più alta di quella, egemone
tra i suoi gruppi intellettuali, che ha sempre motivato
la diffidenza verso ogni allargamento delle basi della
democrazia e l’ostilità per i soggetti
che la promuovono sulla base dell’idea di una
comunità nazionale irrimediabilmente attardata
rispetto alle grandi nazioni europee perché priva
dell’eredità della riforma protestante,
del senso dello stato e dell’etica pubblica.
Quanto fin qui esposto credo metta in evidenza come
le analisi e i programmi maturati attraverso l’esperienza
dell’Ulivo, così come i principi e i valori
che li ispirano, contengono i semi di una nuova cultura
democratica. Affinché essa possa svilupparsi
è però necessario misurarsi con il tema
della visione del passato, che della cultura politica
dei partiti costituisce uno dei principali fondamenti.
Una delle ragioni dei limiti e del carattere incompiuto
della transizione italiana risiede proprio nell’inadeguatezza
dell’interpretazione della storia del paese (“cinquant’anni
di partitocrazia”) e del Novecento (“il
secolo delle ideologie e dei totalitarismi”) su
cui si è basata la cultura politica della “seconda
repubblica”. Oltre a condizionare ricette che
hanno spesso aggravato anziché guarire i mali
del paese, tale visione demonizzante della storia della
prima repubblica e l’ostinata volontà di
farne “tabula rasa” ha prodotto l’esito
opposto, tipico di ogni tentativo di rimozione del passato,
di impedire una compiuta elaborazione di quell’esperienza
e un effettivo superamento di molti dei suoi aspetti
più caduchi. Ciò ha favorito il protrarsi
di un’interminabile transizione, in cui il passato
riaffiora costantemente nella vita pubblica non già
come un patrimonio di esperienze da cui attingere l’eredità
migliore, quanto piuttosto come un “morto che
afferra il vivo” e gli impedisce di crescere e
di svilupparsi. Se vorrà essere solida e duratura,
l’innovazione politica e culturale che il nuovo
partito deve promuovere dovrà dunque poggiare
su una seria rielaborazione della vicenda storica italiana
ed internazionale, e su uno sforzo coraggioso di revisione
condivisa che non disperda ma rinnovi il patrimonio
culturale della democrazia italiana.
D’altronde, la visione del paese che ispira il
programma dell’Ulivo e la stessa idea dell’unità
dei riformismi presuppongono già un diverso modo
di guardare al passato, che non elimina la pluralità
di giudizi e interpretazioni, e contiene alcuni elementi
comuni. Essi possono essere sintetizzati nella consapevolezza
che un partito utile per il paese deve avere solide
radici nell’esperienza storica della democrazia
italiana e dei suoi diversi protagonisti, ma che le
eredità delle differenti culture politiche che
hanno animato la storia del riformismo italiano (il
riformismo cattolico-democratico, il “riformismo
di fatto” del Pci, il riformismo socialista, quello
liberal-democratico, così come le culture che
hanno già contribuito al rinnovamento di quelle
tradizioni arricchendone la sensibilità sui temi
della libertà femminile, della pace, dei diritti,
dell’ambientalismo) sono ciascuna necessaria e
nessuna sufficiente a fornire la base per l’elaborazione
di una nuova cultura democratica. Ciò rimanda
a uno specifico tratto distintivo dell’esperienza
storica repubblicana, che ha visto tra i principali
protagonisti della vita politica due partiti peculiari
come la Dc e il Pci, più “adatti”
di altri a promuovere il radicamento della democrazia
in un paese arretrato e in cui era mancata una nazionalizzazione
progressiva delle masse. Di qui la forma specifica di
un sistema politico privo di una grande forza socialdemocratica,
in cui il riformismo di governo della Dc ha convissuto
con le correnti conservatrici nel quadro dell’unità
politica dei cattolici, il Pci ha dato vita a un originale
intreccio di riformismo e massimalismo che ne fece un
attore di primo piano della costruzione della democrazia
e stimolò le forze di governo riformatrici, ma
che per i suoi legami internazionali non seppe mai costruire
l’approdo dell’alternativa, mentre il Psi
ha interpretato un riformismo per tanti aspetti moderno
ed efficiente ma socialmente minoritario e politicamente
fragile. Infine, l’insufficiente o il tardivo
rinnovamento dei grandi partiti ha allontanato da essi
una parte significativa della borghesia e dei ceti intellettuali
di ispirazione liberal-democratica, che hanno esercitato
la loro influenza prevalentemente al di fuori dei partiti.
E’ un’eredità complessa. Per questo
la cultura politica del Partito democratico non potrà
basarsi su un affrettato tentativo di annullare le specificità
e l’autonomia di queste diverse tradizioni, ma
non potrà nemmeno scaturire dalla loro somma
e neppure dalla loro semplice sintesi. Ciascuna di esse
è chiamata innanzitutto a riflettere sulla propria
esperienza storica e a rinnovarsi, misurandosi con le
nuove sfide del presente. Contemporaneamente, è
importante che esse dialoghino tra di loro in modo approfondito,
per gettare le basi di una visione comune del paese,
dei suoi problemi e delle sue prospettive. In tale sforzo
di revisione e di elaborazione, ciascuna cultura potrà
trovare nel proprio patrimonio di idee le ragioni profonde
della sfida che ci accingiamo a intraprendere e dei
preziosi strumenti per poterla affrontare. Il Partito
democratico potrà così essere legittimamente
concepito come il luogo in cui perseguire l’ideale
socialista del progresso e della liberazione dell’uomo,
insieme a quello di un nuovo umanesimo e di una democrazia
dei cristiani. Ma allo stesso tempo, attraverso il dialogo
ognuno potrà scoprire nell’altro risorse
inattese, che si potrebbero rivelare indispensabili
per affrontare il compito di costruire la democrazia
nell’epoca dell’interdipendenza e della
globalizzazione. La concezione cristiana della persona,
della sussidiarietà, della responsabilità
sociale e della tutela della vita non rappresenta forse
un prezioso punto di riferimento anche per una sinistra
che di fronte allo sviluppo delle soggettività
è chiamata a superare ogni scoria di economicismo?
O ancora: ponendosi il compito di decifrare e riformare
un modello di sviluppo insostenibile e ingiusto, la
tradizione cattolico-democratica non potrà trovare
uno stimolo e un sostegno nella critica socialista delle
contraddizioni del capitalismo e nella visione della
politica come azione collettiva per trasformare la realtà?
Ed infine, la fortuna ormai decennale dell’esperienza
dell’Ulivo non ha saputo interpretare un’aspirazione
profonda di unità e di rinnovamento che sollecita
tutte le tradizioni storiche del riformismo italiano
a prendere atto dei propri limiti e delle proprie insufficienze,
e che richiama la necessità di un’innovazione
comune capace di coinvolgere soggetti, saperi e sensibilità
nuovi? L’elaborazione di una nuova cultura politica
non è quindi un compito banale, ma una sfida
appassionante ed inedita, che dovrà accompagnare
la nascita del Partito democratico e i cui esiti non
possono essere predeterminati.
Questa impostazione può aiutare ad impostare
su basi più solide anche la questione della collocazione
internazionale del nuovo partito, andando oltre i veti
incrociati e le pregiudiziali. Non c’è
dubbio che il Partito democratico si configura come
una forza pienamente inserita nel nuovo campo politico-ideale
democratico e riformista che sta prendendo forma nel
mondo. Ed è altrettanto indubitabile che in Europa
le forze organizzate nel Pse costituiscono la componente
principale, anche se non l’unica, di esso. Tra
queste ultime, figurano proprio i partiti socialisti
e socialdemocratici che con più decisione sono
stati e sono impegnati in un processo di rinnovamento
che li porti a superare alcuni dei limiti che negli
anni passati hanno contraddistinto il socialismo europeo.
Tuttavia il caso del Partito democratico italiano è
ancora differente, perché esso non rappresenta
la ristrutturazione, anche radicale, di un vecchio edificio,
bensì la costruzione di una nuova casa. La garanzia
del raggiungimento di tale obiettivo sta nel fatto che
il nuovo partito nasce dall’unione di soggetti
diversi, tutti dotati di pari dignità, tra i
quali la tradizione cattolico-democratica costituisce
una componente rilevante tanto quanto quella socialdemocratica
e quella liberaldemocratica. E lo è non solo
in virtù della sua consistenza numerica ed elettorale,
ma per ragioni profonde, che sono legate alla storia
del paese e che non vanno concepite come un’anomalia
da superare, bensì come un elemento distintivo
dell’identità italiana, che costituisce
una risorsa preziosa di fronte alla sfida della costruzione
della democrazia nel XXI secolo.
Sulla specificità del Partito democratico come
luogo dell’incontro dei socialisti e dei democratici,
non dovrebbe esservi quindi discussione. Altro è
però il problema, politico e non identitario,
dei collegamenti internazionali del nuovo partito e
dell’efficacia della sua azione in Europa e nel
mondo. Se è vero infatti che la progressiva formazione
di un nuovo campo delle forze democratiche e progressiste,
che trascende i tradizionali confini del socialismo
internazionale, sfida il Pse a ripensare se stesso,
allora è ragionevole auspicare che il Partito
democratico contribuisca in prima persona a questo processo,
ed è legittimo ritenere che la sua ispirazione
europeista ed internazionalista non potrà che
indurlo a evitare una scelta di isolamento. A sua volta,
ci piacerebbe che il Pse e le altre forze riformiste
europee cogliessero un’occasione così feconda
di apertura e di dialogo, che può, dall’Italia,
contribuire alla loro evoluzione, interloquendo fin
d’ora con il cimento che abbiamo intrapreso.
L’ultima questione che vorrei toccare riguarda
il rapporto tra etica e politica e tra religione e politica.
Il punto da cui partire è la consapevolezza che
il grande rinnovamento intellettuale di cui il paese
ha bisogno non potrà essere disgiunto da quello
morale. Se non vuole ridursi a semplice procedura o
rappresentanza di interessi, la democrazia deve essere
infatti innervata da forti motivazioni etiche, e ciò
impone di misurarsi con il tema di un orizzonte etico
condiviso e con la questione della laicità della
politica. E’ necessaria però una premessa
metodologica, che riguarda l’esigenza di considerare
l’etica e la politica come attività distinte,
ossia reciprocamente autonome anche se in rapporto tra
loro. E’ una distinzione importante, perché
la tendenza attualmente così diffusa a politicizzare
le questioni etiche o ad affrontare i problemi politici
con gli strumenti dell’etica costituisce un indicatore
allarmante di una duplice crisi, che investe sia la
sfera della politica che quella dell’etica. Evitare
commistioni improprie tra etica e politica è
quindi la prima condizione per misurarsi con il problema
vivissimo della decadenza morale del paese e della necessità
di un orizzonte etico condiviso.
Per farlo, credo sia importante partire da un duplice
presupposto. Da un lato, il riconoscimento che le energie
morali che scaturiscono dall’esperienza religiosa
costituiscono un alimento vitale per la democrazia soprattutto
di fronte alle nuove sfide che essa è chiamata
ad affrontare; dall’altro, la consapevolezza che,
per svolgere questo ruolo, la religione non può
che accettare pienamente la dimensione della laicità,
che è il terreno che ha reso viva la sua presenza
nel mondo contemporaneo. Ciò significa evitare,
da parte di tutti, il piano dell’etica normativa
e dei principi non negoziabili, che costituiscono un
patrimonio inviolabile degli individui, e muoversi sul
piano dell’etica condivisa. Un’etica del
lavoro e della responsabilità, che si concentra
sulle opere e sui progetti, un’etica della persona
e del dialogo, aperta al confronto fra tutte le posizioni
presenti nella comunità.
Tale approccio non riguarda solo la laicità
dello Stato (che peraltro è già regolata
in modo esemplare dalla Costituzione repubblicana),
ma consente di affrontare anche il problema della laicità
della politica, cioè del modo concreto di definire
il sistema di valori con cui un partito politico affronta,
nel suo agire, i problemi nuovi che sorgono dagli sviluppi
delle scienze e delle tecnologie, dall’espandersi
della convivenza multietnica e multireligiosa, dagli
sviluppi della sovranazionalità. Di fronte a
questioni di tale portata, l’etica condivisa può
consentire di realizzare non solo un reciproco riconoscimento
di principi, ma anche di affrontare la sfida dell’elaborazione
di una “tavola di valori” comuni a cattolici
e socialisti, credenti e non credenti, intorno ai quali
orientare la ricerca di soluzioni nuove ai problemi
della nostra epoca.
Anche per questo, la costruzione del Partito democratico
costituisce un’impresa appassionante e un laboratorio
prezioso, che può contribuire in modo originale
all’apertura di una nuova stagione della democrazia
e della libertà.
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