“In
Francia, un uomo politico che invocasse l’inviolabilità
della sua coscienza morale nel dibattito pubblico sarebbe
assai poco credibile”: così Jean-Yves Goffi,
docente di Filosofia all’Università Pierre
Mendès France di Grenoble e presidente della
Società per la filosofia della tecnica, critica
coloro che ritengono l’eutanasia una questione
da non risolvere pubblicamente, e auspica una legge
coraggiosa sul modello di quella olandese e belga. Goffi
è tra l’altro l’autore di un libro,
Pensare l’eutanasia, edito da Einaudi,
nel quale affronta i dilemmi morali che questo atto
– di compassione? di crudeltà? –
suscita.
Qualche settimana fa il presidente Napolitano
ha invitato il Parlamento ad aprire una discussione
sul tema dell’eutanasia. Come lei forse sa, in
Italia non abbiamo una legge specifica in merito, anche
se recentemente la coalizione di centrosinistra ha proposto
l’introduzione di un “testamento biologico”
attraverso cui dettare le proprie volontà. La
mia prima questione perciò è: ci deve
essere a suo avviso una legge su questo tema così
delicato?
Una legislazione relativa all’eutanasia esiste
già de facto: in Gran Bretagna, per
esempio, essa è illegale, assimilata all’assassinio
e punita con una pena che arriva fino a 14 anni di carcere.
In Francia, l’eutanasia cade sotto la giurisdizione
dell’articolo 221-1 del codice penale, che la
assimila ad un omicidio: chi la compie rischia fino
a 30 anni di carcere. Immagino quindi che lei mi stia
chiedendo se ci deve essere una legge che depenalizzi
l’eutanasia. Ebbene, secondo me sì. In
Europa, i Paesi Bassi e l’Olanda l’hanno
fatto, ponendo tuttavia dei vincoli assai stretti. I
“testamenti biologici” di cui lei parla
sono chiamati in francese directives anticipées,
in inglese living wills. La legge francese
del 22 aprile 2005 conferisce loro, sotto alcune condizioni,
uno statuto legale. Occorre però notare che questa
legge è relativa alla “fine della vita”,
che non corrisponde a tutti i casi di domanda d’eutanasia.
Lei crede che lo stato debba intervenire nella
vita individuale, impedendo ai medici di aiutare i loro
pazienti a morire? O, come sostengono i liberali, esso
dovrebbe salvaguardare la scelta personale di vivere
o morire?
Non sono sicuro che l’alternativa che lei propone
sia effettiva. A partire dal momento in cui esiste una
legislazione, anche liberale (o permissiva secondo alcuni),
ciò significa che lo stato interviene nelle scelte
individuali. In Svizzera, per esempio, dove il suicidio
assistito è legale, non si tratta semplicemente
di trovare un medico o un individuo che permetta a chi
ne ha voglia di uccidersi: bisogna che questo aiuto
sia conforme all’articolo 115 del Codice Penale
Svizzero. Un suicidio assistito è sempre seguito
dall’inchiesta di un Procuratore che cerca di
determinare se l’aiuto sia stato causato da motivi
egoisti.
In questo ambito, è assai difficile
operare distinzioni nette tra aspetti che appaiono legati.
Per esempio, che differenza c’è tra il
rifiuto dell’accanimento terapeutico e l’eutanasia
passiva? E tra eutanasia passiva e attiva?
La distinzione tra eutanasia attiva e passiva è
contestata, in particolare, da coloro che credono che
una interruzione terapeutica motivata dal rifiuto di
un accanimento non sia affatto un’eutanasia. Infatti,
occorre precisare che se un medico decide di lasciare
che “la natura segua il suo corso”, non
si può ancora qualificare la sua decisione in
un senso o in un altro. Certo, secondo un ragionamento
consequenzialista si potrebbe dire che si tratta certamente
di eutanasia (passiva), perché il risultato della
decisione è una morte che si sarebbe potuta evitare,
o quanto meno, differire. Ma in effetti ciò dipende
dall’intenzione di chi ha preso la decisione.
O, meglio, per evitare gli equivoci legati al concetto
di intenzione, dal piano di colui che ha preso la decisione:
ha deciso una interruzione terapeutica, d’accordo.
E l’esito prevedibile di questa decisione è
la morte del malato (con un beneficio in ogni caso:
le sue sofferenze sparirebbero). Ma supponendo che il
malato guarisca miracolosamente, il medico giudicherebbe
il suo piano sia fallito? Se sì, vedrebbe la
morte del malato come tale, non la fine delle sue sofferenze
e avremmo a che fare con un’eutanasia passiva.
In Italia, esiste una strenua opposizione tra
atei “scientisti” da un lato, e cattolici
dall’altro, sulla questione dell’eutanasia.
Molti politici cattolici ad esempio si limitano a rivendicare
la (loro) libertà di coscienza su temi di bioetica,
ostacolando di fatto la ricerca di un compromesso politico
necessario, che risponda ai bisogni della società
(la maggioranza della popolazione, cattolici compresi,
è a favore della “dolce morte”).
L’opposizione tra difensori della scienza necessariamente
atei e partigiani dell’eutanasia da un lato e
cattolici nemici della scienza per forza avversari dell’eutanasia
dall’altro mi sembra un po’ caricaturale.
Si può tranquillamente immaginare uno scienziato
ateo che si opponga all’eutanasia per motivi consequenzialisti;
e un cattolico che ammetta che, in casi tragici, l’eutanasia
è il minore dei mali. Non conosco bene lo stile
del dibattito pubblico in Italia, ma in Francia, un
uomo politico che invocasse l’inviolabilità
della sua coscienza morale nel dibattito pubblico sarebbe,
per il fatto stesso, poco credibile. Lei sa che i miei
compatrioti soffrono di spirito “frondista”!
La filosofia morale ci può aiutare a
trovare una convergenza tra posizione laiche e posizione
religiose? Ad esempio, il principio della compassione
può essere usato nell’analisi dei dilemmi
tragici che circondano l’eutanasia?
La risposta che ho appena dato a proposito della differenza
tra eutanasia attiva e passiva mostra che il dibattito
può sfociare rapidamente in questioni molto difficili
che rimandano al dominio della filosofia morale, della
filosofia dell’azione, della filosofia dello spirito.
Per esempio, la nozione di “piano” è
sviluppata in un’opera capitale di Michael E.
Bratman: Intention, Plans and Practical Reason
del 1987. Conosco gente che l’ha letto e gente
che discute di eutanasia ma, a parte rare eccezioni,
non conosco gente che l’abbia letto e insieme
discuta di eutanasia. Quindi, sono piuttosto pessimista
quanto alla potenza della filosofia morale in questo
ambito. Ho l’impressione che essa serva piuttosto
a confortare tesi adottate che a farne emergere di nuove.
In altre parole, se la convergenza ci deve essere, si
trova; e la filosofia morale poi seguirà, come
ha sempre fatto, tutto sommato. Per rispondere all’altro
aspetto della vostra questione, è soprattutto
il tema della dignità che sembra alimentare il
dibattito sull’eutanasia: diritto di morire nella
dignità da un lato, diritto della vita umana
che si può opporre anche al suo stesso titolare
dall’altro. Il tema della compassione mi sembra
invece invocato in maniera relativamente marginale.
Del resto, non sono certo che si tratti di un principio
filosofico abbastanza robusto per sostenere un consenso.
Parliamo della legislazione europea, in primo
luogo quella della Francia. Qual è la migliore
legge in Europa, a suo parere? E come giudica il livello
del dibattito pubblico su questo tema in Francia e altrove?
Ho già accennato alla legge francese del 22
aprile 2005. Essa è il risultato di un lavoro
parlamentare accurato e approfondito e bisogna rendere
omaggio al suo relatore, il deputato Leonetti. Per semplificare,
essa riconosce il diritto al rifiuto del trattamento,
il diritto all’alleviamento del dolore, il diritto
al rispetto delle direttive anticipate, che non è
poco. Inoltre, alcuni Decreti di applicazione sono stati
pubblicati nel Journal Officiel del febbraio
2006: si tratta di un ritardo relativamente breve, il
che vuol dire che c’è una vera volontà
di vedere questa legge applicata. Stando così
le cose, si tratta senza dubbio di un testo di compromesso
e i suoi detrattori dicono che si è cercato soprattutto
di evitare al corpo dei medici di ritrovarsi in situazioni
impossibili.
Il suo principale punto debole concerne unicamente
la “fine della vita”; una situazione come
quella di Vincent Humbert ne mostra bene i limiti: si
tratta di un giovane uomo che era rimasto tetraplegico,
cieco e muto in seguito a un incidente avvenuto nel
settembre del 2000, incidente seguito da numerosi mesi
di coma. Humbert aveva rivolto nel dicembre del 2002
al presidente Chirac una richiesta relativa al “diritto
di morire”. Per concludere, sua madre gli ha iniettato
del pentobarbital di sodio con l’aiuto di un medico
e Humbert è morto qualche giorno dopo. La questione
si è finita con un non luogo a procedere e si
è arenata. Il punto è il seguente: questo
sfortunato ragazzo non era in fin di vita e non aveva
lasciato direttive anticipate. Non vedo bene come la
legge dell’aprile del 2005 lo potesse concernere;
ma è vero anche che non sono un giurista. A mio
avviso, una legge di tipo olandese sarebbe stata più
utile in questo caso. Si è detto tempo fa che
si tratta di un testo irricevibile in Francia a causa
della tradizione religiosa calvinista degli abitanti
dei Paesi Bassi. Ma il Belgio ha adottato una legge
che è sostanzialmente la stessa, e quindi l’argomento
ne esce indebolito. In generale, trovo che il dibattito
pubblico sia timido su queste questioni perché
il termine “eutanasia” è stato utilizzato
dai nazisti per camuffare una politica barbara di eliminazione
degli “indesiderabili”.
Gli europei guadagnerebbero dal conoscere meglio la
loro storia.
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