308 - 26.10.06


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Ci vuole più coraggio,
come in Olanda

Jean-Yves Goffi con
Elisabetta Ambrosi



“In Francia, un uomo politico che invocasse l’inviolabilità della sua coscienza morale nel dibattito pubblico sarebbe assai poco credibile”: così Jean-Yves Goffi, docente di Filosofia all’Università Pierre Mendès France di Grenoble e presidente della Società per la filosofia della tecnica, critica coloro che ritengono l’eutanasia una questione da non risolvere pubblicamente, e auspica una legge coraggiosa sul modello di quella olandese e belga. Goffi è tra l’altro l’autore di un libro, Pensare l’eutanasia, edito da Einaudi, nel quale affronta i dilemmi morali che questo atto – di compassione? di crudeltà? – suscita.

Qualche settimana fa il presidente Napolitano ha invitato il Parlamento ad aprire una discussione sul tema dell’eutanasia. Come lei forse sa, in Italia non abbiamo una legge specifica in merito, anche se recentemente la coalizione di centrosinistra ha proposto l’introduzione di un “testamento biologico” attraverso cui dettare le proprie volontà. La mia prima questione perciò è: ci deve essere a suo avviso una legge su questo tema così delicato?

Una legislazione relativa all’eutanasia esiste già de facto: in Gran Bretagna, per esempio, essa è illegale, assimilata all’assassinio e punita con una pena che arriva fino a 14 anni di carcere. In Francia, l’eutanasia cade sotto la giurisdizione dell’articolo 221-1 del codice penale, che la assimila ad un omicidio: chi la compie rischia fino a 30 anni di carcere. Immagino quindi che lei mi stia chiedendo se ci deve essere una legge che depenalizzi l’eutanasia. Ebbene, secondo me sì. In Europa, i Paesi Bassi e l’Olanda l’hanno fatto, ponendo tuttavia dei vincoli assai stretti. I “testamenti biologici” di cui lei parla sono chiamati in francese directives anticipées, in inglese living wills. La legge francese del 22 aprile 2005 conferisce loro, sotto alcune condizioni, uno statuto legale. Occorre però notare che questa legge è relativa alla “fine della vita”, che non corrisponde a tutti i casi di domanda d’eutanasia.

Lei crede che lo stato debba intervenire nella vita individuale, impedendo ai medici di aiutare i loro pazienti a morire? O, come sostengono i liberali, esso dovrebbe salvaguardare la scelta personale di vivere o morire?

Non sono sicuro che l’alternativa che lei propone sia effettiva. A partire dal momento in cui esiste una legislazione, anche liberale (o permissiva secondo alcuni), ciò significa che lo stato interviene nelle scelte individuali. In Svizzera, per esempio, dove il suicidio assistito è legale, non si tratta semplicemente di trovare un medico o un individuo che permetta a chi ne ha voglia di uccidersi: bisogna che questo aiuto sia conforme all’articolo 115 del Codice Penale Svizzero. Un suicidio assistito è sempre seguito dall’inchiesta di un Procuratore che cerca di determinare se l’aiuto sia stato causato da motivi egoisti.

In questo ambito, è assai difficile operare distinzioni nette tra aspetti che appaiono legati. Per esempio, che differenza c’è tra il rifiuto dell’accanimento terapeutico e l’eutanasia passiva? E tra eutanasia passiva e attiva?

La distinzione tra eutanasia attiva e passiva è contestata, in particolare, da coloro che credono che una interruzione terapeutica motivata dal rifiuto di un accanimento non sia affatto un’eutanasia. Infatti, occorre precisare che se un medico decide di lasciare che “la natura segua il suo corso”, non si può ancora qualificare la sua decisione in un senso o in un altro. Certo, secondo un ragionamento consequenzialista si potrebbe dire che si tratta certamente di eutanasia (passiva), perché il risultato della decisione è una morte che si sarebbe potuta evitare, o quanto meno, differire. Ma in effetti ciò dipende dall’intenzione di chi ha preso la decisione. O, meglio, per evitare gli equivoci legati al concetto di intenzione, dal piano di colui che ha preso la decisione: ha deciso una interruzione terapeutica, d’accordo. E l’esito prevedibile di questa decisione è la morte del malato (con un beneficio in ogni caso: le sue sofferenze sparirebbero). Ma supponendo che il malato guarisca miracolosamente, il medico giudicherebbe il suo piano sia fallito? Se sì, vedrebbe la morte del malato come tale, non la fine delle sue sofferenze e avremmo a che fare con un’eutanasia passiva.

In Italia, esiste una strenua opposizione tra atei “scientisti” da un lato, e cattolici dall’altro, sulla questione dell’eutanasia. Molti politici cattolici ad esempio si limitano a rivendicare la (loro) libertà di coscienza su temi di bioetica, ostacolando di fatto la ricerca di un compromesso politico necessario, che risponda ai bisogni della società (la maggioranza della popolazione, cattolici compresi, è a favore della “dolce morte”).

L’opposizione tra difensori della scienza necessariamente atei e partigiani dell’eutanasia da un lato e cattolici nemici della scienza per forza avversari dell’eutanasia dall’altro mi sembra un po’ caricaturale. Si può tranquillamente immaginare uno scienziato ateo che si opponga all’eutanasia per motivi consequenzialisti; e un cattolico che ammetta che, in casi tragici, l’eutanasia è il minore dei mali. Non conosco bene lo stile del dibattito pubblico in Italia, ma in Francia, un uomo politico che invocasse l’inviolabilità della sua coscienza morale nel dibattito pubblico sarebbe, per il fatto stesso, poco credibile. Lei sa che i miei compatrioti soffrono di spirito “frondista”!

La filosofia morale ci può aiutare a trovare una convergenza tra posizione laiche e posizione religiose? Ad esempio, il principio della compassione può essere usato nell’analisi dei dilemmi tragici che circondano l’eutanasia?

La risposta che ho appena dato a proposito della differenza tra eutanasia attiva e passiva mostra che il dibattito può sfociare rapidamente in questioni molto difficili che rimandano al dominio della filosofia morale, della filosofia dell’azione, della filosofia dello spirito. Per esempio, la nozione di “piano” è sviluppata in un’opera capitale di Michael E. Bratman: Intention, Plans and Practical Reason del 1987. Conosco gente che l’ha letto e gente che discute di eutanasia ma, a parte rare eccezioni, non conosco gente che l’abbia letto e insieme discuta di eutanasia. Quindi, sono piuttosto pessimista quanto alla potenza della filosofia morale in questo ambito. Ho l’impressione che essa serva piuttosto a confortare tesi adottate che a farne emergere di nuove. In altre parole, se la convergenza ci deve essere, si trova; e la filosofia morale poi seguirà, come ha sempre fatto, tutto sommato. Per rispondere all’altro aspetto della vostra questione, è soprattutto il tema della dignità che sembra alimentare il dibattito sull’eutanasia: diritto di morire nella dignità da un lato, diritto della vita umana che si può opporre anche al suo stesso titolare dall’altro. Il tema della compassione mi sembra invece invocato in maniera relativamente marginale. Del resto, non sono certo che si tratti di un principio filosofico abbastanza robusto per sostenere un consenso.

Parliamo della legislazione europea, in primo luogo quella della Francia. Qual è la migliore legge in Europa, a suo parere? E come giudica il livello del dibattito pubblico su questo tema in Francia e altrove?

Ho già accennato alla legge francese del 22 aprile 2005. Essa è il risultato di un lavoro parlamentare accurato e approfondito e bisogna rendere omaggio al suo relatore, il deputato Leonetti. Per semplificare, essa riconosce il diritto al rifiuto del trattamento, il diritto all’alleviamento del dolore, il diritto al rispetto delle direttive anticipate, che non è poco. Inoltre, alcuni Decreti di applicazione sono stati pubblicati nel Journal Officiel del febbraio 2006: si tratta di un ritardo relativamente breve, il che vuol dire che c’è una vera volontà di vedere questa legge applicata. Stando così le cose, si tratta senza dubbio di un testo di compromesso e i suoi detrattori dicono che si è cercato soprattutto di evitare al corpo dei medici di ritrovarsi in situazioni impossibili.

Il suo principale punto debole concerne unicamente la “fine della vita”; una situazione come quella di Vincent Humbert ne mostra bene i limiti: si tratta di un giovane uomo che era rimasto tetraplegico, cieco e muto in seguito a un incidente avvenuto nel settembre del 2000, incidente seguito da numerosi mesi di coma. Humbert aveva rivolto nel dicembre del 2002 al presidente Chirac una richiesta relativa al “diritto di morire”. Per concludere, sua madre gli ha iniettato del pentobarbital di sodio con l’aiuto di un medico e Humbert è morto qualche giorno dopo. La questione si è finita con un non luogo a procedere e si è arenata. Il punto è il seguente: questo sfortunato ragazzo non era in fin di vita e non aveva lasciato direttive anticipate. Non vedo bene come la legge dell’aprile del 2005 lo potesse concernere; ma è vero anche che non sono un giurista. A mio avviso, una legge di tipo olandese sarebbe stata più utile in questo caso. Si è detto tempo fa che si tratta di un testo irricevibile in Francia a causa della tradizione religiosa calvinista degli abitanti dei Paesi Bassi. Ma il Belgio ha adottato una legge che è sostanzialmente la stessa, e quindi l’argomento ne esce indebolito. In generale, trovo che il dibattito pubblico sia timido su queste questioni perché il termine “eutanasia” è stato utilizzato dai nazisti per camuffare una politica barbara di eliminazione degli “indesiderabili”.
Gli europei guadagnerebbero dal conoscere meglio la loro storia.



 

 

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