Equità
o sviluppo? Tasse o tagli alla spesa? Sulla legge finanziaria
preparata dal governo si è letto tanto nei giorni
scorsi. Non essendo esperto di contabilità generale
dello Stato, eviterò di scendere sullo scivoloso
terreno del giudizio su quanto giovi una manovra del
genere ai conti pubblici e alla coesione e al dinamismo
sociale, limitandomi invece a considerare gli aspetti
simbolici e alcuni segnali genericamente politici trasmessi
all’opinione pubblica. Appena sono state rese
note le linee guida della manovra, l’ex ministro
della Margherita Tiziano Treu ha infatti parlato di
“una scelta puramente ideologica, una bandierina
che non produrrà risultati e un segnale politico
sbagliato”. Gli ha fatto eco qualche giorno dopo,
sul “Corriere della sera”, il senatore Ds
Nicola Rossi: “l’elemento caratteristico
della Legge Finanziaria del 2007 – ha scritto
– non è politico o economico ma è,
prima di ogni altra cosa, culturale”.
Credo che Treu e Rossi abbiano ragione. Ma mi chiedo,
se così è, cosa sia successo. Il fatto
è che, io ritengo, i partiti variamente non riformisti
hanno fatto pesare fortemente, checché ne dicano
Prodi e Padoa Schioppa, il loro peso sulle scelte del
governo: il fatto di essere indispensabili al mantenimento
della maggioranza parlamentare. Non potendo realizzare
il ”programma massimo” dettato dalle loro
ideologie postcomuniste, pauperistiche e solidaristiche,
queste forze politiche hanno bisogno, per rincuorare
i propri elettori e non perdere consenso sociale, proprio
di misure ideologiche e simboliche, cioè spesso
velleitarie e demagogiche. Là dove è chiaro
che dicesi ideologia una visione del mondo, seppur vaga
e fatta spesso di slogan, che frappone uno schermo protettivo
fra la realtà dei fatti e la loro sempre nuova
e imprevedibile interpretazione.
È perciò proprio nel cuore di quelle
ideologie pauperistiche e solidaristiche che va ricercato,
a mio avviso, il motivo ultimo di scelte che non colpiscono
tanto la ricchezza da rendita o spropositata degli iperricchi
o “nuovi ricchi”, ma la normale ricchezza
di un ceto borghese alla fine nemmeno troppo agiato.
È il caso di richiamare, in questo caso, credo,
l’odio storico della sinistra per la borghesia,
nato forse da una mal digerita lettura di Marx (la cui
opera è in verità piena di elogi per quella
che egli considerava l’unica classe ad aver compiuto
una vera rivoluzione in età moderna). Un odio
che si è intensificato, nel secolo scorso, attraverso
svariate esperienze storiche, non sempre legate a giuste
rivendicazioni salariali ma legate spesso al pregiudizio
ideologico. Oggi, ovviamente, l’odio per la borghesia
non si manifesta nel modo esplicito e oppositivo di
un tempo, ma è se si vuole ancora più
profondo e pervasivo.
Esso si manifesta in modo irriflesso, quasi inconscio,
simbolico, ma detta automatismi di pensiero e idiosincrasie
irrazionali che hanno forse a che vedere con quella
“invidia sociale” e con quel deleterio e
niente affatto costruttivo “risentimento”
di cui parlava Nietzsche. Ciò che è in
discussione, a mio avviso, è l’ideale che
qualcuno possa ritenere giusto darsi da fare per arricchire
il proprio portafoglio, per superare la soglia di un
reddito medio (e magari garantito) fra l’altro
sempre più eroso dal costo della vita. È
in discussione, anche, la legittimità di chiedere
un tornaconto personale come giusto merito e come ricompensa
per la propria intraprendenza. È in discussione
il fatto che tutto ciò significhi, praticamente,
concedersi qualche lusso poi nemmeno tanto eccessivo:
un ristorante di livello, un viaggio oltreoceano, un
albergo a cinque stelle. È una concezione, il
pauperismo, alquanto ipocrita: tollera casomai il lusso
ostentato e volgare dei pochi ricchi o di chi, pur avendo
un pingue conto in banca, si concede una vita spartana
non per scelta ma per assecondare i luoghi comuni e
il “politicamente corretto” di sinistra
(ristoranti slow food, viaggi culturali, agriturismo).
Ciò che è qui in discussione, voglio dire,
è non tanto il fatto di essere normalmente benestanti,
ma di darsi da fare per diventarlo o per mantenersi
in questo stato. Colpire il ceto medio benestante, come
si paventa nella bozza di finanziaria, significa colpire
in ultima istanza la vera forza propulsiva delle nostra
società occidentale (non la migliore possibile
ma la migliore fra quelle da sempre esistite). Significa
colpire il motore che ha dato loro dinamicità
favorendo la mobilità sociale. Significa anche
avere in odio l’individualismo, quella capacità
e volontà di farsi da sé che è
la caratteristica principale dell’uomo occidentale.
C’è poi da considerare che il tutto è
aggravato, in Italia, dal sodalizio che naturalmente
si crea fra queste forze di sinistra vecchio stampo
e la persistente cultura cattolica. Una cultura, quest’ultima,
premoderna, che del vivere con poco, anzi pochissimo,
ha fatto un punto di onore. Il denaro, per questa tradizione,
è “sterco del demonio”, come notava
Luigi Einaudi nel suo bellissimo Elogio del profitto.
E i comfort della vita sono un inutile di più,
il superfluo, qualcosa di cui bisogna giustificarsi
di fronte al prossimo.
Mi chiedo: quando concilieremo le nostre coscienze con
la modernità e con quell’elemento caratterizzante
di essa che è il denaro?
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