308 - 26.10.06


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Istanbul-Roma, dialogo allo specchio

Yasemin Taskin e
Ennio Remondino
Con Giorgio Zanchini


Il colloquio che segue è frutto di un incontro che, tenutosi alla manifestazione “I dialoghi di Trani” il 22 settembre, ha visto protagonisti Ennio Remondino (corrispondente rai a Istanbul), Yasemin Taskin (corrispondente in Italia per il quotidiano turco “Sabah”) moderati da Giorgio Zanchini (giornalista Gr1 Rai).


Giorgio Zanchini
Una sorta di specchio rovesciato mette a confronto Yasemin Taskin ed Ennio Remondino. L’una corrispondente in Italia per il quotidiano turco Sabah, l’altro grande esperto di politica estera e, anche se da soli tre mesi, corrispondente da Istanbul per la Rai: attraverso la lente di due giornalisti, una turca che vive in Italia e un italiano che vive a Istanbul, proviamo a leggere i rapporti tra Unione europea e Turchia e l’eventuale ingresso di quest’ultima. Qualcosa che assomiglia a un riflesso identitario ci avvicina a questo tema perché la possibilità che circa 70 milioni di musulmani possano entrare in un continente con un’identità definita pone un problema sul quale alcuni leader europei, come Sarkozy e la Merkel (fino a papa Ratzinger), si sono espressi in modo preciso e negativo.

Facciamo però, innanzitutto, un breve punto sui rapporti ormai quarantennali tra Turchia e Unione europea. Risale al 1963 un lontanissimo accordo che introduce la prospettiva dell’adesione; nell’87 si ufficializza la richiesta di Ankara che nel ’96 entra nell’unione doganale. Nel’99 un passo molto importante: il Consiglio europeo concede alla Turchia lo status di candidato.
Da allora a oggi abbiamo assistito a numerosi cambiamenti. Da parte turca abbiamo innanzitutto registrato un’ammirevole pratica di avvicinamento agli standard che l’Ue chiede a chi si candida all’adesione, una marcia fatta di riforme economiche e di modifiche ai codici che ha determinato nell’ottobre 2005 l’inizio ufficiale dei negoziati. L’8 novembre 2006, infine, la Commissione europea esprimerà il suo parere ufficiale sullo stato dei negoziati.

Forse in Turchia questo parere è un po’ temuto, a causa di recenti eventi che hanno preoccupato classi dirigenti e opinioni pubbliche europee.
Resta il fatto che l’atteggiamento generale dei turchi verso l’Ue è profondamente cambiato: è svanito, infatti, l’entusiasmo che anni fa portava la maggior parte dell’opinione pubblica a dirsi favorevole ad entrare nell’Unione, e, stando a recenti rilevazioni, mentre i rapporti con gli Usa si raffreddano, tra i paesi a cui la Turchia si sente più vicina emerge l’Iran. Dato, questo, da verificare con attenzione, ma che merita attenzione e ci porta a una domanda: che cosa sta accadendo nell’opinione pubblica turca? Perché cresce questo disincanto?


Yasemin Taskin
Sono diversi i motivi per cui l’Ue sta perdendo popolarità tra l’opinione pubblica turca.
Negli oltre quarant’anni del progetto di adesione, molti turchi – politici progressisti come gente comune – hanno sognato un paese più democratico e sviluppato. Entrare nell’Ue è stato l’obiettivo di un progetto iniziato con la nascita della nostra repubblica che sin dai suoi inizi ha guardato a occidente.
Poiché la democrazia turca ha ancora dei passi da compiere per riempire alcune sue lacune, la società civile attribuisce all’ingresso nell’Ue grande importanza; ma nonostante ciò l’opinione pubblica ha raffreddato il proprio entusiasmo verso l’Unione, si è sentita offesa dall’atteggiamento delle istituzioni europee, ha avvertito una certa ostilità e crede ora di non essere accettata tra i cittadini d’Europa, mentre invece paesi assai meno “europei” della Turchia – come molti stati dell’Europa centro orientale – hanno potuto godere di condizioni più favorevoli. Ecco allora che il consenso turco verso il processo di adesione si allontana piano piano dal 70-80% di qualche anno fa.
A ciò aggiungiamo le affermazioni non certo positive sull’ingresso di Ankara pronunciate da leader come Sarkozy e la Merkel, e non dimentichiamo come anche l’opinione pubblica europea si dimostri assai fredda verso la Turchia, tanto che il 40% si dice indecisa sulla questione.
Ci sono poi delle reticenze poste dall’Unione che in Turchia sono viste come veri e propri ostacoli, mi riferisco alla questione curda, ad alcune riforme e soprattutto al caso di Cipro, rispetto al quale i turchi vedono un uso strumentale da parte dell’Ue.
A tutto ciò sommiamo infine che lo “Stato profondo”, ovvero quella parte dei poteri forti (militari, nazionalisti, parte della burocrazia), è convinto che l’ingresso nell’Ue gli farà perdere molta influenza nel paese.
Se l’opinione pubblica turca sta perdendo il suo interesse per l’Europa dobbiamo considerare tutti questi motivi.

(G. Z.)
Forse le divisioni interne all’opinione pubblica turca su questi temi possono sorprenderci: mentre il partito islamico al governo è europeista, un baluardo del laicismo come l’esercito è tra i capofila degli scettici. La questione presenta alcuni apparenti paradossi ed è ricca di possibili evoluzioni, e la scelta della Rai di aprire una sede a Istanbul è certamente un elemento significativo.

Ennio Remondino
Tre mesi sono davvero pochi per comprendere una realtà complessa come la Turchia, quindi il mio livello di conoscenza è abbastanza basso.
Spero che la Rai possa offrire al giornalismo e al servizio pubblico la possibilità di sprovincializzarsi rivolgendo la propria attenzione non solo alle “solite” capitali occidentali come Londra, Bruxelles, Parigi, New York, ma guardando anche a realtà vicine e interessanti come quella turca.

Yasemin Taskin ha sottolineato il sentimento di offesa provato dai turchi per effetto delle resistenze europee. A mio parere tale sentimento va contestualizzato ad un paese che pur tra tante lacune, rappresenta un esempio di percorso democratico in una realtà storica e sociale assai stratificata e complessa. Una curiosità sui mille volti della Turchia come stato multietnico e quindi complesso, è legato alla mia recente scoperta che la Turchia è il più grande paese albanese dell’Europa, con 5 milioni di cittadini che provengono da quella terra che attualmente ne ospita solo 4 milioni. Sappiamo tutti dov’è la Turchia, ma sappiamo molto poco si cosa essa sia realmente.

Quanto al dibattito sull’ingresso in Europa, credo che alla Turchia si possano addebitare alcuni torti e assieme molte ragioni. Di certo ho colto in quel paese un profondo desiderio di modernizzazione dei codici, delle strutture statali, del settore economico-bancario. Allo stesso tempo non posso ignorare come le premesse del processo di adesione turca siano legate, da parte europea, a interessi particolari, come quelli che hanno portato l’Austria a minacciare di porre il veto sull’apertura del negoziato con Ankara se non fosse stata ammessa contemporaneamente anche la Croazia. In altre parole, mettendo da parte gli “alti valori” che vengono proclamati dai governi in sede pubblica, mi pare piuttosto che la logica di approccio dell’Ue verso i paesi che hanno chiesto di entrare si sia basata troppe volte su bassi profili di interesse nazionale di qualcuno degli Stati membri.

Un esempio. La questione cipriota, sappiamo tutti, è un passaggio-chiave per la Turchia. Un solo territorio, l’isola, diviso di fatto in due entità statali separate: la parte “greca” (così possiamo realisticamente definirla) ammessa a far parte integrante dell’Unione, e la parte “turca” dell’isola, il cui territorio è vigilato da un contingente militare turco continentale, addirittura esclusa da qualsiasi riconoscimento statale all’interno dell’Europa. L’Ue come ha affrontato questi elementi di crisi che coinvolgevano un suo paese membro (la Grecia) e un paese chiave dell’Alleanza Atlantica (la Turchia)? Il riconoscimento di una parte di Cipro rispetto all’altra, di fatto una sorta di pagella europea di “buoni” e di “cattivi” ha, a mio avviso, soltanto sanzionato e accentuato quella divisione sulle cui origini sarebbe stata utile qualche rivisitazione storica un po’ meno di parte.

Nei territori dell’Europa continentale esistono situazioni di problematicità assai maggiori di quelle che alcuni attribuiscono alla Turchia. Pensiamo ai Balcani, nei cui confronti, la sola strategia internazionale per il superamento delle lacerazioni che sembrano non finire mai, resta la proposta di adesione in massa all’Unione europea. L’Ue come formula magica, terapia per tutti i mali che la politica internazionale e la sua diplomazia non sono riusciti sin’ora a curare. Ma siamo sicuri che sia proprio quella la cura possibile? L’esempio di Cipro, cui accennavo prima, non mi rassicura. L’adesione a un progetto comune all’interno di un’Europa condivisa, non credo possa essere uno “strumento” ma debba essere il “fine” di un percorso le cui contraddizioni, ove esistono, vengono risolte prima.

Altra personale perplessità, riguarda la sincerità dell’ipotesi di allargamento indefinito dei confini dell’Unione. Davvero crediamo che l’Europa ricca occidentale o quella semi ricca dell’est, siano oggi così disponibili a superare la soglia dei 27 stati membri del 2007? Inoltre: con questo ipotetico allargamento si favorirebbe la democratizzazione dei paesi che ancora sono in fase di stabilizzazione? Mi fa in parte sorridere l’idea che le frammentazioni traumatiche ancora in corso nei Balcani, possano sanarsi domani nella comune culla europea. C’è qualcuno che possa ragionevolmente spiegare come e perché un Montenegro separato dalla Serbia possa riavvicinarsi a Belgrado passando per Bruxelles, o un Kosovo albanese indipendente possa avere nuovi rapporti fraterni con la Serbia perché ambedue “europei”? Non si ripeterebbe ancora una volta il perverso circuito delle definizione arbitraria di Buoni e Cattivi, che ha dato così amari frutti sia a Cipro che nei Balcani?

Per tornare alla domanda, la mia perplessità sull’ipotesi di adesione della Turchia alle Ue non è legata alla capacità e alla disponibilità della Turchia ad aprirsi all’Unione europea, ma piuttosto alla capacità e alla serietà di quest’ultima ad aprirsi con onestà, senza altri fini, al confronto con mondi molto più complessi di quanto possiamo immaginare.

(G. Z.)
Oltre alla questione cipriota ci sono altri nodi che rendono difficile l’ingresso della Turchia nell’Ue. Tra questi, l’articolo 301 del codice penale turco (che prevede il reato di offesa all’identità turca, ndr) che ha messo sotto processo grandi scrittori per la questione armena. È possibile oggi parlare del genocidio armeno in Turchia?
Rimane, poi, sul tavolo anche la questione curda: dopo un periodo di silenzio, si è riaccesa la “guerriglia”.
E, ancora, un altro nodo sta nel ruolo eccessivo ricoperto dai militari, come dimostrano i vari golpe, anche silenziosi, che si sono susseguiti dalla seconda guerra mondiale fino ad anni più recenti.
Non ultima, infine, c’è la questione dell’ideologia ufficiale: in Turchia esiste ancora il kemalismo che non può convivere con i criteri europei.
Tutti questi aspetti potranno mai cambiare?

(Y. T.)
Tutti insieme no. Ma credo sia necessario fare chiarezza su alcuni punti.
Oggi l’Ue non chiede alla Turchia di abolire l’articolo 301, che però va preso in esame. Il vecchio codice penale turco era stato modellato su quello italiano, e poi riformato in base ai criteri dell’Unione, ma l’art. 301 è sempre rimasto come una specie di arma segreta del governo per controllare la sfera intellettuale, anche contro la stessa Ue, di fronte alle questioni più scottanti che in Turchia sono ancora tabù. Questo articolo, con la motivazione dell’offesa all’identità turca, consente di mettere il bavaglio alla pubblica opinione e alla società civile. Da pochi giorni è stata prosciolta da questa accusa Elif Shafak, autrice del romanzo La bastarda di Istanbul, in cui affrontava la possibilità di discutere della questione armena. Molti scrittori sono finiti nei guai, e anche se finora nessuno è stato imprigionato l’art. 301 rimane una minaccia. Va però sottolineato che lo stesso governo Erdogan ha su questo tema delle spaccature molto vistose al suo interno, perché si tratta di una vicenda molto controversa.

Quanto al ruolo dei militari in Turchia si può dire che essi si sentono i difensori del laicismo, ma al contempo riescono a ostacolare il pieno compimento della democrazia. Sono esponenti di un laicismo blindato che, attraverso il Consiglio di sicurezza nazionale, è riuscito a creare pesanti forme di controllo su quella parte della società più radicata nella cultura islamica.
Bisogna anche ammettere, però, che ci sono stati cambiamenti importanti, come il fatto che l’attuale capo del consiglio non è più un militare ma un civile. Se poi ricordiamo che la decisione di inviare truppe in Iraq è stata presa dal Parlamento, che ha sentito la voce dell’opinione pubblica senza alcune pressioni dall’esercito, possiamo concludere che il ruolo dei militari è stato di molto ridimensionato.

Il kemalismo, l’ideologia ufficiale, rappresenta al momento un altro tabù. Esiste un contrasto interno che vede, da una parte, islamici che si battono per la libertà femminile di portare il velo nei luoghi pubblici e vorrebbero che l’ideologia ufficiale sparisca, dall’altra i kemalisti che difendono la laicità del paese e vogliono appoggiarsi ai militari rafforzando il loro potere. È un contrasto che potrebbe portare effetti positivi.
Giorni fa ho letto un rapporto scritto dal gesuita Giovanni Sale, uno storico ufficiale del Vaticano, per Benedetto XVI in occasione della sua prossima visita in Turchia. È molto interessante la valutazione di Sale che descrive l’Akp (Partito per la Giustizia e lo sviluppo, fondato da Recep Tayyip Erdogan, attuale primo ministro turco, ndr) come una specie di Democrazia cristiana, un’esperienza del tutto nuova in cui convivono un’ala più conservatrice e un’ala più moderata che, pur avendo riferimenti islamici, accettano il valore della democrazia occidentale.
Sono molto ottimista su questo aspetto della vita politica turca, perché in Turchia c’è una società civile vivacissima, di cui mi fido molto e che è molto presente nella vita pubblica.

(G. Z.)
Un altro tema importante riguardo all’ingresso di Ankara nell’Ue: circa 70 milioni di musulmani turchi, estranei all’identità culturale e religiosa del Vecchio Continente possono rappresentare un problema. Perché e a chi conviene che la Turchia entri in Europa?


(E. R.)
Per le sue dimensioni, per le sue potenzialità economiche, per il ruolo che ha in un’area strategica, per la sua storia lunga e ricca, perché le sue influenze culturali hanno segnato profondamente molta parte della civiltà europea. Ecco perché conviene avere la Turchia nell’Ue.
Per l’Unione rappresenterebbe quindi un passaggio fondamentale di confronto con il mondo mediterraneo, un momento propedeutico, in quanto la Turchia rappresenta una società di prevalente religione islamica ma non araba, per un dialogo ulteriore con paesi che presentano realtà “altre”.

Lasciatemi però tornare su alcuni temi già toccati. Come la questione curda. Ho frequentato le terre da loro abitate quando ancora non si potevano chiamare curdi, ma solo “turchi della montagna”, e in quelle terre non si poteva parlare la loro lingua. Bene, ora queste costrizioni non ci sono più, si può usare il termine “curdo”, si può parlare quella lingua. Un appunto sul linguaggio usato da noi: parlando delle recenti azioni armate di qualche formazione clandestina curda ho sentito parlare di “guerriglia”, e così facendo abbiamo commesso un errore, almeno dal punto di vista turco, non soltanto linguistico. Un attentato con l’esplosione di bombe che non distinguono il bersaglio, normalmente si chiama “terrorismo”. La capacità di distinguere fra legittime rivendicazioni di popoli ed i modi per ottenerle, fa parte dei problemi della nostra società. Sempre per tornare ai “miei” Balcani, ricordo la commedia internazionale delle definizione del movimento kosovaro albanese armato UCK. Sino al 1998 erano “terroristi” per classifica americana, poi, magia, divennero “patrioti e guerriglieri”, sempre per decisione americana. Quando l’Uck in formato esportazione, nel 2002 minacciò la stabilità della Macedonia, gli stessi uomini armati ridivennero “terroristi”. Più o meno come la tragica comica del “Taleban” in Afghanistan.

Quanto al ruolo dei militari nella società e nel sistema politico turco, è certo un’anomalia da superare. Da cittadino italiano che vive in Turchia, voglio altresì aggiungere che quella interferenza “laica” sul sistema politico turco attraversato attualmente da forti spinte politico-religiose conservative del governo Erdogan, in parte mi rassicura. Mi fa paura, invece, un certo integralismo religioso che in alcune zone del paese porta alla violazione delle stesse leggi turche, con espressioni gravi d’intolleranza. Costituzione laica, governo nazionale confessionale, e autorità locali sovente acquiescenti se non complici con movimenti integralisti di matrice religiosa, creano confusione e incertezza. L’uccisione del sacerdote cattolico don Andrea Santoro a Trabson (Trebisonda) sta lì a ricordarci come ci siano aree del paese che sfuggono ancora alle regole delle dinamiche democratiche.

Yasemin diceva prima di una società civile turca molto vivace. Condivido in pieno, anche se alla collega giornalista, vorrei ricordare i gravi ritardi, su questo percorso, proprio del giornalismo turco, assai indietro nel definire i propri ruoli e le proprie responsabilità, poco capace di una descrizione attendibile e pluralista di quanto accade nel paese. Un esempio per tutti: i giornali turchi hanno praticamente taciuto e nascosto gli attentati anche gravi che questa estate hanno colpito alcuni luoghi turistici del paese.


(Y. T.)
Io esiterei nel giudicare il giornalismo turco. Alcuni miei colleghi sono stati incarcerati per aver svolto bene il proprio mestiere, altri hanno perfino perso la loro vita per aver fatto inchieste scottanti sul mondo dello “Stato profondo” e dei nazionalisti. E soprattutto vedo nel giornalismo turco un’aggressività maggiore che in quello italiano. Piuttosto metterei in evidenza che è scomparsa, tra gli editori turchi, la figura del giornalista e i giornali sono in mano solo ad imprenditori; un realtà questa che però possiamo notare anche in Italia e in molti altri paesi.

(G. Z.)
Settanta milioni di musulmani turchi: è un problema per loro entrare in un’Europa di quattrocento milioni di cristiani?

(Y. T.)
Non ci siamo mai posti questo problema, non abbiamo mai pensato alla questione in termini religiosi. La Turchia si considera un paese laico, ecco perché l’offesa maggiore per i turchi è stata quella di non essere voluti nell’Unione in quanto musulmani.
L’Ue dovrebbe decidere come definire la propria identità indipendentemente dalla Turchia. Una volta stabilita un’eventuale chiusura ai musulmani, allora andrebbe comunicata in modo diretto, senza cercare motivazioni relative a Cipro o ad altro. D’altronde è vero che il cardinale O’Connor, capo della Chiesa cattolica in Inghilterra, ha sostenuto a chiare lettere che i turchi non devono entrare in Europa perché musulmani. Allo stesso modo, visto in questa ottica, il discorso di papa Ratzinger a Regensburg assume una certa importanza, perché la Chiesa cattolica sta assumendo un ruolo politico sull’entrata in Europa della Turchia.
A mio avviso le questioni relative all’identità europea andrebbero chiarite, innanzitutto, all’interno dell’Ue.

(E. R.)
È evidente che sfuggono, restano indefiniti, molti aspetti dell’identità che l’Ue vorrà darsi.
Molte domande e poche risposte. Non esiste ancora una Carta costituzionale e quella proposta, bocciata da Francia e Olanda, non conteneva alcun riferimento non solo alla questione religiosa (la presunta identità giudaico cristiana invocata dal Vaticano), ma anche ai temi del pluralismo dell’informazione.
Come si può far nascere un sistema sovranazionale pluralistico e moderno senza prendere in considerazione, oltre alle libertà religiose, quelle di informazione?
L’Ue attuale sembra troppo concentrata nella tutela dei mercati e degli interessi economici, e troppo distratta nel definire le tutele di valori fondamentali. L’identità religiosa è soltanto uno di questi aspetti, affiancata da tanti altri problemi più laici (insisto con l’informazione) che richiedono risposte urgenti.

 



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