Il colloquio
che segue è frutto di un incontro che, tenutosi
alla manifestazione “I dialoghi di Trani”
il 22 settembre, ha visto protagonisti Ennio Remondino
(corrispondente rai a Istanbul), Yasemin Taskin (corrispondente
in Italia per il quotidiano turco “Sabah”)
moderati da Giorgio Zanchini (giornalista Gr1 Rai).
Giorgio Zanchini
Una sorta di specchio rovesciato mette a confronto Yasemin
Taskin ed Ennio Remondino. L’una corrispondente
in Italia per il quotidiano turco Sabah, l’altro
grande esperto di politica estera e, anche se da soli
tre mesi, corrispondente da Istanbul per la Rai: attraverso
la lente di due giornalisti, una turca che vive in Italia
e un italiano che vive a Istanbul, proviamo a leggere
i rapporti tra Unione europea e Turchia e l’eventuale
ingresso di quest’ultima. Qualcosa che assomiglia
a un riflesso identitario ci avvicina a questo tema
perché la possibilità che circa 70 milioni
di musulmani possano entrare in un continente con un’identità
definita pone un problema sul quale alcuni leader europei,
come Sarkozy e la Merkel (fino a papa Ratzinger), si
sono espressi in modo preciso e negativo.
Facciamo però, innanzitutto, un breve punto
sui rapporti ormai quarantennali tra Turchia e Unione
europea. Risale al 1963 un lontanissimo accordo che
introduce la prospettiva dell’adesione; nell’87
si ufficializza la richiesta di Ankara che nel ’96
entra nell’unione doganale. Nel’99 un passo
molto importante: il Consiglio europeo concede alla
Turchia lo status di candidato.
Da allora a oggi abbiamo assistito a numerosi cambiamenti.
Da parte turca abbiamo innanzitutto registrato un’ammirevole
pratica di avvicinamento agli standard che l’Ue
chiede a chi si candida all’adesione, una marcia
fatta di riforme economiche e di modifiche ai codici
che ha determinato nell’ottobre 2005 l’inizio
ufficiale dei negoziati. L’8 novembre 2006, infine,
la Commissione europea esprimerà il suo parere
ufficiale sullo stato dei negoziati.
Forse in Turchia questo parere è un po’
temuto, a causa di recenti eventi che hanno preoccupato
classi dirigenti e opinioni pubbliche europee.
Resta il fatto che l’atteggiamento generale dei
turchi verso l’Ue è profondamente cambiato:
è svanito, infatti, l’entusiasmo che anni
fa portava la maggior parte dell’opinione pubblica
a dirsi favorevole ad entrare nell’Unione, e,
stando a recenti rilevazioni, mentre i rapporti con
gli Usa si raffreddano, tra i paesi a cui la Turchia
si sente più vicina emerge l’Iran. Dato,
questo, da verificare con attenzione, ma che merita
attenzione e ci porta a una domanda: che cosa sta accadendo
nell’opinione pubblica turca? Perché cresce
questo disincanto?
Yasemin Taskin
Sono diversi i motivi per cui l’Ue sta perdendo
popolarità tra l’opinione pubblica turca.
Negli oltre quarant’anni del progetto di adesione,
molti turchi – politici progressisti come gente
comune – hanno sognato un paese più democratico
e sviluppato. Entrare nell’Ue è stato l’obiettivo
di un progetto iniziato con la nascita della nostra
repubblica che sin dai suoi inizi ha guardato a occidente.
Poiché la democrazia turca ha ancora dei passi
da compiere per riempire alcune sue lacune, la società
civile attribuisce all’ingresso nell’Ue
grande importanza; ma nonostante ciò l’opinione
pubblica ha raffreddato il proprio entusiasmo verso
l’Unione, si è sentita offesa dall’atteggiamento
delle istituzioni europee, ha avvertito una certa ostilità
e crede ora di non essere accettata tra i cittadini
d’Europa, mentre invece paesi assai meno “europei”
della Turchia – come molti stati dell’Europa
centro orientale – hanno potuto godere di condizioni
più favorevoli. Ecco allora che il consenso turco
verso il processo di adesione si allontana piano piano
dal 70-80% di qualche anno fa.
A ciò aggiungiamo le affermazioni non certo positive
sull’ingresso di Ankara pronunciate da leader
come Sarkozy e la Merkel, e non dimentichiamo come anche
l’opinione pubblica europea si dimostri assai
fredda verso la Turchia, tanto che il 40% si dice indecisa
sulla questione.
Ci sono poi delle reticenze poste dall’Unione
che in Turchia sono viste come veri e propri ostacoli,
mi riferisco alla questione curda, ad alcune riforme
e soprattutto al caso di Cipro, rispetto al quale i
turchi vedono un uso strumentale da parte dell’Ue.
A tutto ciò sommiamo infine che lo “Stato
profondo”, ovvero quella parte dei poteri forti
(militari, nazionalisti, parte della burocrazia), è
convinto che l’ingresso nell’Ue gli farà
perdere molta influenza nel paese.
Se l’opinione pubblica turca sta perdendo il suo
interesse per l’Europa dobbiamo considerare tutti
questi motivi.
(G. Z.)
Forse le divisioni interne all’opinione pubblica
turca su questi temi possono sorprenderci: mentre il
partito islamico al governo è europeista, un
baluardo del laicismo come l’esercito è
tra i capofila degli scettici. La questione presenta
alcuni apparenti paradossi ed è ricca di possibili
evoluzioni, e la scelta della Rai di aprire una sede
a Istanbul è certamente un elemento significativo.
Ennio Remondino
Tre mesi sono davvero pochi per comprendere una realtà
complessa come la Turchia, quindi il mio livello di
conoscenza è abbastanza basso.
Spero che la Rai possa offrire al giornalismo e al servizio
pubblico la possibilità di sprovincializzarsi
rivolgendo la propria attenzione non solo alle “solite”
capitali occidentali come Londra, Bruxelles, Parigi,
New York, ma guardando anche a realtà vicine
e interessanti come quella turca.
Yasemin Taskin ha sottolineato il sentimento di offesa
provato dai turchi per effetto delle resistenze europee.
A mio parere tale sentimento va contestualizzato ad
un paese che pur tra tante lacune, rappresenta un esempio
di percorso democratico in una realtà storica
e sociale assai stratificata e complessa. Una curiosità
sui mille volti della Turchia come stato multietnico
e quindi complesso, è legato alla mia recente
scoperta che la Turchia è il più grande
paese albanese dell’Europa, con 5 milioni di cittadini
che provengono da quella terra che attualmente ne ospita
solo 4 milioni. Sappiamo tutti dov’è la
Turchia, ma sappiamo molto poco si cosa essa sia realmente.
Quanto al dibattito sull’ingresso in Europa,
credo che alla Turchia si possano addebitare alcuni
torti e assieme molte ragioni. Di certo ho colto in
quel paese un profondo desiderio di modernizzazione
dei codici, delle strutture statali, del settore economico-bancario.
Allo stesso tempo non posso ignorare come le premesse
del processo di adesione turca siano legate, da parte
europea, a interessi particolari, come quelli che hanno
portato l’Austria a minacciare di porre il veto
sull’apertura del negoziato con Ankara se non
fosse stata ammessa contemporaneamente anche la Croazia.
In altre parole, mettendo da parte gli “alti valori”
che vengono proclamati dai governi in sede pubblica,
mi pare piuttosto che la logica di approccio dell’Ue
verso i paesi che hanno chiesto di entrare si sia basata
troppe volte su bassi profili di interesse nazionale
di qualcuno degli Stati membri.
Un esempio. La questione cipriota, sappiamo tutti,
è un passaggio-chiave per la Turchia. Un solo
territorio, l’isola, diviso di fatto in due entità
statali separate: la parte “greca” (così
possiamo realisticamente definirla) ammessa a far parte
integrante dell’Unione, e la parte “turca”
dell’isola, il cui territorio è vigilato
da un contingente militare turco continentale, addirittura
esclusa da qualsiasi riconoscimento statale all’interno
dell’Europa. L’Ue come ha affrontato questi
elementi di crisi che coinvolgevano un suo paese membro
(la Grecia) e un paese chiave dell’Alleanza Atlantica
(la Turchia)? Il riconoscimento di una parte di Cipro
rispetto all’altra, di fatto una sorta di pagella
europea di “buoni” e di “cattivi”
ha, a mio avviso, soltanto sanzionato e accentuato quella
divisione sulle cui origini sarebbe stata utile qualche
rivisitazione storica un po’ meno di parte.
Nei territori dell’Europa continentale esistono
situazioni di problematicità assai maggiori di
quelle che alcuni attribuiscono alla Turchia. Pensiamo
ai Balcani, nei cui confronti, la sola strategia internazionale
per il superamento delle lacerazioni che sembrano non
finire mai, resta la proposta di adesione in massa all’Unione
europea. L’Ue come formula magica, terapia per
tutti i mali che la politica internazionale e la sua
diplomazia non sono riusciti sin’ora a curare.
Ma siamo sicuri che sia proprio quella la cura possibile?
L’esempio di Cipro, cui accennavo prima, non mi
rassicura. L’adesione a un progetto comune all’interno
di un’Europa condivisa, non credo possa essere
uno “strumento” ma debba essere il “fine”
di un percorso le cui contraddizioni, ove esistono,
vengono risolte prima.
Altra personale perplessità, riguarda la sincerità
dell’ipotesi di allargamento indefinito dei confini
dell’Unione. Davvero crediamo che l’Europa
ricca occidentale o quella semi ricca dell’est,
siano oggi così disponibili a superare la soglia
dei 27 stati membri del 2007? Inoltre: con questo ipotetico
allargamento si favorirebbe la democratizzazione dei
paesi che ancora sono in fase di stabilizzazione? Mi
fa in parte sorridere l’idea che le frammentazioni
traumatiche ancora in corso nei Balcani, possano sanarsi
domani nella comune culla europea. C’è
qualcuno che possa ragionevolmente spiegare come e perché
un Montenegro separato dalla Serbia possa riavvicinarsi
a Belgrado passando per Bruxelles, o un Kosovo albanese
indipendente possa avere nuovi rapporti fraterni con
la Serbia perché ambedue “europei”?
Non si ripeterebbe ancora una volta il perverso circuito
delle definizione arbitraria di Buoni e Cattivi, che
ha dato così amari frutti sia a Cipro che nei
Balcani?
Per tornare alla domanda, la mia perplessità
sull’ipotesi di adesione della Turchia alle Ue
non è legata alla capacità e alla disponibilità
della Turchia ad aprirsi all’Unione europea, ma
piuttosto alla capacità e alla serietà
di quest’ultima ad aprirsi con onestà,
senza altri fini, al confronto con mondi molto più
complessi di quanto possiamo immaginare.
(G. Z.)
Oltre alla questione cipriota ci sono altri nodi che
rendono difficile l’ingresso della Turchia nell’Ue.
Tra questi, l’articolo 301 del codice penale turco
(che prevede il reato di offesa all’identità
turca, ndr) che ha messo sotto processo grandi scrittori
per la questione armena. È possibile oggi parlare
del genocidio armeno in Turchia?
Rimane, poi, sul tavolo anche la questione curda: dopo
un periodo di silenzio, si è riaccesa la “guerriglia”.
E, ancora, un altro nodo sta nel ruolo eccessivo ricoperto
dai militari, come dimostrano i vari golpe, anche silenziosi,
che si sono susseguiti dalla seconda guerra mondiale
fino ad anni più recenti.
Non ultima, infine, c’è la questione dell’ideologia
ufficiale: in Turchia esiste ancora il kemalismo che
non può convivere con i criteri europei.
Tutti questi aspetti potranno mai cambiare?
(Y. T.)
Tutti insieme no. Ma credo sia necessario fare chiarezza
su alcuni punti.
Oggi l’Ue non chiede alla Turchia di abolire l’articolo
301, che però va preso in esame. Il vecchio codice
penale turco era stato modellato su quello italiano,
e poi riformato in base ai criteri dell’Unione,
ma l’art. 301 è sempre rimasto come una
specie di arma segreta del governo per controllare la
sfera intellettuale, anche contro la stessa Ue, di fronte
alle questioni più scottanti che in Turchia sono
ancora tabù. Questo articolo, con la motivazione
dell’offesa all’identità turca, consente
di mettere il bavaglio alla pubblica opinione e alla
società civile. Da pochi giorni è stata
prosciolta da questa accusa Elif Shafak, autrice del
romanzo La bastarda di Istanbul, in cui affrontava
la possibilità di discutere della questione armena.
Molti scrittori sono finiti nei guai, e anche se finora
nessuno è stato imprigionato l’art. 301
rimane una minaccia. Va però sottolineato che
lo stesso governo Erdogan ha su questo tema delle spaccature
molto vistose al suo interno, perché si tratta
di una vicenda molto controversa.
Quanto al ruolo dei militari in Turchia si può
dire che essi si sentono i difensori del laicismo, ma
al contempo riescono a ostacolare il pieno compimento
della democrazia. Sono esponenti di un laicismo blindato
che, attraverso il Consiglio di sicurezza nazionale,
è riuscito a creare pesanti forme di controllo
su quella parte della società più radicata
nella cultura islamica.
Bisogna anche ammettere, però, che ci sono stati
cambiamenti importanti, come il fatto che l’attuale
capo del consiglio non è più un militare
ma un civile. Se poi ricordiamo che la decisione di
inviare truppe in Iraq è stata presa dal Parlamento,
che ha sentito la voce dell’opinione pubblica
senza alcune pressioni dall’esercito, possiamo
concludere che il ruolo dei militari è stato
di molto ridimensionato.
Il kemalismo, l’ideologia ufficiale, rappresenta
al momento un altro tabù. Esiste un contrasto
interno che vede, da una parte, islamici che si battono
per la libertà femminile di portare il velo nei
luoghi pubblici e vorrebbero che l’ideologia ufficiale
sparisca, dall’altra i kemalisti che difendono
la laicità del paese e vogliono appoggiarsi ai
militari rafforzando il loro potere. È un contrasto
che potrebbe portare effetti positivi.
Giorni fa ho letto un rapporto scritto dal gesuita Giovanni
Sale, uno storico ufficiale del Vaticano, per Benedetto
XVI in occasione della sua prossima visita in Turchia.
È molto interessante la valutazione di Sale che
descrive l’Akp (Partito per la Giustizia e lo
sviluppo, fondato da Recep Tayyip Erdogan, attuale primo
ministro turco, ndr) come una specie di Democrazia
cristiana, un’esperienza del tutto nuova in cui
convivono un’ala più conservatrice e un’ala
più moderata che, pur avendo riferimenti islamici,
accettano il valore della democrazia occidentale.
Sono molto ottimista su questo aspetto della vita politica
turca, perché in Turchia c’è una
società civile vivacissima, di cui mi fido molto
e che è molto presente nella vita pubblica.
(G. Z.)
Un altro tema importante riguardo all’ingresso
di Ankara nell’Ue: circa 70 milioni di musulmani
turchi, estranei all’identità culturale
e religiosa del Vecchio Continente possono rappresentare
un problema. Perché e a chi conviene che la Turchia
entri in Europa?
(E. R.)
Per le sue dimensioni, per le sue potenzialità
economiche, per il ruolo che ha in un’area strategica,
per la sua storia lunga e ricca, perché le sue
influenze culturali hanno segnato profondamente molta
parte della civiltà europea. Ecco perché
conviene avere la Turchia nell’Ue.
Per l’Unione rappresenterebbe quindi un passaggio
fondamentale di confronto con il mondo mediterraneo,
un momento propedeutico, in quanto la Turchia rappresenta
una società di prevalente religione islamica
ma non araba, per un dialogo ulteriore con paesi che
presentano realtà “altre”.
Lasciatemi però tornare su alcuni temi già
toccati. Come la questione curda. Ho frequentato le
terre da loro abitate quando ancora non si potevano
chiamare curdi, ma solo “turchi della montagna”,
e in quelle terre non si poteva parlare la loro lingua.
Bene, ora queste costrizioni non ci sono più,
si può usare il termine “curdo”,
si può parlare quella lingua. Un appunto sul
linguaggio usato da noi: parlando delle recenti azioni
armate di qualche formazione clandestina curda ho sentito
parlare di “guerriglia”, e così facendo
abbiamo commesso un errore, almeno dal punto di vista
turco, non soltanto linguistico. Un attentato con l’esplosione
di bombe che non distinguono il bersaglio, normalmente
si chiama “terrorismo”. La capacità
di distinguere fra legittime rivendicazioni di popoli
ed i modi per ottenerle, fa parte dei problemi della
nostra società. Sempre per tornare ai “miei”
Balcani, ricordo la commedia internazionale delle definizione
del movimento kosovaro albanese armato UCK. Sino al
1998 erano “terroristi” per classifica americana,
poi, magia, divennero “patrioti e guerriglieri”,
sempre per decisione americana. Quando l’Uck in
formato esportazione, nel 2002 minacciò la stabilità
della Macedonia, gli stessi uomini armati ridivennero
“terroristi”. Più o meno come la
tragica comica del “Taleban” in Afghanistan.
Quanto al ruolo dei militari nella società e
nel sistema politico turco, è certo un’anomalia
da superare. Da cittadino italiano che vive in Turchia,
voglio altresì aggiungere che quella interferenza
“laica” sul sistema politico turco attraversato
attualmente da forti spinte politico-religiose conservative
del governo Erdogan, in parte mi rassicura. Mi fa paura,
invece, un certo integralismo religioso che in alcune
zone del paese porta alla violazione delle stesse leggi
turche, con espressioni gravi d’intolleranza.
Costituzione laica, governo nazionale confessionale,
e autorità locali sovente acquiescenti se non
complici con movimenti integralisti di matrice religiosa,
creano confusione e incertezza. L’uccisione del
sacerdote cattolico don Andrea Santoro a Trabson (Trebisonda)
sta lì a ricordarci come ci siano aree del paese
che sfuggono ancora alle regole delle dinamiche democratiche.
Yasemin diceva prima di una società civile turca
molto vivace. Condivido in pieno, anche se alla collega
giornalista, vorrei ricordare i gravi ritardi, su questo
percorso, proprio del giornalismo turco, assai indietro
nel definire i propri ruoli e le proprie responsabilità,
poco capace di una descrizione attendibile e pluralista
di quanto accade nel paese. Un esempio per tutti: i
giornali turchi hanno praticamente taciuto e nascosto
gli attentati anche gravi che questa estate hanno colpito
alcuni luoghi turistici del paese.
(Y. T.)
Io esiterei nel giudicare il giornalismo turco. Alcuni
miei colleghi sono stati incarcerati per aver svolto
bene il proprio mestiere, altri hanno perfino perso
la loro vita per aver fatto inchieste scottanti sul
mondo dello “Stato profondo” e dei nazionalisti.
E soprattutto vedo nel giornalismo turco un’aggressività
maggiore che in quello italiano. Piuttosto metterei
in evidenza che è scomparsa, tra gli editori
turchi, la figura del giornalista e i giornali sono
in mano solo ad imprenditori; un realtà questa
che però possiamo notare anche in Italia e in
molti altri paesi.
(G. Z.)
Settanta milioni di musulmani turchi: è un problema
per loro entrare in un’Europa di quattrocento
milioni di cristiani?
(Y. T.)
Non ci siamo mai posti questo problema, non abbiamo
mai pensato alla questione in termini religiosi. La
Turchia si considera un paese laico, ecco perché
l’offesa maggiore per i turchi è stata
quella di non essere voluti nell’Unione in quanto
musulmani.
L’Ue dovrebbe decidere come definire la propria
identità indipendentemente dalla Turchia. Una
volta stabilita un’eventuale chiusura ai musulmani,
allora andrebbe comunicata in modo diretto, senza cercare
motivazioni relative a Cipro o ad altro. D’altronde
è vero che il cardinale O’Connor, capo
della Chiesa cattolica in Inghilterra, ha sostenuto
a chiare lettere che i turchi non devono entrare in
Europa perché musulmani. Allo stesso modo, visto
in questa ottica, il discorso di papa Ratzinger a Regensburg
assume una certa importanza, perché la Chiesa
cattolica sta assumendo un ruolo politico sull’entrata
in Europa della Turchia.
A mio avviso le questioni relative all’identità
europea andrebbero chiarite, innanzitutto, all’interno
dell’Ue.
(E. R.)
È evidente che sfuggono, restano indefiniti,
molti aspetti dell’identità che l’Ue
vorrà darsi.
Molte domande e poche risposte. Non esiste ancora una
Carta costituzionale e quella proposta, bocciata da
Francia e Olanda, non conteneva alcun riferimento non
solo alla questione religiosa (la presunta identità
giudaico cristiana invocata dal Vaticano), ma anche
ai temi del pluralismo dell’informazione.
Come si può far nascere un sistema sovranazionale
pluralistico e moderno senza prendere in considerazione,
oltre alle libertà religiose, quelle di informazione?
L’Ue attuale sembra troppo concentrata nella tutela
dei mercati e degli interessi economici, e troppo distratta
nel definire le tutele di valori fondamentali. L’identità
religiosa è soltanto uno di questi aspetti, affiancata
da tanti altri problemi più laici (insisto con
l’informazione) che richiedono risposte urgenti.
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