“Mediterraneo
vuol dire, per l’Europa, costruire un proprio
ruolo intorno al superamento del conflitto tra civiltà,
che è la china lungo la quale si rafforzano a
vicenda gli opposti fondamentalismi, quello di Bin Laden
e quello di Bush. Mediterraneo vuol dire per l’Europa
proporsi come una terra di mediazione, capace di suggerire
vie di sviluppo che spingono ad incontrarsi e comprendersi”.
Franco Cassano, docente Sociologia della conoscenza
all’università di Bari, conosce bene il
mare di cui parla e che ha studiato nelle sue angolazioni
culturali, nel suo essere centro e veicolo di quel pensiero
di lentezza e riflessione che ha descritto in una delle
sue opere più importanti, Il pensiero meridiano
(Laterza) tradotto in tutto il mondo.
Sud, dice Cassano, fulcro di identità in movimento,
culla di pensiero e civiltà, patria di dialogo.
Sud, magnifico punto di ripartenza per l’Unione
che a Sud potrebbe trovare spazi di pensiero e tessiture
politiche assai feconde.
Ma, a una domanda secca sul futuro europeo della Turchia,
la risposta altrettanto asciutta e perentoria del professore
è: “Ho delle forti perplessità.
Mi sembra che risponda a una logica che più che
ad aprire l’Europa al Mediterraneo miri a ricalcarla
sulla fedeltà alla Nato. La stessa cosa direi
della proposta di ingresso di Israele, di cui si sente
parlare come un passo successivo. Nato sta per North
Atlantic Treaty Organisation, un acronimo che non
parla né di Europa né di Mediterraneo
e non unisce, ma divide”.
Professore, nel suo Pensiero Meridiano
lei elogia la “lentezza” della cultura del
Sud che potrebbe arricchire la velocità di uno
sviluppo incontrollato migliorando la qualità
delle nostre vite e la profondità della nostra
cultura. Crede che con l’ingresso della Turchia
nell’Ue il Mediterraneo riuscirà ad arricchire
l’Europa di questa lentezza?
Credo che l’ingresso della Turchia dividerebbe
il Mediterraneo non europeo, rafforzando la divisione
tra arabi e turchi e aprendo la strada all’ingresso
d’Israele, che sarebbe un ulteriore elemento di
divisione. Il Mediterraneo è fatto da tutti i
paesi che si affacciano su questo mare comune e quindi,
oltre che dai paesi europei, dai paesi arabi, in primo
luogo dai palestinesi. Inoltre non mescolerei la riflessione
sulla qualità dello sviluppo legata al tema della
lentezza a un’apertura così discutibile
e contraddittoria. Il tema della lentezza diventerà
sempre più importante nel futuro. Molti pensano
che esso nasca da una nostalgia, da un voler guardare
indietro. È esattamente il contrario, lentezza
vuol dire confrontarsi con i temi della qualità
della vita, dell’uso della tecnica, di una nozione
di ricchezza più complessa, fatta della disponibilità
di una pluralità di tempi, di dimensioni della
vita non riducibili all’ossessione competitiva.
Il tema della lentezza è il grimaldello per scardinare
quel meccanismo ideologico, oggi così diffuso
da essere diventato un’ovvietà culturale,
grazie al quale gli apologeti della forma di globalizzazione
dominante “squalificano” ogni critica, riducendola
a residuo del passato, a nostalgia. Questo vecchio e
collaudato trucco, che ha a lungo permesso di liquidare
ogni autonomia del pensiero, è ormai sempre più
scoperto e il pubblico non applaude più. Aprire
il pensiero è la prima condizione per metterlo
in movimento. Una nuova qualità dei rapporti
tra tutti, e sottolineo la parola “tutti”,
i paesi del Mediterraneo potrebbe essere un primo passo
in questa direzione.
Se dovesse spiegare perché il Mediterraneo
è uno spazio così forte di condivisione,
da dove inizierebbe la sua definizione?
Partirei dal suo nome, medi-terraneo, che vuol dire
mare tra le terre, un’espressione significativa
per più ragioni. In primo luogo perché
è un mare che media e tiene insieme terre diverse
tra loro. E quindi il contrario dell’allergia
reciproca, del conflitto tra le civiltà. Ma Mediterraneo
è anche equilibrio tra terra e mare, tra due
principi opposti, quello solido e stabile dell’appartenenza
e della protezione e quello mobile e liquido della libertà,
che esalta la partenza e l’iniziativa dell’individuo.
Oggi si fronteggiano invece due fondamentalismi: quello
della terra, dell’identità e della comunità,
che chiude l’individuo nel muro dell’appartenenza,
e quello dell’oceano, un mare senza limiti che
riduce l’uomo a un atomo in continua competizione
con gli altri, impossibilitato a fermarsi, perché
ossessionato dalla possibilità che essi possano
superarlo. È quel fondamentalismo del mercato
di cui parla Joseph Stiglitz, una metafisica molto influente
se è vero che governa la Banca Mondiale e il
Fondo Monetario Internazionale. Con il suo reciproco
limitarsi di terra e mare il Mediterraneo sottolinea,
invece, che occorre trovare un punto di equilibrio,
una “misura” capace di mediare libertà
e protezione sociale, individuo e comunità. Una
battaglia tutt’altro che locale, ma tesa ad individuare
un punto d’incontro tra il nord ovest e il sud
est del mondo che s’incontrano proprio su questo
mare. Il Mediterraneo non è un idillio turistico,
ma un’idea di pensiero e di saggezza, non è
una nostalgia, ma una terapia per le patologie del tempo
presente.
Sarà forse un’idea troppo romantica
della politica europea, ma possiamo dire che, come il
Mediterraneo, anche l’Unione è nata per
essere incontro fecondo di diversità, per far
camminare insieme unità e molteplicità,
per essere scambio di beni e conoscenze. Eppure nonostante
tante similitudini, l’Ue sembra trascurare questa
area, soprattutto da un punto di vista politico. Perché?
Perché l’Europa mediterranea ha a lungo
dormito, incapace di cogliere il carattere generale
e globale della propria collocazione. A lungo l’Europa
mediterranea ha considerato tale tratto comune più
come un peso che come una risorsa politica generale,
dominata più dalla necessità di dimostrare
di essere all’altezza della nuova costruzione
che non da quella di farsi portatrice di un’idea
di Europa diversa e più ricca di quella rinchiusa
sul suo cuore continentale. È importante segnalare
che con la crisi libanese, per la prima volta, e dopo
molti – troppi – anni, si è visto
qualcosa di nuovo, ed è molto importante che
questa novità sia stata rappresentata dall’Italia,
che ha scosso dal suo torpore l’Europa, non solo
quella settentrionale, ma anche la Francia e la Spagna.
Credo che lentamente questa coscienza si stia affermando,
anche perché l’autonomia dell’Unione
passa attraverso la sua capacità di definire
un proprio ruolo originale nei rapporti con il mondo
arabo-islamico. La prospettiva mediterranea non è
una proiezione romantica, ma qualcosa di molto più
concreto, è l’esame di maturità
dell’Europa come soggetto politico globale.
Lungo le sponde della cultura mediterranea
abbiamo visto svilupparsi la polemica nata dal discorso
di Ratisbona di papa Ratzinger. I rapporti tra cristianesimo
e filosofia greca, da una parte, le reazioni del mondo
islamico che sono partite proprio dalla Turchia, dall’altra.
Come giudica quella vicenda di verità che continuano
a urtarsi prima di comprendersi?
Da parte islamica c’è stato senza dubbio
un eccesso di reazione, che deve preoccuparci tutti
e non farci recedere dall’abitudine al libero
esercizio del pensiero. Ma vedo anche all’opera
in questo papa una preoccupazione ossessiva per il tema
dell’identità cristiana sia nel rapporto
con le conquiste della scienza e della tecnica sia nel
rapporto con le altre culture. Percepisco in queste
preoccupazioni un’angoscia e un riflesso difensivo
che frena quella capacità di varcare i confini
delle culture che aveva caratterizzato il papato di
Woytila. L’individuazione della differenza cristiana
nel logos, che attraversa la lezione che ha
suscitato tante polemiche, mi sembra non solo oscurare
parti importanti della cultura islamica, ma anche rivelatrice
di una chiusura dottrinaria rispetto alla forza della
capacità testimoniale, che è uno strumento
decisivo per varcare le differenze tra le religioni.
L’enciclica Deus caritas est già
annunciava una forte contrazione del respiro dell’amore
rispetto a quello sporgersi sull’altro, a quel
chiedere scusa, che ha consentito a Woytila di parlare
ben al di là dei confini dell’Occidente.
Di fronte al confine possono prodursi due atteggiamenti
opposti, quello di provare ad attraversarlo e a comunicare
con l’altro e quello difensivo di mettere i paletti
ad ogni contaminazione. Mi sembra che questo papa preferisca
il secondo atteggiamento, avverta come preoccupazione
preliminare quella dell’identità. Va da
sé che pensare il Mediterraneo significa invece
avere il gusto di varcare il mare, non per convertire,
ma per allargare la fraternità, proprio come
fece a suo tempo Francesco di Assisi. E si badi bene:
questo non significa abbandonare la propria identità,
ma praticarne un’altra versione, più generosa
e più coraggiosa, più capace di aprirsi
al futuro.
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