“Comune
è l´idea che sia necessario dare un governo
alla globalizzazione, sapendo che dare ordine al mondo
non significa solo invocare la pace ma assumersi le
responsabilità per ottenerla [...] Comune è
la consapevolezza che lo spazio e la dimensione della
nostra vita siano l´Europa. [...] Comune è
la convinzione che impresa e mercato siano fattori essenziali
per produrre quella ricchezza senza la quale non è
possibile alcuna distribuzione di reddito [...] Comune
è la determinazione a riformare lo stato sociale
nella direzione non di ridurre l´universalità
dei diritti, ma di estendere le opportunità a
tutti per sconfiggere vecchie e nuove disuguaglianze”.
Così Piero Fassino, in un’intervista rilasciata
a Repubblica, ha sottolineato la convergenza
di temi e programmi sulla quale potrà formarsi
il futuro – per alcuni appena nato – Partito
Democratico.
Nessuna divergenza di valori insomma. Ma l’ottimismo
di Fassino si è spinto oltre.
Il dibattito sulla collocazione internazionale del Pd?
Si può superare abbandonando le vecchie ideologie
e lavorando “per una nuova stagione del riformismo
europeo”.
L’opposizione del correntone e il fantasma di
una scissione diessina?
“Anche chi non è venuto, da oggi stesso
può essere partecipe della costruzione del partito
con le proprie convinzioni e con la stessa dignità
e responsabilità di tutti noi”.
Infine, sulla questione più spinosa, quella della
contrapposizione tra chi invoca la partecipazione della
società civile attraverso le primarie e chi difende
il ruolo dei partiti, dice: “È un falso
dilemma. Non ci serve né un partito solo di eletti
né la semplice somma delle strutture dei partiti
esistenti”. E lancia l’ipotesi mediatrice
di un 50 per cento dei delegati espressione dei partiti
e degli eletti nelle istituzioni e un 50 per cento scelti
direttamente dai cittadini con un meccanismo simile
alle primarie.
Insomma, a sentire il segretario della Quercia, la due
giorni di Orvieto, ha segnato l’inizio di un processo
inarrestabile e senza grandi ostacoli di fronte.
Eppure, l’esistenza di qualche ombra viene evidenziata
da molti, anche da coloro che non si attestano su posizioni
scettiche come quelle di Macaluso, che sul Riformista
si è chiesto se davvero a Orvieto fosse nato
qualcosa di nuovo. Anzitutto, c’è la questione
dei valori. L’appassionata relazione di sabato
dello storico Pietro Scoppola e quella successiva di
Roberto Gualtieri hanno indicato la strada di un ethos
comune, basato sul governo politico della globalizzazione,
sulla creazione di un welfare meritocratico, su un laicismo
non antireligioso, sulla costruzione di una integrazione
solidale, sulla capacità di restituire fiducia
e speranza a giovani e adulti che i cambiamenti del
mondo attuale rendono sempre più fragili e soli.
Eppure già le divisioni sulla finanziaria mostrano
quanto diverse siano le posizioni della coalizione da
cui dovrebbe nascere il Partito democratico. Per non
parlare delle questioni ancora più delicate,
una per tutte quella dell’eutanasia: tutti ricordano
ad esempio le brusche chiusure della Margherita all’invito
di Napolitano a discuterne.
Quanto al problema dei diessini contrari al Pd, davvero
non si vede come essi possano essere integrati nella
nuova formazione. E, se ciò non avverrà,
la scissione sarà inevitabile, con conseguenze
politiche ancora non chiare (un nuovo partito socialista?
Un’alleanza con Bertinotti?).
Sul tema della collocazione internazionale, anche se
sono in molti a ricordare che non si tratta di una questione
all’ordine del giorno oggi, le differenze sono
abbastanza stridenti. I cattolici non vogliono entrare
nel Pse? Fanno bene, ha detto Scoppola a Orvieto, seguito
dalla Bindi, anche per non rischiare di spingere la
Chiesa su posizioni di destra. Ma come si fa a non prendere
atto che le principali forze riformiste in Europa sono
socialiste? Hanno risposto dal loro canto Fassino e
D’Alema. Insomma, è un problema da affrontare.
Non subito, ma sul tappeto.
Ma la questione centrale, su cui davvero il Partito
democratico rischia di incagliarsi, è quella
relativa alla modalità di creazione delle strutture
del nuovo partito, sul quale le posizioni si sono divise.
Vassallo vs D’Alema. Così i media hanno
sintetizzato lo scontro. Il prodiano Salvatore Vassalloè
l’uomo rivelazione della due giorni di Orvieto.
Il giovane professore di Scienza politica all’università
di Firenze ha infatti difeso, in un lungo intervento
apprezzato da tutti i prodiani in sala, l’idea
di un partito completamente aperto, caratterizzato dall’elezione
diretta del leader e dall’uso delle primarie come
metodo sia per la selezione dei candidati alle cariche
di governo sia per eleggere presidente e membri dell’Assemblea
costituente che dovrebbe tenersi tra la fine del 2007
e l’inizio del 2008, secondo il principio –
un poco “antipartitico” – di “una
testa un voto”. Le reazioni non si sono fatte
attendere. A Orvieto, D’Alema ha ironizzato sul
“partito dei gazebo”. Ma anche la Margherita
– o almeno il quotidiano che la rappresenta, Europa
– ha preso una posizione difensiva del ruolo dei
partiti, sottolineando la legittimità del loro
desiderio di riuscire a mantenere un ruolo. Già,
ma quale? Questo è il punto.
Al tema della funzione dei partiti si lega poi il nodo
della legge elettorale. Nella cittadina umbra, quasi
tutti i relatori hanno invocato un ritorno al maggioritario.
Eppure la riforma non sembra essere tra le priorità
del governo.
Dulcis in fundo, resta la questione, che è
stata alla base di uno dei gruppi di lavoro di Orvieto
e dalla quale dipende l’andamento della complessa
macchina dei lavori per il Partito democratico: perché
farlo? A Orvieto, la risposta è stata soprattutto:
perché il mondo è cambiato, la democrazia
è in crisi, c’è bisogno di “nuove
spinte etiche, di valori e di nuova partecipazione”.
Ma anche: per tenere insieme un tessuto sociale che
non è più tale, come ha detto il ministro
Amato. Affermazioni ineccepibili, naturalmente.
Tuttavia i politologi avvertono che il problema è
un altro, meno ideale e più concreto: come farà
il nuovo partito a raggiungere quel 40 per cento cui
deve aspirare? Come e dove si pensa di poter guadagnare
voti? Tra gli astensionisti (molto difficile), a destra,
al centro o a sinistra? È probabile allora che,
come commenta Mauro Calise su Europa, ci voglia
“qualcosa in più, un’idea di cui
innamorarsi”. Che forse, tra Ds e Margherita,
ancora non c’è.
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