Doveva essere
il momento dello scontro decisivo, o del definitivo
passaggio delle consegne. Non è stato né
l’uno né l’altro, e il nodo politico
non è stato sciolto. Da un lato l’ultimo
intervento di Tony Blair come primo ministro e leader
del partito, “costretto” a lasciare dalla
stessa base dopo dieci anni di governo e tre successi
elettorali. Dall’altro il fin troppo designato
successore Gordon Brown, scudiero – spinoso –
dei due lustri di governo del New labour nel suo ruolo
di cancelliere dello scacchiere, il ministro delle Tesoro.
Alla fine il congresso di Manchester è stata
solo una prova generale, con rispettivi elogi che segnano
la pace in attesa della vera lotta, quando Blair lascerà
il governo. Non una convention alla americana,
ma neanche un vero congresso. Una conference,
una conferenza, tutta dedicata a due persone, con i
12mila delegati spettatori dell’avvicendamento
al vertice. Materia pregiata per la polemica poca, ad
eccezione dell’attacco – smentito –
di Cherie Blair all’indirizzo di Brown, i media
si sono accaniti sulle differenze tra i due contendenti,
snobbando di fatto i discorsi di Patricia Hewitt e John
Reid. E soprattutto di David Miliband, 41enne ministro
dell’ambiente, considerato ”clone”
di Blair e astro nascente del partito.
Ha cominciato Brown. 4mila e 829 parole pronunciate
in 40 minuti. Elogi a Blair a parte, un discorso politico
denso, da premier in pectore, salutato da quasi
tre minuti di applausi. Poco umorismo e sguardo chino
sui fogli, incentrato sui successi del Labour e le sfide
del futuro: economia, ambiente. Soprattutto Iraq, su
cui il ministro del Tesoro si smarca dal suo premier,
iniziando l’autocritica. “È stato
giusto – dice – intervenire in Iraq, ma
dopo la sua liberazione avremmo potuto condurre meglio
le cose, e oggi lo riconosciamo. Siamo tutti da biasimare”.
E se la continuità in politica estera non è
comunque compromessa – “non saremo mai antiamericani”
– la vera assente resta l’Unione europea,
che Brown non cita mai in tutto il tempo del discorso,
se non per ricordare che “nel 1997 il Regno Unito
aveva la più alta disoccupazione d’Europa”.
Il cancelliere dipinge il futuro del New Labour. “Libertà,
democrazia, equità”. Chiede, e smarcandosi
nuovamente da Blair cerca appoggio nella sinistra del
partito, di non considerare il Labour come un partito
di centro, ma di unirlo alle istanze progressiste, unendo
libero mercato e welfare state.
Il momento del premier arriva il giorno dopo. Il più
giovane primo ministro inglese dal 1812, il primo laburista
chiamato a Downing Street per tre volte consecutive.
Che sia l’ultimo suo intervento da leader si capisce
all’inizio. Un diluvio di ringraziamenti, dal
partito alla famiglia, dallo stesso Gordon Brown al
popolo britannico. Poi Blair racconta i 9 anni al numero
10. Nei 50 minuti di discorso trova l’ultima esplosione
di quel carisma che ora tutti vedono appannare a vantaggio
del 39enne Tory David Cameron. Parla spesso a braccio,
usa slogan brevi. Diverte. Viene interrotto dagli applausi
una cinquantina di volte. Si prende sette minuti di
applauso finale. Salta completamente i dissidi e le
polemiche mentre dipinge il grande affresco della triste
Inghilterra thatcheriana che evolve nella grande Inghilterra
del New Labour. “Oggi – dice – è
più facile vedere una scuola nuova di zecca che
non una in rovina”. Non può comunque omettere
l’Iraq, ma usa le corde della alleanza con Bush:
“Il terrorismo non è colpa nostra, e non
è la conseguenza della nostra politica estera.
È un attacco contro il nostro modo di vita. Non
vinceremo se capitoliamo davanti alla propaganda del
nemico”. Le sue parole semplificano e affabulano,
molto più di Brown, sulla cui successione glissa.
“Senza Gordon il New Labour non sarebbe nato,
non avremmo vinto tre volte, è un uomo straordinario”.
Così come non chiarisce sulla data delle sue
dimissioni, che tutti attendono per la prossima primavera.
Quanto alla sua eredità politica, l’unica
che gli interessa è “una quarta vittoria
laburista alle elezioni”.
Ma di qui al 2010 la strada è lunga. Se Gordon
Brown riceverà dalle mani di Blair gli ultimi
tre anni di governo prima delle consultazioni nazionali
del 2010, si ritroverà a 56 anni a competere
con il carisma di Cameron, cui tutti riconoscono la
freschezza del primo Blair. Proprio la personalizzazione
imposta alla politica inglese dalla figura del leader
laburista potrebbe essere il contrappasso di Brown.
Dall’averne condiviso le scelte più discusse
di questi dieci anni all’immagine dimessa e il
tono monocorde dei discorsi, il ministro del Tesoro
non entusiasma, e nei sondaggi il suo gradimento è
sceso dal 36 al 27%. A Cameron, tuttavia, spetta l’onere
della prova, giacché da oppositore non ha mai
dovuto scoprire le carte dei conservatori.
E tuttavia, la pace siglata al congresso del Labour
non è stata sufficiente a placare la polemica
sulla “lunga successione” a Blair. Semmai,
ha sottolineato Ralf Dahrendorf in un articolo pubblicato
su Die Zeit, l’annuncio pubblico di dimissioni
– senza data – del primo ministro “ha
avuto una serie di conseguenze”. La prima è
quella di avere “ridotto gli elettori a fare da
spettatori ad una sceneggiata” che “logora”
tanto il primo ministro che il suo successore. La seconda,
ammonisce invece il mensile inglese Prospect,
è che l’avvicinamento al centro politico
si è rivelata una rincorsa al thatcherismo. “Lontano
dal fare del 21° secolo un secolo radicale –
scrive Peter Wilby – così come diceva essere
la sua ambizione, Blair potrebbe avere creato le fondamenta
per un nuovo secolo conservatore”.
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