307 - 12.10.06


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Manchester: come
sono diversi quei due

Fabio Amato


Doveva essere il momento dello scontro decisivo, o del definitivo passaggio delle consegne. Non è stato né l’uno né l’altro, e il nodo politico non è stato sciolto. Da un lato l’ultimo intervento di Tony Blair come primo ministro e leader del partito, “costretto” a lasciare dalla stessa base dopo dieci anni di governo e tre successi elettorali. Dall’altro il fin troppo designato successore Gordon Brown, scudiero – spinoso – dei due lustri di governo del New labour nel suo ruolo di cancelliere dello scacchiere, il ministro delle Tesoro.

Alla fine il congresso di Manchester è stata solo una prova generale, con rispettivi elogi che segnano la pace in attesa della vera lotta, quando Blair lascerà il governo. Non una convention alla americana, ma neanche un vero congresso. Una conference, una conferenza, tutta dedicata a due persone, con i 12mila delegati spettatori dell’avvicendamento al vertice. Materia pregiata per la polemica poca, ad eccezione dell’attacco – smentito – di Cherie Blair all’indirizzo di Brown, i media si sono accaniti sulle differenze tra i due contendenti, snobbando di fatto i discorsi di Patricia Hewitt e John Reid. E soprattutto di David Miliband, 41enne ministro dell’ambiente, considerato ”clone” di Blair e astro nascente del partito.

Ha cominciato Brown. 4mila e 829 parole pronunciate in 40 minuti. Elogi a Blair a parte, un discorso politico denso, da premier in pectore, salutato da quasi tre minuti di applausi. Poco umorismo e sguardo chino sui fogli, incentrato sui successi del Labour e le sfide del futuro: economia, ambiente. Soprattutto Iraq, su cui il ministro del Tesoro si smarca dal suo premier, iniziando l’autocritica. “È stato giusto – dice – intervenire in Iraq, ma dopo la sua liberazione avremmo potuto condurre meglio le cose, e oggi lo riconosciamo. Siamo tutti da biasimare”.

E se la continuità in politica estera non è comunque compromessa – “non saremo mai antiamericani” – la vera assente resta l’Unione europea, che Brown non cita mai in tutto il tempo del discorso, se non per ricordare che “nel 1997 il Regno Unito aveva la più alta disoccupazione d’Europa”. Il cancelliere dipinge il futuro del New Labour. “Libertà, democrazia, equità”. Chiede, e smarcandosi nuovamente da Blair cerca appoggio nella sinistra del partito, di non considerare il Labour come un partito di centro, ma di unirlo alle istanze progressiste, unendo libero mercato e welfare state.

Il momento del premier arriva il giorno dopo. Il più giovane primo ministro inglese dal 1812, il primo laburista chiamato a Downing Street per tre volte consecutive. Che sia l’ultimo suo intervento da leader si capisce all’inizio. Un diluvio di ringraziamenti, dal partito alla famiglia, dallo stesso Gordon Brown al popolo britannico. Poi Blair racconta i 9 anni al numero 10. Nei 50 minuti di discorso trova l’ultima esplosione di quel carisma che ora tutti vedono appannare a vantaggio del 39enne Tory David Cameron. Parla spesso a braccio, usa slogan brevi. Diverte. Viene interrotto dagli applausi una cinquantina di volte. Si prende sette minuti di applauso finale. Salta completamente i dissidi e le polemiche mentre dipinge il grande affresco della triste Inghilterra thatcheriana che evolve nella grande Inghilterra del New Labour. “Oggi – dice – è più facile vedere una scuola nuova di zecca che non una in rovina”. Non può comunque omettere l’Iraq, ma usa le corde della alleanza con Bush: “Il terrorismo non è colpa nostra, e non è la conseguenza della nostra politica estera. È un attacco contro il nostro modo di vita. Non vinceremo se capitoliamo davanti alla propaganda del nemico”. Le sue parole semplificano e affabulano, molto più di Brown, sulla cui successione glissa. “Senza Gordon il New Labour non sarebbe nato, non avremmo vinto tre volte, è un uomo straordinario”. Così come non chiarisce sulla data delle sue dimissioni, che tutti attendono per la prossima primavera. Quanto alla sua eredità politica, l’unica che gli interessa è “una quarta vittoria laburista alle elezioni”.

Ma di qui al 2010 la strada è lunga. Se Gordon Brown riceverà dalle mani di Blair gli ultimi tre anni di governo prima delle consultazioni nazionali del 2010, si ritroverà a 56 anni a competere con il carisma di Cameron, cui tutti riconoscono la freschezza del primo Blair. Proprio la personalizzazione imposta alla politica inglese dalla figura del leader laburista potrebbe essere il contrappasso di Brown. Dall’averne condiviso le scelte più discusse di questi dieci anni all’immagine dimessa e il tono monocorde dei discorsi, il ministro del Tesoro non entusiasma, e nei sondaggi il suo gradimento è sceso dal 36 al 27%. A Cameron, tuttavia, spetta l’onere della prova, giacché da oppositore non ha mai dovuto scoprire le carte dei conservatori.

E tuttavia, la pace siglata al congresso del Labour non è stata sufficiente a placare la polemica sulla “lunga successione” a Blair. Semmai, ha sottolineato Ralf Dahrendorf in un articolo pubblicato su Die Zeit, l’annuncio pubblico di dimissioni – senza data – del primo ministro “ha avuto una serie di conseguenze”. La prima è quella di avere “ridotto gli elettori a fare da spettatori ad una sceneggiata” che “logora” tanto il primo ministro che il suo successore. La seconda, ammonisce invece il mensile inglese Prospect, è che l’avvicinamento al centro politico si è rivelata una rincorsa al thatcherismo. “Lontano dal fare del 21° secolo un secolo radicale – scrive Peter Wilby – così come diceva essere la sua ambizione, Blair potrebbe avere creato le fondamenta per un nuovo secolo conservatore”.


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