Sulla riforma
del sistema elettorale i partiti tentennano, tergiversano,
esitano. E allora nasce la proposta per un referendum
abrogativo della legge attuale. Obiettivo principale:
limitare la frammentazione del sistema politico, garantire
un bipolarismo più efficace e delineato, ripristinare
i collegi uninominali e fare così in modo che
le scelte degli elettori pesino sul risultato finale
più delle decisioni dei partiti.
La proposta è stata lanciata dal prof. Giovanni
Guzzetta, costituzionalista dell’Università
di Roma Tor Vergata e già ideatore del referendum
che nel 1993 ha cambiato il volto del sistema politico
italiano. Guzzetta l’ha presentata pubblicamente
il 22 settembre a più di cento costituzionalisti
riuniti nella sala del Cenacolo a Roma.
L’obbiettivo dell’iniziativa è quello
di creare le condizioni istituzionali che favoriscano
“il dispiegarsi di un orizzonte bipartitico anche
in Italia”, facilitando così i processi
di aggregazione politica in atto, come il Partito Democratico.
Benissimo, ma che c’entra la formazione di una
nuovo partito che riunisca le forze del centro sinistra
con la legge elettorale? Non potrebbe nascere indipendentemente
dalla scelta tra proporzionale e maggioritario?
“Il sistema proporzionale non impedisce di per
sé la costruzione di un’ampia forza riformista
nel centrosinistra – spiega Giovanni Guzzetta
che sta in questi giorni riunendo intorno a sé
personalità pubbliche ed esponenti della società
civile per dar vita alla pattuglia referendaria –
tant’è vero che alle ultime elezioni laddove
l’Ulivo si è presentato con una sola lista
ha raggiunto un ottimo risultato. Gli ostacoli alla
formazione del nuovo partito sono di natura politica,
riguardano la difficoltà a stabilirne il perimetro
e capirne l’identità”.
Ma un sistema maggioritario, continua Guzzetta, aiuterebbe
molto di più, sarebbe un incentivo verso questa
direzione, perché correggerebbe alcuni difetti
della legge proporzionale che favorisce invece la frammentazione
e le rendite di posizione di numerosi partiti.
Un tema di cui si è iniziato a parlare in Italia
da più di un decennio e che ancora non trova
soluzione.
“Prima del 1993 – spiega il prof. Guzzetta
– il sistema politico italiano aveva due problemi
evidenti: fortissima frammentazione e instabilità
da un parte, e dall’altra mancanza di alternanza
di governo. I referendum di quell’anno hanno favorito
una soluzione a questo secondo aspetto, tanto che dal
’94 a oggi ogni elezione ha segnato un cambio
di governo tra i due poli”.
Ma quella spinta non ha affatto risolto l’altro
problema, anzi, la legge elettorale attualmente in vigore
lo ha peggiorato, accentuando una forte frammentazione
partitica.
“Abbiamo ora una pluralità di partiti
che conservano e coltivano gelosamente ciascuno la propria
identità, che non riescono a creare fenomeni
aggregativi significativi se non in rarissime e precarie
eccezioni”, dice il professore e continua: “La
vita politica dipende quindi da continui negoziati ed
estenuanti mediazioni tra i partiti della medesima maggioranza.
Vediamo così potenziato un meccanismo di conflittualità
latente e di spinta verso la gelosa conservazione delle
identità; un meccanismo che attribuisce a ciascun
soggetto politico un potere di interdizione, una rendita
di posizione. E aggiungiamo poi che la scomparsa di
collegi uninominali, in cui ciascun elettore premiava
o bocciava col voto un candidato, è affiancata
dalla possibilità di candidature plurime, col
risultato che un terzo del parlamento è determinato
da chi è già stato eletto in più
collegi”.
Proprio su questo punto la riforma promossa dal referendum
interviene guardando a due obiettivi, dice Guzzetta:
“da una parte costringere coloro che hanno intenzione
di governare il Paese a comporre un’unica lista,
un’aggregazione unitaria, il che significa aprire
una prospettiva bipartitica per l’Italia; dall’altra
parte il referendum colpisce le candidature plurime,
stabilisce che chi si candida in una circoscrizione
vince o perde, ma non può candidarsi contemporaneamente
in altri luoghi, non solo per non mettere il paracadute
alla rischio di non essere eletto, ma soprattutto per
evitare che un candidato possa scegliere altri eletti
della sua lista”.
L’idea dunque è quella di favorire la
formazione di due poli distinti e compatti al loro interno,
e allo stesso tempo di fare in modo che i voti che un
candidato ha avuto, non vadano ridistribuiti in collegi
diversi da quelli in cui lo stesso candidato è
stato eletto.
Questa la proposta, ma ci chiediamo perché mai
non siano i partiti stessi a fare la riforma.
“La legge elettorale ha una sua specificità:
deve essere cambiata da coloro che ne beneficiano, cioè
coloro che sono stati eletti” spiega Guzzetta.
“In più, le maggioranze italiane ora sono
frammentate e difficilmente trovano accordi su un tema
simile che avrebbe, anzi, bisogno di un consenso parlamentare
più ampio delle sole forze di governo: tutti
questi fattori messi insieme portano a un’insufficienza
di vedute condivise sulla riforma elettorale”.
“Se il Parlamento riesce a produrre una riforma
ben venga – aggiunge il professore - noi intanto
proponiamo il referendum”.
Un referendum abrogativo, come tanti ce ne sono stati
Italia senza produrre un risultato definitivo. Pensiamo
al successo dell’uninominale al Senato, o anche
all’abrogazione del finanziamento pubblico ai
partiti, entrambi poi di fatto annullati da scelte parlamentari
successive.
“Ovviamente il referendum è aggirabile
– ammette Guzzetta – le norme sono necessarie,
ma non sufficienti. Però bisogna notare che se
anche il maggioritario votato dagli italiani è
stato aggirato, è pur vero che si è prodotta
fino ad oggi, pur nella sua imperfezione, una bipolarizzazione
della politica. In secondo luogo, dal referendum del
’93 fino ad oggi gli elettori sono maturati, hanno
interiorizzato il maggioritario e chiedono due poli
in competizione, per poi premiare con il voto chi è
stato più bravo ad aggregare forze diverse con
una certa coerenza. La riforma che proponiamo non vuole
far altro che incentivare le spinte all’aggregazione”.
I prossimi passi?
“Mantenere viva una convergenza trasversale sulla
necessità della riforma, che non oppone la destra
alla sinistra, ma piuttosto una spinta modernizzatrice
a una tendenza conservatrice. Poi far nascere un comitato
– conclude il professore – per presentare
alla Cassazione il quesito referendario e iniziare la
raccolta delle firme”.
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