306 - 28.09.06


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Una questione di democrazia e dei suoi valori

Nadia Urbinati


Tratto dal quotidiano Europa.

Nella sua magistrale risposta a John Llyod, Giuliano Amato ha difeso con passione l’idea secondo la quale essere democratici non significa perdere o rinuciare a ciò che ci distingue da chi è di destra. L’obiezione di Llyod, rivolta principalmente ai socialisti, è di ampio raggio e tutt’altro che banale: in una società nel quale l’ordine politico democratico costituzionale gode di un consenso sostanzialmente unanime ha ancora senso parlare di destra e sinistra? Se tutti siamo democratici, le differenze tra le parti in giuoco saranno di policy più che di politics, questioni di “più o meno” (giustizia sociale, per esempio) anziché di “aut/aut”. Vittoria della democrazia sembra allora voler dire fine della politica. Per chi si è formato negli anni della Guerra fredda, quando politica voleva dire manichea contrapposizione di fedi irriducibili, può essere fatale concludere che l’era democratica corrisponde in realtà alla fine della politica o alla burocratizzazione della politica (differenze di policy, appunto).

Ma è proprio questo presupposto non detto – questa visione da “amico/nemico” o militare della politica – che deve essere messa in questione. Solo così riusciremo ad apprezzare la natura della politica in una società democratica. Ha dunque ragione Giancarlo Bosetti a dire che il futuro del partito democratico non può prescindere dalla ricerca ideologica “nel senso più leggero e meno invasivo della parola”. Senza di che, il partito sarebbe semplicemente una macchina elettorale; e in questo caso il cartello elettorale che c’è ora sarebbe più che sufficiente. Quali ideali a fondamento dell’ideologia dei democratici? La democrazia costituzionale è la sola forma di governo e di società nella quale tutti possono vivere secondo le loro idee ed essere come sono (anche la bruttezza ha diritto di esistere, pensava Walt Withman) senza dover subire discriminazioni o essere subordinati al potere e al volere di altri, per le ragioni più diverse che vanno dal maggior potere economico all’appartenenza a un’identità (religiosa, culturale o etnica) maggioritaria. La democrazia ha un fondamento morale ben chiaro: quello dell’eguaglianza; e un fine altrettanto chiaro: la libertà individuale. Come fu chiaro in Atene venticinque secoli fa: la democrazia è governo dei molti, ovvero di coloro che sono cittadini ordinari (non nobili e non necessariamente ricchi) e non vogliono che la loro condizione sociale sia una ragione sufficiente per essere impediti nella loro libertà o essere trattati come inferiori. Democrazia è il governo che ha la libertà come mezzo e fine perché ha l’eguaglianza come fondamento.

Confondere l’eguaglianza con l’egualitarismo è quanto di più sbagliato e dannoso. Del resto se rivendichiamo pari opportunità è perché presumiamo di essere uguali nei diritti fondamentali e in quelli politici. E’ vero, come scrive Antonio Polito, che la storia delle ideologie egualitarie è stata una storia tragica. Ma lo è stata perché ha dissociato l’eguaglianza dalla libertà individuale, mentre l’esperienza democratica, ce lo ha insegnato Aristotele, pertiene a quella società nella quale ciascuno può “vivere come meglio crede” senza subire violenza o senza essere subordinato. La differenza è possibile (perché non è una ragione di discriminazione) solo dove c’è questo tipo di eguaglianza, il solo che rispetti il “qui ed ora” delle persone concrete.

Nell’Italia del Novecento furono i liberalsocialisti a interpretare questi valori nella maniera forse più compiuta e chiara; essi possono per questo essere considerati i padri fondatori della nostra cultura democratica; capirono che non si può difendere un buon principio servendosi di una cattiva teoria. La cattiva teoria è identificare eguaglianza con egualitarismo. Il buon principio è l’eguaglianza dei diritti civili e politici e delle opportunità. Per chi si identifica con i valori democratici (non solo con le istituzioni della democrazia costituzionale) l’eguaglianza non può essere che un buon principio: eguaglianza nella libertà che ciascuno deve avere di perseguire i propri piani di vita nel rispetto delle scelte altrui. Senza questo principio non trovano posto né la libertà né la tolleranza.

Non trovano posto cioè i due punti di riferimento che soli ci posso aiutare a governare una società multiculturale come è quella moderna occidentale, e quella italiana in particolare. Far credere che si possa “decidere” di essere o non essere una società multietnica è semplicemente demagogico, perché noi siamo già, nei fatti, una società di questo tipo, sia che viviamo a New York come a Milano. La vera sfida è oggi governare una società che non può più distribuire diritti e opportunità soltanto fra coloro che sono socialmente e culturalmente eguali (cioè identici), secondo il modello mono-nazionale della socialdemocrazia che ha costruito il welfare state nel dopoguerra. Dissociare la cittadinanza dal sostrato nazionalistico per ancorarla al valore della persona, quale che sia il suo credo religioso, il suo genere, la sua preferenza di vita. La condizione multiculturale nella quale ci troviamo, nostro malgrado e che lo vogliamo o no, ci dà in effetti una grande opportunità: quella di riportare l’ideale democratico al suo originario significato di riconosce il valore di ogni essere umano per la semplice ragione che esiste. In questa scarna semplicità è il concentrato di una tradizione millenaria, classica e moderna, laica e religiosa. Sono questi, mi sembra, i valori morali e politici sui quali chi oggi è di sinistra si riconosce e si distingue: sono gli stessi principi che hanno segnato il cammino lungo e complesso della democrazia.

 

 


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