La provocazione
l’ha lanciata John Lloyd sulla pagine di Repubblica
in una giornata di tardo agosto: il socialismo è
morto? La visione della sinistra europea può
ancora dichiararsi socialista, quando liberalizzazioni,
equilibrio dei conti, assimilazione di istanze un tempo
ritenute moderate sono ora tra gli obiettivi delle coalizioni
progressiste? Dalla sinistra ci si attende, è
vero, un “approccio maggiormente sociale”
e “un atteggiamento più liberale nei confronti
delle questioni sociali e individuali” che può
tradursi in un cambiamento in meglio nei diritti e nelle
vite delle persone. Ma si tratta tuttavia di “differenze
relative, perché dai governi di destra non ci
aspettiamo che siano contrari a queste cose, quanto
meno non in modo esagerato e drastico”. Così,
secondo Lloyd, non solo i partiti di sinistra non credono
più a provvedimenti socialisti in campo economico,
ma è la stessa parola a non evocare più
alcun significato. Scrive il giornalista inglese: “In
questa fase della storia europea, il socialismo –
se con questa parola si indica un insieme di misure
economiche e sociali, più che una memoria storica
– non ha più significato: se fa appello
ai militanti più anziani, non da più la
carica ai giovani; se evoca la visione di un grande
passato, ipoteca il futuro”. Questo non vuol dire
tuttavia che i partiti di centrosinistra debbano rinunciare
ai propri obiettivi, che sono quelli di rendere efficienti
sanità, educazione e pensioni, fornire spazio
all’espressione artistica e personale, promuovere
la partecipazione, esprimere ottimismo sociale, migliorare
l’ambiente, assistere le persone più indigenti
e vulnerabili, lottare per la democrazia e contro l’apatia
e la frammentazione della società. In questo
senso, la creazione di un nuovo partito, di una nuova
forza, potrebbe “dare nuovo vigore a una politica
progressista per questo secolo”.
A Lloyd ha risposto con passione Giuliano Amato, che
si è definito “fiero di essere socialista”.
Dice il Ministro dell’Interno: “Sento il
bisogno di rivendicare quei tratti identitari, che il
socialismo lo fanno riconoscere più nella sinistra
dei diritti e del pluralismo di oggi, che in quella
dello statalismo di ieri”. La difesa dell’“orgoglio
socialista” – che costituisce una diretta
risposta alla tesi di chi ne decreta la morte –
è cioè per Amato legata al fatto che,
nei suoi tratti originari, l’aspirazione all’eguaglianza
era collegata nel socialismo alla libertà come
un corollario naturale. Per questo il “socialismo
liberale” è un fecondo ossimoro a cui tornare
dopo le tragedie del socialismo storico (della stessa
opinione Franco Giordano, che, ritenendo il socialismo
di oggi più vivo di quello di ieri, si chiede:
“Davvero si può ancora ritenere, come ha
fatto a suo tempo lo storico Fukuyama, che dopo l’Ottantanove
sia finita nientemeno che la storia? E che la nozione
di socialismo coincida integralmente, fino a identificarvisi,
con la sua concretizzazione ‘reale’”?).
Tuttavia, scrive il ministro dell’Interno, nella
sua battaglia volta a garantire che la libertà
“sia per i più” – battaglia
che distingue ancora nettamente destra e sinistra –
il socialismo liberale deve unirsi ai movimenti, “in
genere di ispirazione religiosa”, orientati alla
solidarietà e alla responsabilità. “Con
loro e non solo con loro deve altresì creare
una rete che, in ogni parte del mondo, la libertà
eguale la radichi e la faccia maturare, tagliando l’erba
sotto i piedi, non solo ai tradizionali fattori di sfruttamento
e di emarginazione, ma anche alle ideologie radicali
e ai populismi che, in nome della emancipazione, minacciano
di produrre nuove e vecchie schiavitù e di destabilizzare
il mondo”, scrive Amato.
Nel dibattito tra Lloyd e Amato sono intervenute poi
molte altre voci. A Lloyd hanno fatto ad esempio eco
i sociologi Alaine Touraine e Anthony Giddens. In particolare,
l’ex direttore della London School of Economics
conferma il “decesso” dell’ideologia
socialista. Se infatti è vero che il capitalismo
ha bisogno di regole, dice Giddens, è tuttavia
evidente che il tipo di problemi da affrontare è
completamente mutato: occorre espandere il mercato,
liberalizzare il lavoro, concepire il welfare come un
meccanismo di investimento sociale, aiutando le persone
ad “aiutarsi”. Addirittura, dice, “la
sinistra non può più definirsi nei termini
di una concezione classica delle libertà civili”,
perché non è certo di destra combattere
la criminalità, l’immigrazione, il terrorismo.
Di rilancio politico della tradizione socialista parla
invece lo storico Massimo Salvadori, che aggiunge polemicamente:
“È solo il socialismo a non essere in buona
salute? Dove e chi sono le correnti, le organizzazioni
e i partiti in grado di lanciare messaggi limpidi, di
proporre piattaforme davvero efficaci in relazione ai
problemi sempre più complessi della governabilità
dell'Occidente e più in generale del mondo?”.
La verità è che, come mette in luce Alfredo
Reichlin, di fronte a questi problemi – come la
nuova trasformazione del capitalismo che modifica la
natura dello Stato e dei mercati, con la formazione
di “una nuova classe globale, planetaria, fatta
di finanzieri, grandi manager, fruitori di nuove rendite”
– occorre una nuova forza riformista storica,
che presuppone sì la fine del vecchio impianto
su cui era costruito il pensiero del socialismo, ma
non implica che la storia del socialismo sia finita.
Una simile opinione è quella del presidente
della Camera Fausto Bertinotti, che lega l’attualità
del socialismo alla virulenza delle ingiustizie sociali:
“Tanto più una posizione si ripropone come
socialista tanto più è indotta a denunciare,
a differenza di quella liberista, la crescente gravità
delle disuguaglianze e la loro insostenibilità
per il futuro della democrazia e della civiltà”.
Altrettanto netta la scelta di Dominique Strauss Kahn:
“Non si può rinunciare alla giustizia sociale,
a meno di rinunciare al socialismo, e io non rinuncio!”.
Il dibattito sull’attualità del socialismo
si lega a doppio filo a quello sull’opportunità
di un Partito democratico. Lo ha dichiarato con chiarezza
Piero Fassino, secondo cui la “riflessione aperta
da Repubblica sulle prospettive della sinistra
e del “socialismo” investe direttamente
il nodo della collocazione europea e internazionale
del futuro Partito Democratico”. Dunque quest’ultimo
potrà forgiarsi dell’appellativo di socialista
e situarsi nel Pse? (E se no, che ruolo dovrebbe svolgere
in esso la tradizione socialista?). Per Fassino, il
rapporto con la famiglia socialista europea è
ineludibile, per il semplice fatto che essa è
“l’unica famiglia riformista presente in
tutti i paesi dell’Unione, con partiti di vasta
rappresentatività elettorale e politica e di
consolidata esperienza di governo”.
Più cauto invece il sindaco di Roma Walter Veltroni,
anch’egli noto “sponsor” del Partito
democratico, secondo cui quest’ultimo “non
è il venir meno di una visione, di un'idea di
società, del perseguimento di grandi obiettivi,
ma è la ricerca di strumenti nuovi e concreti
per rispondere ai compiti che sono della sinistra”.
Tuttavia è evidente, scrive Veltroni, che la
tavola dei valori del Partito democratico “non
potrà venire solo da quella storia, e nemmeno
semplicemente dal suo aggiornamento. Ha ragione Lloyd:
la visione da dare a chi ancora chiede valori in cui
credere è necessariamente pluralista, perché
plurali sono le nostre società, le società
delle nuove tecnologie, dell'economia globale, degli
individui e non più delle classi, dei “consumatori”
e non solo dei ‘produttori’“.
In ogni caso, il dibattito sul socialismo ha vivificato
e alimentato quello sul Partito democratico, sul quale
il centrosinistra continua a fare passi in avanti, nonostante
le divergenze su temi sensibili, come quelli bioetici.
E sicuramente i partiti dell’Ulivo farebbero bene
a seguire l’appello di Amato, che invita a non
fermarsi sullo scoglio della collocazione europea del
futuro Partito democratico. La domanda su questo punto
infatti, non va fatta prima, ma dopo, perché
“il percorso si chiarisce mentre si cammina. Se
si vogliono eliminare gli ostacoli prima di essere partiti
non si parte mai”.
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