Tratto
dal quotidiano Europa.
È utile al processo costituente del Partito
democratico la discussione avviata dall’articolo
di Lloyd “Che cosa vuole dire de?nirsi socialisti”
e proseguita su Europa con gli interventi di
Amato, Polito, Bosetti e Urbinati. È utile perché
a questo processo i socialisti possono partecipare da
protagonisti se sono al contempo ?eri interpreti della
loro tradizione ed esperienza politica, e perfettamente
consapevoli di ciò che c’è di caduco,
inutile e addirittura dannoso in quella stessa tradizione.
Meglio: possono partecipare da protagonisti solo se
e proprio perché hanno consapevolmente operato
le necessarie rotture di continuità con quella
parte della loro tradizione che – all’inizio
del nuovo secolo – costituisce piuttosto un freno
che non un utile bagaglio di attrezzi per il governo
della società contemporanea ispirato a ?ni di
sviluppo quali-quantitativo. È qui che si incontra
l’ossimoro caro a Giuliano Amato: socialismo liberale.
La sinistra, come noi la conosciamo in Europa, ha duecento
anni di vita: nei primi cento, è stata liberale.
Nei secondi, è stata socialista.
Quando – ed è stato per poco, dopo la seconda
guerra mondiale – socialismo e liberalismo si
sono concepiti come amici ed hanno cooperato, è
stata età dell’oro: suffragio universale
e alternanza, stato sociale e piena occupazione.
Più spesso, nel Novecento, queste due tradizioni
ed esperienze della sinistra si sono concepite come
nemiche l’una dell’altra, e si sono combattute:
è stata la tragedia del comunismo. In Europa
e in una parte grande del mondo. Ma anche quella componente
della sinistra socialista che ha ri?utato e combattuto
l’ubris comunista – la socialdemocrazia,
emersa vittoriosa dal grande scontro interno alla sinistra
che ha dominato il Novecento – si è a lungo
pensata ed organizzata come alternativa al liberalesimo.
Di qui la degenerazione burocratica e statalista che
ha esposto la sinistra socialista alla formidabile offensiva
politico-culturale ed economico-sociale della destra
neoliberale. Per reagirvi con successo, la sinistra
socialista ha avuto bisogno di una ideologia in senso
forte. Ed è tornata a Bernstein.
Cioè a quel revisionismo di fine Ottocento/inizio
Novecento che “ha introdotto nel socialismo distinzioni
di principio, un conflitto di mentalità, differenze
che riguardano la definizione stessa di socialismo”
(Ranieri e Monopoli, 1993). Non sembrino astrattezze
e scolasticismi: è nella elaborazione teorica
e nella concretissima battaglia politica di questo revisionismo
che trova le sue radici quel rapporto di famiglia tra
socialismo e liberalesimo che è l’elemento
dinamico della nostra tradizione politica. Un dinamismo
che nasce esattamente dal fatto che, contrariamente
a quel che sembra pensare Lloyd, socialismo liberale
e socialismo statalista non sono due deboli caratterizzazioni
di una realtà sostanzialmente unitaria (il movimento
socialista), ma costituiscono due tradizioni nettamente
distinte non solo quanto ai mezzi, ma anche e soprattutto
quanto ai fini della lotta politica e sociale: la libertà
eguale dei molti, di tutti, per la prima, perennemente
perseguita e mai compiutamente realizzata, attraverso
tentativi e approssimazioni, errori e correzioni, usando
il mercato per il conseguimento di obiettivi di interesse
collettivo e non pretendendo mai che sia lo stato a
stabilire ciò che è bene per l’individuo;
il lineare progresso verso l’eguaglianza negli
esiti, per la seconda, attraverso un crescente allargamento
degli spazi dello stato, anche a ingiustificata limitazione
di quelli di libertà dei singoli.
La prima, attenta ai fallimenti dello stato almeno
quanto a quelli del mercato. La seconda unicamente vocata
a correggere, attraverso lo stato, quelli del mercato.
Là dove e quando la sinistra socialista e socialdemocratica
ha indirizzato per tempo la sua ricerca e il suo sforzo
di innovazione lungo il filone del socialismo liberale,
sempre è riuscita a riproporsi come protagonista.
Ha vinto e ha perso, ovviamente – nel conflitto
con i conservatori – ma non ha mai lasciato il
campo libero ad una competizione interna alle sole forze
di centrodestra, come è avvenuto in Francia,
alle ultime Presidenziali (ballottaggio tra Chirac e
Le Pen). La Francia, non a caso: l’unico grande
paese europeo (per quanto mi è dato di conoscere)
nel quale ad un congresso socialista non si possa pronunciare
l’espressione “socialismo liberale”
senza essere sommersi da unanimi, indignate reazioni
(ora, anche da quelle parti, pare ci stia provando –
in via di fatto, senza dirlo – Sègoléne
Royal. Auguri).
Naturalmente, l’evoluzione – nel senso di
una nuova stagione di incontro tra socialismo e liberalesimo
– è stata più facile e feconda là
dove trovava un humus meglio predisposto (il Regno Unito,
patria dell’incontro tra i liberali Keynes e Beveridge
e la forza del movimento operaio laburista; la Germania
della Spd di Bad Godesberg).
E là dove la lotta politica per imporre questa
visione nei partiti socialisti è stato più
esplicita ed apertamente collegata ad una rottura di
continuità: di teoria e concezioni ideali, di
programmi, di personale politico.
Quando la lotta politica non è stata esplicita;
quando si è fatta prevalere l’esigenza
della continuità rispetto a quella della rottura;
quando i potenziali protagonisti della necessaria “rivoluzione
liberale” della sinistra hanno pensato che sarebbe
stato più agevole conquistare prima la leadership,
su posizioni di sostanziale continuità e rassicurazione
dei militanti, per realizzare poi la necessaria innovazione,
gli esiti sono stati più incerti.
E troppi militanti si sono ritrovati – per dirlo
con Luciano Cafagna – “con le vecchie parole
in mano, a guardarsele, in attesa di qualcuno che dia
loro un senso”.
Finisco, tornando al Partito democratico, che con tutta
questa storia c’entra, eccome. In primo luogo,
perché la sinistra socialista italiana può
essere componente dinamica della costituente del nuovo
partito se – anche attraverso il prossimo congresso
dei Ds – realizza quella “rivoluzione liberale”
nella propria cultura politica che è stata sempre
promessa, ma mai effettivamente realizzata attraverso
una battaglia politica portata a fondo. Un esempio –
legato alla recente cronaca politica – può
servire a chiarire di che cosa si tratta: nella discussione
sulle candidature a presidente della Repubblica, un
membro della segreteria nazionale dei Ds ha replicato
al sottoscritto, che aveva proposto Amato, Napolitano
e D’Alema come possibili componenti di una rosa
di candidati: “Comunque, Amato non è nostro”.
Giuliano Amato: vice presidente del Pse, candidato dei
Ds alla carica di presidente (sconfitto da Rasmussen),
ed esponente tra i più autorevoli proprio di
quel “socialismo liberale” che è
l’unico socialismo che esce vittorioso –
e fiero di sé – dal Novecento. Se ancora
oggi a qualcuno “di noi” viene fatto di
dire che “Amato non è nostro”, forse
non era del tutto insignificante l’idea di quanti
– qualche anno fa – proponevano di sceglierlo
come naturale leader del socialismo italiano per impegnare
credibilmente quest’ultimo nella costruzione di
un soggetto politico riformista a vocazione maggioritaria.
In secondo luogo, è l’aggettivo liberale
che segue il sostantivo socialismo a mettere in comunicazione
tra loro le diverse tradizioni politico-culturali che
possono e vogliono svolgere una funzione dinamica nella
costituente del nuovo partito. Esattamente come accade
per il riformismo di matrice ed ispirazione cattolica.
Anche a questo proposito, un esempio servirà
a chiarire.
Tra i fattori di ostacolo al processo di costruzione
del Partito democratico, campeggia da sempre –
e in posizione eminente – il tema del rapporto
tra etica e politica.
Da ultimo, coniugato attraverso l’oggetto del
referendum sulla fecondazione medicalmente assistita:
socialisti da una parte, per la libertà di ricerca
scientifica sulle cellule staminali anche embrionali;
cattolici democratici dall’altra, in nome dell’embrione
– persona in potenza.
Poco prima della pausa estiva, il gruppo dell’Ulivo
del Senato (a qualcosa questi gruppi uniti dell’Ulivo
servono, come si vede) ha messo a punto una posizione
che supera la contrapposizione di principio iniziale,
attraverso un processo logico-politico ispirato da un
approccio liberale: a) l’embrione ha dignità
umana, quindi non può essere “prodotto”
a scopo di ricerca. Né può essere distrutto;
b) quando l’embrione “soprannumerario”
non può più essere usato a scopi di riproduzione,
e solo allora, può esserlo per la ricerca su
gravi malattie degenerative.
Non ho qui lo spazio per dimostrarlo analiticamente,
ma a me pare piuttosto evidente che sia stato il comune
riferimento al liberalesimo dei suoi estensori a consentire
a questo documento dell’Ulivo di comporre in una
precisa proposta politica – di governo efficace
del problema – posizioni in partenza apparentemente
inconciliabili.
Da ultimo, una osservazione ad Emanuele Macaluso, che
sul Riformista chiede perché in Italia
“la discussione sull’esigenza dello stare
insieme (Partito democratico) per realizzare l’ossimoro
verte sulla separazione dalle forze che in Europa esprimono
l’ossimoro”. Il problema della collocazione
in Europa del nuovo partito c’è e va affrontato:
per ora, in verità, hanno più contribuito
a risolverlo gli amici popolari della Margherita che
stavano nel Ppe e ne sono usciti, che non noi socialisti
italiani del Pse, che dopo la lettera Amato- D’Alema
di tre anni fa non abbiamo sollecitato una discussione
in seno al Pse, sul segno da imprimere alla propria
evoluzione (anche là, il tema è: socialismo
liberale o vecchia socialdemocrazia?).
Quindi c’è certamente bisogno non di una
spinta alla separazione dal socialismo europeo, ma di
un impegno a contribuire ad animare nel socialismo europeo
in quanto tale quella stessa battaglia politico-culturale
che si è da tempo sviluppata nei partiti che
ne fanno parte, ma è totalmente assente (dopo
il fallimento dei tentativi realizzati col documento
Blair-Schroeder del giugno 1999) nel Pse.
In questo contesto, i riformisti italiani hanno due
problemi da risolvere: quello, comune col resto d’Europa,
della evoluzione in senso liberale della cultura politica
del socialismo tradizionale; e quello – tutto
nostro, originale – della costruzione del soggetto
politico “contenitore” del confronto necessario
per realizzarla. I riferimenti europei, su questo, ci
possono aiutare molto poco. Perché siamo stati
noi – nel passato più lontano (’56),
e in quello più recente (’89) – a
non cogliere le occasioni che ci sono state fornite.
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