Una grande
giornalista, cronista insuperabile, una donna coraggiosa
e impertinente, un carattere di acciaio, fonte di controverse
ed energiche polemiche. Tutti i giornali hanno omaggiato
Oriana Fallaci all’indomani della sua scomparsa
avvenuta a Firenze il 15 settembre 2006.
Molte sono le pagine che il Corriere ha dedicato
alla giornalista e scrittrice, ricche di testimonianze
che portano di fronte agli occhi episodi di una vita
da cronista in trincea, che parlano dei suoi scoop e
della vita privata, delle sue intransigenze e delle
nascoste debolezze. Ma soprattutto che mettono in risalto
le qualità che ne hanno fatto la più grande
giornalista italiana, dice il direttore del Corriere
della Sera Paolo Mieli in un messaggio video, “conosciuta
in ogni angolo della terra, conosciuta per anni, amata
e odiata non una volta sola, ma per ogni cosa che ha
scritto”. Per ogni tema di cui la Fallaci scrivesse,
sottolinea Mieli, nasceva una polemica, la gente ne
parlava in tutto il mondo, che si trattasse di aborto,
della Grecia o dell’islam. “Ogni successo
ha il suo segreto – continua il direttore del
Corriere – quello di Oriana Fallaci fu
di non voler piacere a tutti ma avere il coraggio di
portare sul proscenio le sue viscere e dire quello che
pensava nella maniera più forte; così
il suo pensiero è arrivato ovunque, dalla Cina
agli Usa”.
Ancora dalle pagine del giornale di via Solferino,
Gianni Riotta racconta che “gli americani adoravano
Oriana. L’amavano perché con la sua aria
dolce da tigre bionda con la sigaretta in bocca, aveva
divorato il segretario di stato Henry Kissinger, il
più astuto, machiavellico, bismarkiano diplomatico
del XX secolo”. I giovani che la leggono nelle
scuole, nei collages americani, nelle biblioteche affollate
dei suoi libri – spiega Riotta – cercano
nelle sue pagine risposte: vogliono sapere “come
ha fatto a viaggiare nel mondo senza mai perdere la
cicca all’angolo della bocca e il fascino da maledetta
fiorentina”. Come quella volta che, come lei stessa
scrisse, di fronte a Khomeini si tolse il velo dal volto,
lasciando l’ayatollah interdetto e conquistando
tra le donne iraniane una popolarità clandestina
che la inorgogliva.
Un ritratto al femminile è quello che firma
Natalia Aspesi su Repubblica: “Gli uomini
le correvano dietro, i giornalisti Don Giovanni di stile
Humphrey Bogart scappavano in fretta, dopo i primi sguardi
melensi, perché quella collega fisicamente attraente,
senza smancerie, rappresentava tutto ciò che
nel loro veteromaschilismo romantico temevano in una
donna”. Ma il suo carattere non le consentiva
di stringere a sé le battaglie femministe quando
i diritti delle donne diventavano attivismo politico.
“Del tutto indifferente alla sorellanza (come
alla fratellanza) – scrive la Aspesi – anzi
violenta nemica di quella che considerava un’insubordinazione
cervellotica e una invasione di campo (del suo campo,
quello della protesta, dell’indignazione e se
vogliamo, sin dall’ora, della rabbia e dell’orgoglio),
fu subito contro le donne contro”. Un carattere,
quello della Fallaci, che ha lasciato il segno anche
nella vita affettiva, nell’amore che ebbe per
Alekos Panagulis, eroe della resistenza greca nella
lotta ai colonnelli: “Però era stata lei
a lasciarlo, raccontò a un giornalista, perché
lui una volta aveva osato chiederle di lavargli i calzini”
e, conclude la Aspesi: “Era troppo inquieta, narcisista,
eccellente nel suo mestiere, troppo famosa, riverita,
temuta, perché gli innamorati si assoggettassero
a lei: che lei si assoggettasse a loro, era impensabile”.
La guerra è presente nella biografia della Fallaci
come una grande protagonista. La guerra da raccontare
con quel suo stile eccezionale, tutto centrato su se
stessa; la guerra e i personaggi, i grandi della Terra
che ne erano gli artefici, i combattenti, i nemici o
i promotori. La guerra, soprattutto una guerra, scrive
Bernardo Valli, quel Vietnam che nella vita della Fallaci
“segnava un prima e un dopo (…) Non importava
per chi uno avesse tenuto, per il Nord o per il Sud.
L’importante era che uno avesse fatto o non avesse
fatto quell’esperienza”. E che l’avesse
scritta, ne avesse raccontato i fatti e le persone,
perché, ricorda Bernardo Valli, una volta disse:
“Lo sai che sono più brava di Hemingway?”
“Voleva suscitare emozioni forti – scrive
Valli - Raccogliere consensi incondizionati o rifiuti
decisi. Con lei potevi essere amico o nemico. Nero o
bianco. Il grigio non le piaceva. L’infastidiva”.
La provocazione l’ha portata lontano, ma, continua
ancora il giornalista di Repubblica “Il
passaggio dai fatti alle idee non le è riuscito.
Il suo rudimentale odio per l’islam, espresso
in La rabbia e l’orgoglio, ha avuto uno straordinario
successo editoriale. Ma il successo aveva cambiato natura.
Quando esplosero le polemiche su quel pamphlet, sollecitò,
con l´orgoglio che non le è mai mancato,
l’appoggio di alcuni amici e colleghi. Ma non
lo chiedeva la cronista di un tempo. Era un’altra
persona. Anche se con la stessa voglia: stupire.
Adesso, ricordandola, è meglio fare un grande
passo a ritroso nel tempo”.
Tutta la stampa quotidiana italiana rende omaggio a
Oriana Fallaci, su ogni testata c’è un
ricordo personale di un giornalista che l’aveva
incontrata, che ci aveva litigato o che ci aveva condiviso
esperienze e giorni di lavoro; su ogni giornale titoli
e artcoli dedicate alla “piccola incazzosa della
parola scritta” (Igor Man su La Stampa),
alla “più grande giornalista italiana (…)
un personaggio il cui senso e la cui influenza sono
completamente aldilà dell’Italia”
(Lucia Annunziata ancora sul giornale torinese); su
Libero, dalle cui pagine la Fallaci prolungò
la sua invettiva contro l’islam, Vittorio Feltri
le scrive una lettera accorata e affettuosa, sul Giornale
Massimo Fini ne ricorda i litigi, il Foglio
la ritrae come una “Dolce furia armata”.
E gli ultimi scritti, le parole della “rabbia
e dell’orgoglio” sono riprese su Europa
da Khaled Fouad Allam che, da intellettuale musulmano,
ricorda quando la Fallaci lo aveva cercato per incontrarlo,
per discutere con lui di islam, del fondamentalismo,
di terrorismo e di guerra, ma le circostanze vollero
che quell’incontro non si facesse mai. Ora Fouad
Allam lo rimpiange perché, scrive: “Avrei
voluto dirle che anche noi musulmani soffriamo, ma che
agli occhi del mondo la nostra sofferenza sembra non
esistere. (…) Avrei voluto capire perché
quella rabbia su noi musulmani, su un intero mondo,
su un’intera civiltà, capire perché
abbia voluto trascinarci nella derisione. Forse Oriana
Fallaci non aveva capito che scrivendo ciò che
ha scritto ci trascinava in una doppia sofferenza –
il fondamentalismo islamico, che cerca di annientarci
ogni giorno, e lo sguardo di chi vede impressi su di
noi l’ombra inappellabile del sospetto, il marchio
del male assoluto – e in una solitudine immensa”.
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