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Il suo stile estremo per gridare
al complotto contro l’Occidente

Giancarlo Bosetti


Questo articolo è apparso sul quotidiano la Repubblica il 16 settembre 2006


Oriana Fallaci ha portato la scrittura soggettiva fino ai suoi estremi limiti. “Soggettiva”, nel senso nel new journalism di Norman Mailer, Truman Capote, Tom Wolfe, è una scrittura che conduce il lettore dentro il punto di vista dell’autore, dentro la sua mente, come dietro il mirino di una telecamera organica inserita nei centri nervosi dello scrittore. Ma lei l’ha spinta assai più in là, questa connessione, fin nel suo corpo, agganciando lettori e lettrici fino alla propria intimità fisiologica. Lo fece nel romanzo-resoconto di un aborto (Lettera a un bambino mai nato), ma anche nelle pagine di guerra, dal Vietnam o da Beirut dove l’odore del sangue, dei morti, delle catastrofi umane, nella loro terribile e sensibile concretezza, arriva tra le righe del giornale o del libro, attraverso il tatto, l’olfatto, tutti e cinque i sensi della scrittrice, senza i filtri delle convenzioni giornalistiche e talvolta senza quelli del pudore.

Con l’11 settembre la Fallaci ha condiviso con la sua New York, che amava tanto quanto e forse più della sua Firenze, momenti indimenticabili di sofferenza e di unione solidale. Le pagine sul primo Capodanno a Times Square sono di una vitalità difficile da dimenticare, per la sapienza della costruzione, lo stile cinematografico e la escalation emotiva, dalla paura di un nuovo attentato fino alla esplosione della gioia collettiva di esistere, amare e fare bambini, intorno a una coppia che nasce quella sera.
Da allora, nel 2001, l’anno che si era malauguratamente aperto ufficialmente alle Nazioni Unite sotto le insegne del dialogo tra le civiltà, la scrittrice ha deliberatamente e sistematicamente riversato nel suo stile estremo la rabbia anti-islamica, dichiarando guerra non solo al terrorismo islamista ma alla religione musulmana in quanto tale, agli immigrati dai paesi musulmani in quanto tali e in quanto esecutori di un complotto ordito dalle “centrali” maomettane con la complicità delle élites politiche europee – tutte quante, “Sinistra al Caviale, Destra al Fois Gras, Centro al Prosciutto” – e con l’ausilio della Chiesa che “ha spalancato le porte allo straniero”. Un complotto che si è valso di registi improbabili come il tedesco Genscher o il presidente dell’Unione europea Prodi e di un vasto corteo di schiavi del Mostro per adempiere alla missione di islamizzare l’Europa e di creare “Eurabia”.

L’enormità delle tesi della Fallaci, ora fantasiose ora semplicemente cariche di errori madornali (i musulmani americani calcolati a 24 milioni, le traduzioni medievali di Aristotele considerate ininfluenti sul mondo latino, le prove fasulle del Grande Complotto di Eurabia presentate come oro colato, le vittime dell’attentato del luglio 2005 a Londra presentate come se fossero “soltanto” inglesi) non sono state adeguatamente discusse, criticate e respinte in Italia per ragioni solo in parte spiegabili.

Quando ho deciso di dedicare a questa critica un libro, Cattiva maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e il suo contagio, mi sono reso conto che nessun intellettuale li aveva veramente letti e che questa era l’unica spiegazione possibile del fatto che autorevoli scienziati della politica e autorevoli giornalisti le dessero ragione, sostenendo che aveva il merito di “porre un problema reale”, di “gettare il sasso nello stagno” e così via esorcizzando quel che la Fallaci ha veramente scritto. L’idea che attraverso i libri della sua Trilogia islamofobica – La Rabbia e l’Orgoglio, La Forza della Ragione, Apocalisse-Intervista a sè stessa – si potesse “porre” in qualche utile modo il problema, certamente reale, della compatibilità della shari’a con i diritti umani e con gli ordinamenti liberali è ancora più fantasiosa delle tesi del Complotto, del Drago e dell’Arcangelo salvatore.

Una parziale spiegazione di queste reticenze sta nella potenza di fuoco del gruppo editoriale che la sostiene, e cioè Rizzoli-Corriere della Sera. Un sostegno che non sempre in verità si mostra animato da adeguata convinzione, nonostante gli enormi spazi messi a sua disposizione, ma che è comunque efficace nel mettere il silenziatore alle critiche. In Francia, dove quel problema non si pone, anche la intellettualità ebraica più vicina a Israele e più dura con il fondamentalismo islamico, ha messo fuori gioco le tesi della Fallaci come razziste, lepeniste, indifendibili come indifendibile era la “animalizzazione” degli ebrei fatta dal Céline di Bagatelle per un massacro (Bernard-Henri Levy).

Più facile spiegare le ragioni del successo di massa delle pagine di Oriana Fallaci, un successo eccezionale perché i suoi milioni di copie non sono sostenuti dalla fama televisiva che spiega altre ascese nelle classifiche librarie: la sua scrittura, come quella di pochi altri (Montanelli, Biagi) ha la virtù di conquistare lettori che stanno di solito lontani dalle pagine scritte; al potere di seduzione delle sue pagine concorre il prestigio che l’autrice ha accumulato nei decenni con una vita eccezionale, la Resistenza con il fucile in mano a quattordici anni, la famiglia perseguitata dal fascismo, una splendida carriera giornalistica di carattere internazionale, le famose interviste con i protagonisti della storia, le ferite sul campo a Città del Messico nel ’68 durante un massacro degli studenti; e poi ancora quella vena di eroismo della prima persona, che ama presentarsi come «anticonformista» anche quando è sostenuto da vasti e concordi apprezzamenti, e che sembra essere spesso un ingrediente foriero di successo, specialmente quando si scaglia contro la immancabile egemonia del “politicamente corretto”. L’invettiva vince e seduce ma non deve essere l’invettiva del potente, bensì quella della vittima coraggiosa, del Mastro Cecco eretico portato sul rogo da un Fra’ d’Accursio di turno.

E vince se l’autore sa portare fino in fondo il suo stile rabbioso, come – non ci può essere qui alcun dubbio – Oriana Fallaci sapeva fare. Con la stessa voglia di “sputare in faccia” al Nemico lei guardava all’”Alieno”, al tumore che le insidiava la vita e che l’ha portata via. Ha confessato nell’ultimo volume della Trilogia che scriveva del suo cancro, “del dramma della [sua] malattia soltanto per aprire o rinforzare un discorso. Anzi il discorso sul cancro morale dell’Occidente e sull’ottusa ferocia dell’Islam che dichiarandoci guerra ha acceso il nuovo Incendio di Troia”. Non l’ho conosciuta se non attraverso i suoi scritti, ma è certo che non mollava mai la presa, non concedeva terreno ai suoi avversari, non aveva l’aria di una donna che si abbandona alla stanchezza.
Ed amava la scrittura fino al punto di usare il suo cancro come rinforzo stilistico, in un modo che lascia sgomento chi l’ha amata come chi l’ha criticata.


 

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