Se vi capita
di incontrare un signore in treno che cerca di spiegarvi
che lui ha inventato la macchina per il moto perpetuo
o ha scoperto un errore nel teorema di incompletezza
di Gödel, potete stare sicuri: state viaggiando
con un matto. Mi par di ricordare che secondo il senatore
Andreotti anche voler riformare le ferrovie italiane
è un sintomo certo di pazzia. Qui vi dimostrerò
che una persona sana di mente non può pensare
di riformare l’università. Per farlo vi
racconterò una storia vera.
Nel mio dipartimento – un dipartimento di filosofia
– abbiamo deciso un certo giorno che avevamo bisogno
di un ricercatore di filosofia teoretica. Abbiamo chiesto
alla facoltà di bandire un concorso ed è
partita la procedura consueta: il Rettore ha emanato
un decreto, la Gazzetta Ufficiale lo ha pubblicato,
il Ministero ha indetto le votazioni per formare una
commissione. Tutto normale (o quasi: non si capisce
bene perché un dipartimento dovrebbe far scegliere
i propri ricercatori a dei colleghi sconosciuti. Se
aveste bisogno di un’auto nuova, chiedereste ai
vostri vicini di eleggere una commissione che la scelga
per voi?)
Nel nostro dipartimento (di filosofia!) non siamo persone
molto pratiche del mondo, neanche di quello accademico.
Nella nostra ingenuità, ci siamo chiesti: perché
non far sapere in giro che stiamo cercando un ricercatore
di teoretica? Forse non tutti leggono abitualmente la
Gazzetta Ufficiale. E già che ci siamo, visto
che c’è la posta elettronica e non costa
niente, perché non scrivere un annuncio in inglese,
come quelli che spesso riceviamo dalle università
straniere? Si parla tanto del rientro dei cervelli.
Ma anche se rispondesse all’annuncio e si candidasse
al concorso uno straniero, che male ci sarebbe? Il Presidente
Mao diceva: “Non importa di che colore sia il
gatto. Basta che prenda i topi”. Il nostro ricercatore
dovrebbe essere bravo a far ricerca e a insegnare ai
nostri studenti: importa che parli italiano, non che
sia italiano. Del resto, quanti italiani insegnano nelle
università straniere!
Detto fatto, ci siamo messi a scrivere una breve e-mail
in inglese da far circolare. Subito abbiamo incontrato
un piccolo problema: tradurre “filosofia teoretica”
in inglese non è facile, per via di certe differenze
culturali che non sto a dire. Non volevamo però
inventarci noi una definizione e abbiamo pensato di
cercare sul sito del MIUR una definizione ufficiale.
L’abbiamo trovata, eccola: “Le competenze
del settore elaborano le ragioni della ricerca filosofica
attraverso il confronto critico con altre esperienze
culturali e diverse discipline, in un rapporto con la
propria tradizione e con le differenti tematiche filosofiche
specialistiche. La ricerca del settore rende conto,
da un lato, della differenza dell'esperienza filosofica,
dall'altro si pone come interlocutrice di vari saperi,
con l'obbiettivo di favorire l'approfondimento critico
e l'interpretazione delle conoscenze, della filosofia,
della comunicazione, dell'ermeneutica e delle religioni
oltre i limiti degli specialismi, all'interno e all'esterno
della filosofia”. Ah – ci siamo detti –
forse è per questo che sono pochi gli stranieri
che vengono in Italia a insegnare filosofia teoretica:
non riescono a capire che cosa sia.
Abbiamo avuto qualche altra difficoltà. Al concorso
di ricercatore, i concorrenti devono scrivere un breve
saggio. Ci siamo chiesti: devono scriverlo obbligatoriamente
in italiano? A fil di logica, si direbbe di no: devono
saper parlare in italiano per insegnare, ma possono
scrivere e pubblicare in qualsiasi lingua (meglio se
è quella più diffusa nella comunità
scientifica). Ma non si sa mai, potrebbe esserci un
regolamento che vieta di scrivere in una lingua diversa
dall’italiano. E potrebbe anche esserci un regolamento
dell’Unione Europea che dice il contrario. Abbiamo
quindi fatto scrivere dal nostro ufficio legale al Ministero,
che dovrebbe saperlo e se non risolve questi problemi,
che cosa ci sta a fare? Dopo tre mesi abbiamo smesso
di attendere una risposta.
Anche la domanda di partecipazione al concorso ci ha
dato dei grattacapi. Provatevi voi a tradurre l’elenco
dei documenti richiesti: “a) fotocopia del codice
fiscale; b) copia fotostatica non autenticata di un
documento di identità; c) curriculum debitamente
firmato, in duplice copia, della propria attività
scientifica e didattica; d) documenti e titoli, in originale
o copia autenticata, ritenuti utili ai fini della valutazione
comparativa; e) elenco firmato, in duplice copia, dei
documenti e titoli prodotti; f) pubblicazioni in originale
o copia autenticata, nella limitazione eventualmente
prevista dal bando. L’inosservanza di tale limite
comporta l’esclusione del candidato dalla procedura;
g) elenco firmato, in duplice copia, delle pubblicazioni
presentate”. E se riuscite a tradurre l’elenco
– attenzione all’autenticazione, ai commi
(b), (d) e (f) ! – provatevi a spiegarne il senso
a uno straniero, che è abituato a partecipare
ai concorsi accademici con una lettera e un CV.
Ma in qualche modo ce la siamo cavata e ci siamo consolati
pensando che della burocrazia si lamentano tutti, anche
gli stranieri. Il difficile è venuto quando il
nostro avviso ha cominciato a circolare e lo hanno ricevuto
anche i filosofi di altre università. Nel nostro
candore, pensavamo solo di dar seguito al principio
che vuole che i concorsi siano pubblici e ci siamo rimasti
male quando un amico, strizzandoci l’occhio, ci
ha chiesto “In confidenza, che cosa c’è
sotto?”. Sotto non c’era proprio niente
ma l’amico non ci ha creduto. Un altro –
una bravissima persona che ha studiato in America con
un famoso professore indiano – ci ha scritto:
“Perché mai andate a cercare gente all’estero
quando abbiamo in patria tanti ottimi studiosi?”.
Allora non era ancora cominciata la battaglia per l’italianità
delle banche e siamo rimasti a bocca aperta. Altri ancora
ci hanno guardato con compatimento e ci hanno fatto
capire che delle più elementari regole della
vita accademica noi non sappiamo neanche l’ABC.
Quello che per fortuna non eravamo tenuti a spiegare
ai concorrenti stranieri al posto di ricercatore erano
alcuni aspetti della procedura concorsuale. Per formare
una commissione giudicatrice bisogna fare una votazione.
E’ prassi normale – abbiamo scoperto –
che i concorrenti stessi facciano campagna elettorale:
si danno da fare cioè per far votare un docente
a loro favorevole. Naturalmente è del tutto legale:
dove c’è un’elezione, c’è
una campagna elettorale e perché non dovrebbero
farla gli interessati? Ma se foste stati al nostro posto,
l’avreste detto ai concorrenti stranieri? E gli
avreste spiegato che è difficile trovare chi
voglia entrare a far parte di una commissione per un
posto di ricercatore, che è composta da un professore
di prima fascia, da uno di seconda e da un ricercatore,
perché il secondo e il terzo temono di compromettere
la propria carriera assegnando il posto a un candidato
che non piace ai propri ordinari “di riferimento”
(per usare un’espressione introdotta da Bruno
Vespa anni fa)? E anche quelli di prima fascia, che
pure non avrebbero ormai niente da temere, hanno obblighi
di gratitudine se sono di fresca nomina. La nostra conoscenza
delle lingue è scadente e non ce la siamo sentita
di spiegare tutto ciò in inglese o in altra lingua
ai candidati stranieri.
Comunque, dopo circa un paio d’anni da quando
il dipartimento aveva manifestato il bisogno di un ricercatore
di teoretica, il concorso si è concluso felicemente
ed è risultato vincitore uno straniero. A lavori
conclusi, la commissione gli ha spedito un e-mail per
dirgli in confidenza che aveva vinto. Lui è stato
molto contento e ha detto: “Vengo subito!”.
Piano, non così in fretta. Prima deve attendere
una comunicazione ufficiale. “Beh – ha detto
lui – vengo almeno a conoscere il dipartimento”.
Recentemente un mio amico che è stato assunto
a Harvard mi ha raccontato che la settimana in cui ha
accettato l’offerta della facoltà (lì
hanno procedure un po’ diverse dalle nostre) i
suoi colleghi si sono riuniti e gli hanno offerto un
party per festeggiarlo, conoscerlo e fare amicizia.
Noi siamo più austeri. La comunicazione ufficiale
tarderà due o tre mesi ma da noi non si usa,
né prima né dopo, festeggiare, in nessuna
università. Normalmente i membri di un dipartimento,
appena possono, evitano di incontrarsi. Perbacco, insegnare
è un dovere, non un piacere. Il vincitore allora
se ne è andato in America, perché aveva
delle ricerche da fare. Gli abbiamo detto che corre
qualche rischio: la comunicazione ufficiale, quando
arriverà, arriverà all’improvviso
e per posta ordinaria perché le regole non prevedono
altra forma di comunicazione. Dalla data di spedizione
lui avrà trenta giorni di tempo per presentarsi
e se tarda anche di un solo giorno, decade e il dipartimento
dovrà bandire un altro concorso. Naturalmente
qualcuno di noi cercherà di rimediare al rigore
insensato delle regole e gli darà una mano, perché
è solo così che gli italiani riescono
a vivere una vita normale: lottando contro regole insensate.
Ma sarà difficile farglielo capire, perché
lui crede che le regole che ci siamo liberamente dati
rappresentino la nostra volontà e ne concluderà
che a noi importa poco della sua sollecitudine e del
suo entusiasmo. Capirà che il modo in cui svolgerà
il suo lavoro non conta, mentre conta moltissimo che
documenti e titoli siano meticolosamente autenticati.
E del resto è proprio quello che pensiamo anche
noi, in fondo.
La storia è finita. Ho dimostrato, come avevo
annunciato, che pensare di riformare l’università
è una follia? “Neanche per sogno –
mi obietterete – Hai dimostrato proprio il contrario,
perché evidentemente è possibile anche
da noi fare un concorso universitario come in qualunque
altro paese. Al massimo, si tratta di cambiare alcune
regole insensate”.
Temo che non mi abbiate capito. Non volevo affatto
dimostrare che sia difficile o addirittura impossibile
fare concorsi equi, aperti, normali. Tutt’al contrario:
volevo dimostrare che nonostante tutto è possibile
e anzi abbastanza facile. Se l’abbiamo fatto noi,
qualunque altro dipartimento potrebbe farlo, se solo
lo volesse. Ma non lo si fa. Nella Terza Olintiaca,
Demostene fa un’osservazione acuta: “…
un decreto non vale nulla se non vi si aggiunga la volontà
di eseguire con zelo ciò che è stato decretato
[perché] se i decreti potessero o costringere
voi a fare ciò che va fatto o addirittura attuare
essi stessi le cose che decretano, voi, dopo aver votato
tanti decreti, non vi trovereste ad aver concluso così
poco o, per meglio dire, nulla …”. Se Demostene
ha ragione, dobbiamo concludere che praticamente nessuno
di coloro che lavorano nell’università,
docenti e studenti, ha la volontà di cui parla
Demostene, di “eseguire con zelo ciò che
è stato decretato”. Ma è impossibile
riformare una qualsiasi istituzione senza, o addirittura
contro, la volontà di tutti coloro che ci lavorano.
Adesso la dimostrazione è conclusa.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|