Due eventi
principali hanno accompagnato il 5° anniversario
degli attentati di New York e Washington. Il primo è
il videomessaggio inviato al mondo dal numero due di
al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri. L’altro è
il discorso del Presidente Bush alla sua nazione trasmesso
da quasi tutte le emittenti televisive americane. Come
era prevedibile, la stampa e i media in lingua araba
non hanno disertato l’appuntamento.
Quanto al primo dei due eventi, la stampa araba non
sembra essere rimasta particolarmente scossa dalle affermazioni
del vice di Bin Laden e, per lo più, si è
limitata a riportare fedelmente il contenuto del messaggio.
Tuttavia sulle pagine dei grandi quotidiani diffusi
in tutto il mondo arabo, come al-Sharq al-Awsat
(Il Medio Oriente) ed al-Hayat (La
Vita), le parole di al-Zawahiri hanno fornito lo
spunto per il riaccendersi del dibattito sul “fenomeno
al-Qaeda”. All’interno di questo dibattito
una cospicua parte di intellettuali considera la crescita
dell’organizzazione terroristica come il prodotto
dell’atmosfera di tensione e instabilità
provocata dalla politica statunitense nella Regione
e dalle preoccupazioni per la sorte del popolo palestinese.
Altri invece considerano l’emergere di al-Qaeda
e dei gruppi ad essa affiliati come un effetto dell’incapacità
dei governi arabi a raccogliere la sfida delle riforme
democratiche. “Entrambe queste visioni –
commenta dalle pagine di al-Sharq al-Awsat Mshari al-Zaydi,
esperto di fondamentalismo islamico – sono incapaci
di spiegare al-Qaeda ‘dal di dentro’”.
In particolare non danno ragione del fatto che “tanti
giovani possano scegliere di gettare le loro vite e
lasciare tutto per la causa del fondamentalismo”.
Bisogna perciò riconoscere, secondo al-Zaydi,
che è la forza della da’wah (termine
arabo traducibile come “propaganda islamica”
ma anche come “invito alla conversione”)
di al-Zawahiri, con tutto il suo contenuto radicale,
a conquistare adepti all’organizzazione. Essa
fa leva sul senso di frustrazione che affiora sempre
nei contesti dove si verifica una perdita dei valori
tradizionali.
“La responsabilità principale, tuttavia
– spiega Magdi Khalil in una rubrica sullo stesso
quotidiano – ricade sul mondo islamico che non
ha saputo gestire il confronto con il terrorismo ed
ha perso la battaglia per le riforme, la democrazia,
le libertà fondamentali, i diritti umani e quella
per l’apertura e la cooperazione positiva con
il resto del mondo”. Si comprende allora perché,
nell’indicare i suoi prossimi obiettivi politici
e strategici, al-Zawahiri ricorra ancora al linguaggio
tradizionale della retorica islamista che legge il mondo
attraverso il filtro dello scontro tra le religioni.
Da una parte i combattenti islamici che sognano “il
ritorno del Califfato”, come dichiarava lo stesso
al-Zawahiri in una lettera al suo “collega”
iracheno al-Zarqawi datata giugno 2005; dall’altra
i “nemici Sionisti e Crociati” (leggi Israele
e l’Occidente cristiano), ladri del “petrolio
musulmano”.
Se il messaggio di al-Zawahiri ha lasciato piuttosto
indifferente la stampa araba nel suo complesso, ben
più accese sono state le polemiche montate intorno
alle affermazioni di Gorge W. Bush nel suo discorso
televisivo per il 5° anniversario degli attentati
alle Twin Towers. In particolare l’affermazione
di Bush secondo cui, dopo l’11 Settembre, gli
Usa sarebbero un Paese più sicuro, è stata
bersaglio degli strali di numerosi editorialisti dei
principali quotidiani arabi. Ciò che accomuna
la maggior parte di essi è la sensazione che
le parole di Bush servano più a tranquillizzare
se stesso e a convincere gli americani della necessità
di mantenere l’esercito impegnato sui diversi
fronti della “guerra al terrorismo”.
“In realtà – commenta sul sito di
al-Jazeera As’ad Abu Khalil, professore di Scienze
Politiche nell’Università della California
– il mondo è oggi meno libero e meno sicuro
e ciò che si prospetta all’orizzonte è
ancora più preoccupante. Quando Bush uscirà
dalla Casa Bianca il popolo americano si renderà
conto dell’entità del danno che il Presidente
ha arrecato al suo Paese e alla causa della pace nel
mondo”.
“Di fatto – aggiunge Abu Khalil –
l’amministrazione Bush non è diversa da
Bin Laden quanto all’uso delle bombe e della violenza.
Inoltre concorda con Bin Laden riguardo alla concezione
del mondo diviso in due blocchi contrapposti”.
Sulle pagine del quotidiano al-Hayat, uno
dei suoi più noti editorialisti, Gihad al-Khazin,
accusa l’amministrazione Bush di “atteggiamento
irrazionale” e di “razzismo” poiché
individuerebbe nelle caratteristiche della razza araba
un’innata inclinazione verso il terrorismo. Solo
così è possibile spiegare, secondo al-Khazin,
l’insistenza dell’amministrazione americana
per l’avvio della guerra in Iraq nonostante fosse
a conoscenza dei rapporti della Commissione per l’Intelligence
del Senato, che formulavano seri dubbi sulla presenza
di armi di distruzione di massa in quel Paese. Questi
rapporti, pubblicati solo di recente a causa del segreto
di Stato da cui erano coperti, rivelano anche come,
al momento dell’aggressione americana all’Iraq,
non esistessero prove reali del coinvolgimento di Saddam
Hussein con le attività dei gruppi terroristici.
Al contrario, i rapporti parlano di una precisa volontà
del ra’is di catturarne i capi, che considerava
elementi pericolosi per il regime. La pubblicazione
di questi fascicoli ha scaldato gli animi dei giornalisti
che, persino dalle pagine dei quotidiani di orientamento
liberale e filoccidentale, si sono scagliati contro
il Presidente americano e il suo staff.
Capovolgendo la retorica statunitense, al-Khazin parla
di una “organizzazione del male” israeliana
che, appoggiata dagli “estremisti americani”,
avrebbe messo alla Casa Bianca un “Presidente
senza scrupoli” che governasse in sua vece. Questa
“banda criminale” tenta di realizzare il
suo “utopistico progetto imperialista con il sangue
degli arabi e dei musulmani”. A queste espressioni
si accompagnano quelle altrettanto dure di ‘Omar
Hilmi al-Ghawl che afferma: “i primi terroristi,
nonché architetti e organizzatori del terrorismo
dentro e fuori il loro Paese, sono le diverse amministrazioni
americane susseguitesi negli ultimi anni, che hanno
portato avanti una strategia di aggressione contro i
paesi più poveri e deboli, iniziando da quelli
arabi e specialmente da quelli che posseggono il petrolio”.
Secondo molti l’anniversario dell’11 Settembre
dovrebbe rappresentare per gli Usa un “tempo di
bilanci” e un’occasione per fare “un
esame di coscienza”. Infatti “l’America
avrà forse reso più sicuri i propri confini
– scrive ‘Abd al-Bari ‘Atwan, direttore
di al-Quds al-‘arabi (Gerusalemme araba),
il principale quotidiano palestinese – ma ha mandato
i propri figli a morire in Afghanistan e in Iraq in
uno stillicidio di vittime che non accenna a fermarsi”.
Inoltre gli Usa non sono riusciti a trasformare né
l’Iraq né l’Afghanistan in Paesi
con dei governi stabili mentre, al contrario, hanno
reso tutta la Regione assai più instabile di
quanto non fosse prima dell’11 Settembre, generando
in tutto il mondo un crescente odio antiamericano.
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it
|