Questo
articolo è tratto dall’ultimo numero di
Reset,
che tra qualche giorno sarà in edicola e in libreria.
Unire
ciò che è separato, costruire connessioni
fra punti irrelati, superare ostacoli materiali e culturali:
il “ponte” assolve a queste funzioni, ovvero
avvicina ciò che è distante, rende relato
ciò che è diverso, connette polarità
attraverso la mediazione. Ma il ponte contiene in sé
la dialettica del proprio altro: il germe della distruzione,
della separazione e dell’allontanamento tra ciò
che era coevo. L’allegoria del ponte può
raccogliere in sé la complessa storia del Mediterraneo,
il mare nostrum, ventre per la libera circolazione di
merci e di idee, ma anche luogo di guerre e di sopraffazione.
La stessa dinamica si riflette sulla storia del pensiero
occidentale, contorto tra tentativi di dialogo culturale
tra le tre maggiori religioni monoteistiche e radicalizzazione
politica delle loro differenze.
Come esemplificazione allegorica di tale dinamica storica,
politica e teorica, prenderò l’immagine
evocativa e contraddittoria dello Stari Most, il Ponte
Vecchio di Mostar che determina non solo il nome della
città, bensì la sua stessa esistenza:
“mostari” significa infatti “custodi
del ponte”. Le allegorie portano infatti con sé
la fenomenologia delle ambivalenze. Come notava infatti
Walter Benjamin, nella loro violazione di confini “le
allegorie sono nel regno del pensiero, quello che sono
le rovine nel regno delle cose. […] Le antinomie
dell’allegorico constano nella loro immanente
dialettica: ogni personaggio, qualsivoglia cosa, qualsiasi
situazione possono significarne un’altra qualunque.
[…] Perché l’allegoria è le
due cose insieme: convenzione ed espressione; e queste
sono per natura contraddittorie” (W. Benjamin,
Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971, pp.
183 ss.). I significati dialogici e le interpretazioni
oppositive attribuite al Ponte Vecchio nel corso del
tempo vanno proprio in questa direzione.
Lo
Stari Most era stato costruito tra il 1557 e il 1566
dall’architetto turco Hajruddin, per volere del
sultano Sulejman il Magnifico che esercitava allora
il dominio ottomano sulla Bosnia-Erzegovina. Il Ponte
Vecchio era considerato un prodigio architettonico:
era un’unica campata lunga 29 metri, composta
da oltre 1000 in blocchi di pietra calcarea. Era simbolo
di prosperità economica e culturale, di scambi
e di dialogo, ma era soprattutto il tramite che saldava
le due rive del fiume Neretva e univa popolazioni diverse.
Alludeva a una convivenza riuscita. Era il genius loci,
lo spazio sacro delle memorie quotidiane e insieme collettive,
tanto da essere familiarmente chiamato col solo nome
di Vecchio. Era un crogiolo che racchiudeva abilità
tecnica, dominio politico, vita collettiva, transiti
quotidiani, identità secolari, prosperità,
incontri fra culture diverse, ma anche guerra e ricostruzione.
La sua funzione e la sua sorte cambiarono infatti radicalmente
alle 10.30 del 9 novembre 1993, quando le milizie croate
dell’autoproclamata Repubblica di Herceg Bosna
lo abbatterono con venti granate. Andò velocemente
in frantumi. Con lui cedettero anche l’ossatura
della convivenza civile e la struttura statale che erano
state alla base dell’esperienza del socialismo
jugoslavo. Lo Stari Most non era un bersaglio militare,
non aveva un valore strategico: era però un potente
simbolo culturale che doveva essere abbattuto. Identità
individuali e memorie collettive dovevano essere cancellate
per far posto alla violenza e all’ordine delle
nuove ideologie etniche. Per conseguire l’obiettivo,
venivano impiegati svariarti mezzi: dalla distruzione
dei punti di riferimento politici e dei simboli culturali,
fino all’annientamento fisico vero e proprio.
Del maestoso ponte rimase solo un rudere: ci sono due
braccia protese verso il nulla, senza più sostegno,
o rmai separate dal cielo; ma rimangono come silenziose
sentinelle a testimonianza non solo dell’avvenuta
frattura architettonica, bensì della radicale
separazione imposta ai cittadini, ridotti a esseri individuati
solo S o c i e t à 4 5 Settembre - Ottobre 2006
- Numero 97 mediante la loro presunta appartenenza etnica.
Ma i potenti pilastri avevano retto all’urto
bellico e alla deflagrazione: lo Stari Most poteva assurgere
a nuova vita. Il 23 luglio 2002, venne inaugurato il
nuovo Ponte Vecchio, ricostruito grazie allo sforzo
congiunto tra istituzioni locali, donatori internazionali
e Unesco. Sembra essere identico al precedente, forse
più bianco e levigato. Ma la città non
è più quella di una volta: è ormai
divisa da confini invisibili; è separata dai
lutti, distinta in quartieri “etnicizzati”.
Sarà capace il nuovo ponte di Mostar di ridare
vitalità alla popolazione disorientata dall’urbicidio
e dal nuovo ambiente antropico? Faciliterà seppur
tiepidi tentativi di riconciliazione? E quale sarà
mai il contributo – se pur simbolico – che
il nuovo Ponte Vecchio potrebbe dare per il riavvio
di un dialogo fruttuoso e collaborativo tra cittadini
e le diverse culture dei paesi europei? E in generale,
come potrebbe mediare il riattraversamento fra Occidente
e Oriente?
Come scriveva acutamente Paolo Rumiz nel 2003, “Oggi
ci accorgeremmo che era impossibile intendere Kabul
e Bagdad per il semplice fatto che non avevamo capito
la Bosnia, grande avanguardia di Bisanzio nel cuore
dell’Europa. […] La guerra dei Balcani non
era affatto l’ultima guerra del Novecento. Era
la prima guerra del terzo millennio. […] Fu l’aggressione
della modernità contro un mondo che si ostinava
a credere nell’invisibile, la rabbia di una civiltà
senza più miti e senza più fede contro
un Oriente che condensava troppi simboli”. (Paolo
Rumiz, “Mostar e il ponte che non unisce più”,
in “La Repubblica “, 2 novembre 2003.)
Già il Novecento. Nonostante il trauma dell’imperialismo,
il retaggio di due guerre mondiali, l’eredità
della Shoah, il secolo scorso si è concluso nell’area
mediterranea con lo scoppio di guerre etniche, genocidi,
fondamentalismi bellici, conflitti identitari e con
nuove guerre che sembrano difficilmente interpretabili
e giudicabili con l’impiego del tradizionale armamentario
del diritto internazionale sullo jus ad bellum e jus
in bello. E anche la questione dell’intervento
umanitario sembra tutta da ridefinire.
Non si tratta qui di un semplicistico “scontro
tra civiltà” che distano polarmente fra
di loro, ma dell’impossibilità stessa dell’Occidente
di capire se stesso, la sua logica, i suoi simboli e
le sue contaminazioni. In particolare, l’Occidente
mediterraneo non sembra più in grado di comprendere
appieno la molteplicità delle sue nature politiche
e determinazioni culturali, ma anche di gestire l’aggressività
di nuovi processi di razionalizzazione, rinforzati dalle
finalità strumentali della globalizzazione. Un
“dialogo” interculturale non è dunque
possibile se non si rendono più flessibili i
confini e le mappe mentali, se ci si pone di fronte
alle alterità, se non si comprendono –
impiegando mezzi diversi – quei nessi molteplici
e stratificati che connettono fra di loro azioni ed
effetti. Uno dei maggiori problemi che l’Occidente
si trova ad affrontare è infatti la questione
delle alterità: alterità come diversità,
come popolazioni lontane, come vicini indotti all’assimilazione,
come persone marginalizzate, come nuovi “nemici”
attentatori, come esseri umani che giungono sulle coste
affamati e violati.
È stato proprio questo uno degli elementi cruciali
emersi alla fine del Novecento, se non altro a partire
dalle nuove guerre identitarie: l’incapacità
del pensiero di “comprendere “ appieno ciò
che stava accadendo. Infatti, accanto all’insorgere
di nuovi interessi geopolitici e nella crisi di consolidate
ideologie e visioni del mondo, vi erano nuove richieste
di aggregazione collettiva e la necessità per
gli attori sociali di riconoscersi attraverso potenti
simboli di riferimento, capaci di accompagnare e orientare
il loro corso di vita, fino addirittura al martirio,
se necessario. In molti casi, si è piuttosto
preferito ricorrere a interpretazioni di tipo polare,
a proposito dello scontro globale fra potenze politiche
e interessi economici. Sono state elaborate concezioni
post-moderniste che trovavano l’unica via di fuga
nel relativismo, con la dissoluzione di orizzonti di
senso condivisi. Sono state forgiate complesse ingegnerie
mentali, fondate su sofisticati esperimenti di pensiero.
Ma accanto a variegate interpretazioni dell’era
globale, si sono fatti però spazio nuovi “discorsi
pubblici” che da una parte sostenevano la creazione
di una sfera pubblica globale, mentre dall’altra
fomentavano ideologie belliche, fatte transitare attraverso
i “media dell’odio”. Non si capirebbe
altrimenti come mai la propaganda del genocidio abbia
avuto un effetto tanto letale sulle psicologie individuali:
la violenza omicida proveniva perlopiù proprio
dal tuo vicino, da colui con cui si era condiviso il
quotidiano. In tale scenario, anche i pensieri-ponte
sono andati in crisi: dalla capacità di far transitare
e conoscere la ricchezza dell’alterità,
si sono andati perlopiù consumando nella consunta
retorica degli opposti: tra la banalizzazione della
parolachiave del dialogo e la negazione di poter conseguire
qualsiasi forma di intesa. Come accade in tutti i periodi
di trasformazione epocale e di rivoluzione gnoseologica,
il “pensiero occidentale” ammette così
il proprio scacco e limitatezza, nell’inadeguatezza
dei precedenti paradigmi concettuali, interpretativi
e diagnostici. Il pensiero sembra diventare come una
di quelle cornici dipinte da René Magritte, che
non riescono a comprendere l’intero panorama che
straborda oltre i suoi confini, al di fuori dello stesso
campo pittorico. La realtà è dirompente
rispetto al tentativo di rappresentarla e restringerla
entro schemi. Il pensiero-ponte deve sapere di non poter
(r)accogliere tutto nel suo sguardo. Il ponte rimanda
infatti a carenze e differenze , come luogo di passaggio,
sosta e intermediazione, dove le persone che lo percorrono
hanno storie, intenti e merci diverse. Il pensare-ponte
implica dunque la capacità di muoversi fra due
polarità, passando attraverso punti mediani.
Implica il saper decodificare linguaggi differenti e
utilizzare più forme di razionalità. Ma
non può mai essere un pensiero “neutrale”
o accomodante, unilaterale o unidirezionale: è
infatti sempre contaminato e ibridato dal muoversi fra
opposti, nel contenere anche il punto di vista dell’altro.
Intellettuali e artisti della Repubblica di Weimar,
ai bordi dell’abisso nazista, avevano utilizzato
la modalità e la tecnica del montaggio per dare
corpo e voce alle nuove dissonanze di una modernità
che indicava nel contempo potenzialità emancipative
attraverso la lotta di classe da una parte e crisi della
tradizionale filosofia della storia che non evocava
più la metafisica della redenzione dall’altra
parte. La ricerca dei “nessi” metteva piuttosto
in luce la dialettica negativa esistente fra progresso
e regresso. In tal modo, si gettava luce sulle fenomenologie
delle superfici che rimandavano piuttosto al profondo.
Era questo il luogo delle pulsioni, ma anche lo spazio
dove potevano scattare scintille capaci di illuminare
“altre” visioni e possibili realtà
di giustizia terrena. La critica al pensiero borghese
e dominante – perlomeno in Benjamin, Kracauer,
Adorno, Horkheimer e Bloch – non si esplicitava
nella semplice retorica della polarizzazione fra amico
e nemico; era piuttosto una richiesta di ampliamento
del campo analitico e dell’orizzonte critico del
pensiero.
Le superfici urbane, i comportamenti sociali, gli stili
di vita, le relazioni familiari, le comunicazioni di
massa, le banalità del quotidiano, diventavano
spunti per indagare il riflesso che fenomeni epocali
e consolidate strutture di potere avevano sulle esistenze
quotidiane di individui. Viceversa, veniva sottolineato
come solo a partire dai rapporti interpersonali era
possibile risalire alle metanarrazioni.
Le teorie contemporanee di genere continuano e radicalizzano
tale linea concettuale e politica, sottolineando come
soltanto a partire da esperienze sessuate, conoscenze
contestuali e relazioni di genere, cioè a cominciare
dalla vita non solo della mente ma dei corpi viventi,
è possibile comprendere l’alterità,
così come viene a manifestarsi attraverso atti
sia di dominio, sia di solidarietà. Il pensiero-ponte
è dunque un lavoro irrequieto, che non è
mai soddisfatto di trovarsi lì dove è
momentaneamente locato perché deve passare oltre.
È un pensiero critico che sa distinguere e separare,
ma anche riconnettere e riarticolare, attribuendo agli
stessi oggetti significati diversi da quelli comunemente
condivisi. È un atteggiamento dislocante che
porta all’assumere visioni diverse nel continuo
movimento. Ma è anche capace di giudizio, ovvero
di “prendere posizione”, soprattutto quando
è sotto attacco: è capace di “re
- s i s t e re”, ovvero di “re - s t a re”,
nonostante le offensive e le aggressioni.
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