306 - 28.09.06


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Guardando giù dal ponte di Mostar

Marina Calloni


Questo articolo è tratto dall’ultimo numero di Reset, che tra qualche giorno sarà in edicola e in libreria.

Unire ciò che è separato, costruire connessioni fra punti irrelati, superare ostacoli materiali e culturali: il “ponte” assolve a queste funzioni, ovvero avvicina ciò che è distante, rende relato ciò che è diverso, connette polarità attraverso la mediazione. Ma il ponte contiene in sé la dialettica del proprio altro: il germe della distruzione, della separazione e dell’allontanamento tra ciò che era coevo. L’allegoria del ponte può raccogliere in sé la complessa storia del Mediterraneo, il mare nostrum, ventre per la libera circolazione di merci e di idee, ma anche luogo di guerre e di sopraffazione. La stessa dinamica si riflette sulla storia del pensiero occidentale, contorto tra tentativi di dialogo culturale tra le tre maggiori religioni monoteistiche e radicalizzazione politica delle loro differenze.
Come esemplificazione allegorica di tale dinamica storica, politica e teorica, prenderò l’immagine evocativa e contraddittoria dello Stari Most, il Ponte Vecchio di Mostar che determina non solo il nome della città, bensì la sua stessa esistenza: “mostari” significa infatti “custodi del ponte”. Le allegorie portano infatti con sé la fenomenologia delle ambivalenze. Come notava infatti Walter Benjamin, nella loro violazione di confini “le allegorie sono nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose. […] Le antinomie dell’allegorico constano nella loro immanente dialettica: ogni personaggio, qualsivoglia cosa, qualsiasi situazione possono significarne un’altra qualunque. […] Perché l’allegoria è le due cose insieme: convenzione ed espressione; e queste sono per natura contraddittorie” (W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1971, pp. 183 ss.). I significati dialogici e le interpretazioni oppositive attribuite al Ponte Vecchio nel corso del tempo vanno proprio in questa direzione.

Lo Stari Most era stato costruito tra il 1557 e il 1566 dall’architetto turco Hajruddin, per volere del sultano Sulejman il Magnifico che esercitava allora il dominio ottomano sulla Bosnia-Erzegovina. Il Ponte Vecchio era considerato un prodigio architettonico: era un’unica campata lunga 29 metri, composta da oltre 1000 in blocchi di pietra calcarea. Era simbolo di prosperità economica e culturale, di scambi e di dialogo, ma era soprattutto il tramite che saldava le due rive del fiume Neretva e univa popolazioni diverse. Alludeva a una convivenza riuscita. Era il genius loci, lo spazio sacro delle memorie quotidiane e insieme collettive, tanto da essere familiarmente chiamato col solo nome di Vecchio. Era un crogiolo che racchiudeva abilità tecnica, dominio politico, vita collettiva, transiti quotidiani, identità secolari, prosperità, incontri fra culture diverse, ma anche guerra e ricostruzione.

La sua funzione e la sua sorte cambiarono infatti radicalmente alle 10.30 del 9 novembre 1993, quando le milizie croate dell’autoproclamata Repubblica di Herceg Bosna lo abbatterono con venti granate. Andò velocemente in frantumi. Con lui cedettero anche l’ossatura della convivenza civile e la struttura statale che erano state alla base dell’esperienza del socialismo jugoslavo. Lo Stari Most non era un bersaglio militare, non aveva un valore strategico: era però un potente simbolo culturale che doveva essere abbattuto. Identità individuali e memorie collettive dovevano essere cancellate per far posto alla violenza e all’ordine delle nuove ideologie etniche. Per conseguire l’obiettivo, venivano impiegati svariarti mezzi: dalla distruzione dei punti di riferimento politici e dei simboli culturali, fino all’annientamento fisico vero e proprio. Del maestoso ponte rimase solo un rudere: ci sono due braccia protese verso il nulla, senza più sostegno, o rmai separate dal cielo; ma rimangono come silenziose sentinelle a testimonianza non solo dell’avvenuta frattura architettonica, bensì della radicale separazione imposta ai cittadini, ridotti a esseri individuati solo S o c i e t à 4 5 Settembre - Ottobre 2006 - Numero 97 mediante la loro presunta appartenenza etnica.

Ma i potenti pilastri avevano retto all’urto bellico e alla deflagrazione: lo Stari Most poteva assurgere a nuova vita. Il 23 luglio 2002, venne inaugurato il nuovo Ponte Vecchio, ricostruito grazie allo sforzo congiunto tra istituzioni locali, donatori internazionali e Unesco. Sembra essere identico al precedente, forse più bianco e levigato. Ma la città non è più quella di una volta: è ormai divisa da confini invisibili; è separata dai lutti, distinta in quartieri “etnicizzati”. Sarà capace il nuovo ponte di Mostar di ridare vitalità alla popolazione disorientata dall’urbicidio e dal nuovo ambiente antropico? Faciliterà seppur tiepidi tentativi di riconciliazione? E quale sarà mai il contributo – se pur simbolico – che il nuovo Ponte Vecchio potrebbe dare per il riavvio di un dialogo fruttuoso e collaborativo tra cittadini e le diverse culture dei paesi europei? E in generale, come potrebbe mediare il riattraversamento fra Occidente e Oriente?
Come scriveva acutamente Paolo Rumiz nel 2003, “Oggi ci accorgeremmo che era impossibile intendere Kabul e Bagdad per il semplice fatto che non avevamo capito la Bosnia, grande avanguardia di Bisanzio nel cuore dell’Europa. […] La guerra dei Balcani non era affatto l’ultima guerra del Novecento. Era la prima guerra del terzo millennio. […] Fu l’aggressione della modernità contro un mondo che si ostinava a credere nell’invisibile, la rabbia di una civiltà senza più miti e senza più fede contro un Oriente che condensava troppi simboli”. (Paolo Rumiz, “Mostar e il ponte che non unisce più”, in “La Repubblica “, 2 novembre 2003.)

Già il Novecento. Nonostante il trauma dell’imperialismo, il retaggio di due guerre mondiali, l’eredità della Shoah, il secolo scorso si è concluso nell’area mediterranea con lo scoppio di guerre etniche, genocidi, fondamentalismi bellici, conflitti identitari e con nuove guerre che sembrano difficilmente interpretabili e giudicabili con l’impiego del tradizionale armamentario del diritto internazionale sullo jus ad bellum e jus in bello. E anche la questione dell’intervento umanitario sembra tutta da ridefinire.

Non si tratta qui di un semplicistico “scontro tra civiltà” che distano polarmente fra di loro, ma dell’impossibilità stessa dell’Occidente di capire se stesso, la sua logica, i suoi simboli e le sue contaminazioni. In particolare, l’Occidente mediterraneo non sembra più in grado di comprendere appieno la molteplicità delle sue nature politiche e determinazioni culturali, ma anche di gestire l’aggressività di nuovi processi di razionalizzazione, rinforzati dalle finalità strumentali della globalizzazione. Un “dialogo” interculturale non è dunque possibile se non si rendono più flessibili i confini e le mappe mentali, se ci si pone di fronte alle alterità, se non si comprendono – impiegando mezzi diversi – quei nessi molteplici e stratificati che connettono fra di loro azioni ed effetti. Uno dei maggiori problemi che l’Occidente si trova ad affrontare è infatti la questione delle alterità: alterità come diversità, come popolazioni lontane, come vicini indotti all’assimilazione, come persone marginalizzate, come nuovi “nemici” attentatori, come esseri umani che giungono sulle coste affamati e violati.

È stato proprio questo uno degli elementi cruciali emersi alla fine del Novecento, se non altro a partire dalle nuove guerre identitarie: l’incapacità del pensiero di “comprendere “ appieno ciò che stava accadendo. Infatti, accanto all’insorgere di nuovi interessi geopolitici e nella crisi di consolidate ideologie e visioni del mondo, vi erano nuove richieste di aggregazione collettiva e la necessità per gli attori sociali di riconoscersi attraverso potenti simboli di riferimento, capaci di accompagnare e orientare il loro corso di vita, fino addirittura al martirio, se necessario. In molti casi, si è piuttosto preferito ricorrere a interpretazioni di tipo polare, a proposito dello scontro globale fra potenze politiche e interessi economici. Sono state elaborate concezioni post-moderniste che trovavano l’unica via di fuga nel relativismo, con la dissoluzione di orizzonti di senso condivisi. Sono state forgiate complesse ingegnerie mentali, fondate su sofisticati esperimenti di pensiero. Ma accanto a variegate interpretazioni dell’era globale, si sono fatti però spazio nuovi “discorsi pubblici” che da una parte sostenevano la creazione di una sfera pubblica globale, mentre dall’altra fomentavano ideologie belliche, fatte transitare attraverso i “media dell’odio”. Non si capirebbe altrimenti come mai la propaganda del genocidio abbia avuto un effetto tanto letale sulle psicologie individuali: la violenza omicida proveniva perlopiù proprio dal tuo vicino, da colui con cui si era condiviso il quotidiano. In tale scenario, anche i pensieri-ponte sono andati in crisi: dalla capacità di far transitare e conoscere la ricchezza dell’alterità, si sono andati perlopiù consumando nella consunta retorica degli opposti: tra la banalizzazione della parolachiave del dialogo e la negazione di poter conseguire qualsiasi forma di intesa. Come accade in tutti i periodi di trasformazione epocale e di rivoluzione gnoseologica, il “pensiero occidentale” ammette così il proprio scacco e limitatezza, nell’inadeguatezza dei precedenti paradigmi concettuali, interpretativi e diagnostici. Il pensiero sembra diventare come una di quelle cornici dipinte da René Magritte, che non riescono a comprendere l’intero panorama che straborda oltre i suoi confini, al di fuori dello stesso campo pittorico. La realtà è dirompente rispetto al tentativo di rappresentarla e restringerla entro schemi. Il pensiero-ponte deve sapere di non poter (r)accogliere tutto nel suo sguardo. Il ponte rimanda infatti a carenze e differenze , come luogo di passaggio, sosta e intermediazione, dove le persone che lo percorrono hanno storie, intenti e merci diverse. Il pensare-ponte implica dunque la capacità di muoversi fra due polarità, passando attraverso punti mediani. Implica il saper decodificare linguaggi differenti e utilizzare più forme di razionalità. Ma non può mai essere un pensiero “neutrale” o accomodante, unilaterale o unidirezionale: è infatti sempre contaminato e ibridato dal muoversi fra opposti, nel contenere anche il punto di vista dell’altro. Intellettuali e artisti della Repubblica di Weimar, ai bordi dell’abisso nazista, avevano utilizzato la modalità e la tecnica del montaggio per dare corpo e voce alle nuove dissonanze di una modernità che indicava nel contempo potenzialità emancipative attraverso la lotta di classe da una parte e crisi della tradizionale filosofia della storia che non evocava più la metafisica della redenzione dall’altra parte. La ricerca dei “nessi” metteva piuttosto in luce la dialettica negativa esistente fra progresso e regresso. In tal modo, si gettava luce sulle fenomenologie delle superfici che rimandavano piuttosto al profondo. Era questo il luogo delle pulsioni, ma anche lo spazio dove potevano scattare scintille capaci di illuminare “altre” visioni e possibili realtà di giustizia terrena. La critica al pensiero borghese e dominante – perlomeno in Benjamin, Kracauer, Adorno, Horkheimer e Bloch – non si esplicitava nella semplice retorica della polarizzazione fra amico e nemico; era piuttosto una richiesta di ampliamento del campo analitico e dell’orizzonte critico del pensiero.

Le superfici urbane, i comportamenti sociali, gli stili di vita, le relazioni familiari, le comunicazioni di massa, le banalità del quotidiano, diventavano spunti per indagare il riflesso che fenomeni epocali e consolidate strutture di potere avevano sulle esistenze quotidiane di individui. Viceversa, veniva sottolineato come solo a partire dai rapporti interpersonali era possibile risalire alle metanarrazioni.
Le teorie contemporanee di genere continuano e radicalizzano tale linea concettuale e politica, sottolineando come soltanto a partire da esperienze sessuate, conoscenze contestuali e relazioni di genere, cioè a cominciare dalla vita non solo della mente ma dei corpi viventi, è possibile comprendere l’alterità, così come viene a manifestarsi attraverso atti sia di dominio, sia di solidarietà. Il pensiero-ponte è dunque un lavoro irrequieto, che non è mai soddisfatto di trovarsi lì dove è momentaneamente locato perché deve passare oltre. È un pensiero critico che sa distinguere e separare, ma anche riconnettere e riarticolare, attribuendo agli stessi oggetti significati diversi da quelli comunemente condivisi. È un atteggiamento dislocante che porta all’assumere visioni diverse nel continuo movimento. Ma è anche capace di giudizio, ovvero di “prendere posizione”, soprattutto quando è sotto attacco: è capace di “re - s i s t e re”, ovvero di “re - s t a re”, nonostante le offensive e le aggressioni.

 

 


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