Tratto
dal quotidiano Europa.
Va forse detto con più durezza di quanto non
abbia fatto recentemente Anthony Giddens che nel secolo
XX la parola “socialismo” ?nì col
signi?care due cose radicalmente diverse.
Il primo signi?cato fu quello di un regime economico
e sociale alternativo al capitalismo e di un sistema
politico alternativo alla democrazia rappresentativa
e liberale.
Il secondo signi?cato di “socialismo”, nel
secolo XX, fu quello di un movimento – sottolineo
– non sistema, né teorico né attuato.
Il socialismo-movimento giusti?cava sé stesso
– in crescente polemica col socialismo-sistema-regime
– su queste basi: in primo luogo i successi della
legislazione sociale, culminati, nella seconda metà
del secolo XX, nelle realizzazioni del welfare state
in numerosi paesi europei; in secondo luogo i successi
salariali e normativi dell’azione sindacale in
regime di libertà democratica, i quali storicamente
si venivano rivelando senza paragone maggiori di quelli
consentiti nel regime tirannico del socialismo-sistema;
in terzo luogo la maggiore ampiezza della “fetta
di torta” (redistribuzione del reddito) consentita
dal più grande dinamismo economico dei sistemi
economici capitalistici rispetto a quelli delle economie
statalistiche integralmente piani?cate.
Il leader socialista svedese Olof Palme arrivò
a dire che il capitalismo era una vacca da mungere cui
sarebbe stato erroneo (io direi suicida) rinunciare,
abbattendola... Invece il socialismo statalista piani?cato
non funzionava: bastava leggere i rapporti periodici
dei capi comunisti sovietici (che i comunisti occidentali
leggevano come semplici denunce di errori da correggere)
per rendersene conto. Il socialismo-movimento è
dunque uscito vittorioso dal confronto col socialismo-regime.
Ma, come mi è accaduto di scrivere in occasione
del decennale di una rivista italiana riformista che
si intitola alle “ragioni del socialismo”,
non possiamo non chiederci oggi se queste “ragioni”
sussistano ancora. È la questione stessa che
viene ora riproposta alla cultura di sinistra italiana
da autorevoli intellettuali provenienti dalla cultura
del laburismo inglese (che della alternativa del socialismo-movimento
è stata forse la più alta espressione
nel mondo, e forse lo è ancora).
Ma, è bene sottolinearlo, viene riproposta nella
originalità di un contesto italiano nel quale
la domanda la si accoppia ad un’altra: se, in
questo nostro paese, le forze che furono variamente
– nelle forme nei modi e nei tempi – orientate
al socialismo-movimento non debbano ora essere fatte
convergere con altre, di altra provenienza ideologica
e politica (essenzialmente quella solidaristico-cattolica)
ma caratterizzate da un’analoga, se pur diversa,
tradizione di movimento democratico-riformista.
Non voglio ripetere cose egregiamente dette da altri:
mi riferisco a quanto si è scritto sulla importanza
e utilità ponderale di una grande aggregazione
unitaria e democratica (democratica nel pieno senso
inteso, su queste colonne, dalle belle ri?essioni di
Nadia Urbinati)
nelle forze politiche del centro-sinistra italiano.
E perciò mi limito a due ordini di osservazioni
che non ho trovato – forse per mie insufficienti
letture – nei ragionamenti svolti al riguardo.
Le mie osservazioni – che mi limito ad accennare
ma che meriterebbero approfondimenti – partono
dai grandi mutamenti intervenuti, “da un secolo
all’altro” (come avrebbe detto Antonio Labriola),
nelle forme e nei caratteri delle questioni sociali
e nelle politiche che a queste vogliono essere attente.
Il primo ordine di osservazioni militerebbe in favore
della opportunità di una «con-vergenza
» nel senso prospettato da Giuliano
Amato in un suo recente articolo. Il
secondo ordine di osservazioni indurrebbe, invece, a
qualche dubbio o riserva.
Si tratta di questo. Da un lato va notato che la problematica
sociale maggiore che oggi investe le nostre società
non viene dal tradizionale “con?itto di classe”,
ma dai problemi dell’immigrazione, dall’invecchiamento
della popolazione, dai modi di mobilitazione delle risorse.
E questi sono problemi verso i quali hanno forte vocazione,
sintonia e consonanza, il solidarismo e il “sussidiarismo”
della tradizione riformista cattolica: la cui parte,
dunque, sembra destinata ad accrescersi nel riformismo
del futuro; e ciò senza confliggere con la parallela
tradizione socialista.
D’altra parte, però, le prospettive “idealizzabili”
della società – in ciò che possono
accendere speranze in qualche modo affini e in continuità
con la cultura dell’umanesimo socialista –
appaiono legate sia a nuove libertà di costume
e a relativi diritti, sia – per me soprattutto
– all’immagine di una “società
della conoscenza” e al progresso della scienza
(che può anche essere bene?camente vissuta, perché
no?, con la forza di una moderna utopia umanistica).
E questo ordine di problemi non riceve, invece e certamente,
concorso ideale dalla tradizione cattolica, in cui suscita,
invece, diffidenza, quando non ostilità.
Dico questo con rispetto per la diversità di
fedi e convinzioni. Ma temo che, se costretto a un compromesso
eccessivo, questo senso – lo si chiami pure illuministico
o utopistico – della modernità come conoscenza,
possa facilmente sciogliersi in quotidianità
culturale materialistico-individualistica e perdere
l’attrattiva ideale necessaria a produrre azione
sociale e politica; o, comunque, non raggiungere la
valenza atta a utilizzare e recuperare la tradizione
progressista, intrinsecamente laica, del socialismo.
Un’ampia area di mobile compromesso fra indipendenti
appare possibile e, anzi, molto ricca di prospettive.
Un compromesso permanente, invece, interno a uno stesso
partito, potrebbe essere paralizzante, ridursi a gabbia
deprimente, alla lunga perdente. Rischierebbe di favorire
un diffidente secessionismo variamente estremista in
area socialista. E, per altro verso, persino di ridurre
l’amplissima potenzialità riformista di
una soggettività politica aperta del grande e
ricco mondo cattolico italiano.
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