306 - 28.09.06


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Compromesso sì,
ma tra indipendenti

Luciano Cafagna


Tratto dal quotidiano Europa.


Va forse detto con più durezza di quanto non abbia fatto recentemente Anthony Giddens che nel secolo XX la parola “socialismo” ?nì col signi?care due cose radicalmente diverse.
Il primo signi?cato fu quello di un regime economico e sociale alternativo al capitalismo e di un sistema politico alternativo alla democrazia rappresentativa e liberale.
Il secondo signi?cato di “socialismo”, nel secolo XX, fu quello di un movimento – sottolineo – non sistema, né teorico né attuato.
Il socialismo-movimento giusti?cava sé stesso – in crescente polemica col socialismo-sistema-regime – su queste basi: in primo luogo i successi della legislazione sociale, culminati, nella seconda metà del secolo XX, nelle realizzazioni del welfare state in numerosi paesi europei; in secondo luogo i successi salariali e normativi dell’azione sindacale in regime di libertà democratica, i quali storicamente si venivano rivelando senza paragone maggiori di quelli consentiti nel regime tirannico del socialismo-sistema; in terzo luogo la maggiore ampiezza della “fetta di torta” (redistribuzione del reddito) consentita dal più grande dinamismo economico dei sistemi economici capitalistici rispetto a quelli delle economie statalistiche integralmente piani?cate.

Il leader socialista svedese Olof Palme arrivò a dire che il capitalismo era una vacca da mungere cui sarebbe stato erroneo (io direi suicida) rinunciare, abbattendola... Invece il socialismo statalista piani?cato non funzionava: bastava leggere i rapporti periodici dei capi comunisti sovietici (che i comunisti occidentali leggevano come semplici denunce di errori da correggere) per rendersene conto. Il socialismo-movimento è dunque uscito vittorioso dal confronto col socialismo-regime.

Ma, come mi è accaduto di scrivere in occasione del decennale di una rivista italiana riformista che si intitola alle “ragioni del socialismo”, non possiamo non chiederci oggi se queste “ragioni” sussistano ancora. È la questione stessa che viene ora riproposta alla cultura di sinistra italiana da autorevoli intellettuali provenienti dalla cultura del laburismo inglese (che della alternativa del socialismo-movimento è stata forse la più alta espressione nel mondo, e forse lo è ancora).
Ma, è bene sottolinearlo, viene riproposta nella originalità di un contesto italiano nel quale la domanda la si accoppia ad un’altra: se, in questo nostro paese, le forze che furono variamente – nelle forme nei modi e nei tempi – orientate al socialismo-movimento non debbano ora essere fatte convergere con altre, di altra provenienza ideologica e politica (essenzialmente quella solidaristico-cattolica) ma caratterizzate da un’analoga, se pur diversa, tradizione di movimento democratico-riformista.

Non voglio ripetere cose egregiamente dette da altri: mi riferisco a quanto si è scritto sulla importanza e utilità ponderale di una grande aggregazione unitaria e democratica (democratica nel pieno senso inteso, su queste colonne, dalle belle ri?essioni di Nadia Urbinati) nelle forze politiche del centro-sinistra italiano.
E perciò mi limito a due ordini di osservazioni che non ho trovato – forse per mie insufficienti letture – nei ragionamenti svolti al riguardo.
Le mie osservazioni – che mi limito ad accennare ma che meriterebbero approfondimenti – partono dai grandi mutamenti intervenuti, “da un secolo all’altro” (come avrebbe detto Antonio Labriola), nelle forme e nei caratteri delle questioni sociali e nelle politiche che a queste vogliono essere attente. Il primo ordine di osservazioni militerebbe in favore della opportunità di una «con-vergenza » nel senso prospettato da Giuliano Amato in un suo recente articolo. Il secondo ordine di osservazioni indurrebbe, invece, a qualche dubbio o riserva.

Si tratta di questo. Da un lato va notato che la problematica sociale maggiore che oggi investe le nostre società non viene dal tradizionale “con?itto di classe”, ma dai problemi dell’immigrazione, dall’invecchiamento della popolazione, dai modi di mobilitazione delle risorse. E questi sono problemi verso i quali hanno forte vocazione, sintonia e consonanza, il solidarismo e il “sussidiarismo” della tradizione riformista cattolica: la cui parte, dunque, sembra destinata ad accrescersi nel riformismo del futuro; e ciò senza confliggere con la parallela tradizione socialista.

D’altra parte, però, le prospettive “idealizzabili” della società – in ciò che possono accendere speranze in qualche modo affini e in continuità con la cultura dell’umanesimo socialista – appaiono legate sia a nuove libertà di costume e a relativi diritti, sia – per me soprattutto – all’immagine di una “società della conoscenza” e al progresso della scienza (che può anche essere bene?camente vissuta, perché no?, con la forza di una moderna utopia umanistica).
E questo ordine di problemi non riceve, invece e certamente, concorso ideale dalla tradizione cattolica, in cui suscita, invece, diffidenza, quando non ostilità.

Dico questo con rispetto per la diversità di fedi e convinzioni. Ma temo che, se costretto a un compromesso eccessivo, questo senso – lo si chiami pure illuministico o utopistico – della modernità come conoscenza, possa facilmente sciogliersi in quotidianità culturale materialistico-individualistica e perdere l’attrattiva ideale necessaria a produrre azione sociale e politica; o, comunque, non raggiungere la valenza atta a utilizzare e recuperare la tradizione progressista, intrinsecamente laica, del socialismo.
Un’ampia area di mobile compromesso fra indipendenti appare possibile e, anzi, molto ricca di prospettive. Un compromesso permanente, invece, interno a uno stesso partito, potrebbe essere paralizzante, ridursi a gabbia deprimente, alla lunga perdente. Rischierebbe di favorire un diffidente secessionismo variamente estremista in area socialista. E, per altro verso, persino di ridurre l’amplissima potenzialità riformista di una soggettività politica aperta del grande e ricco mondo cattolico italiano.


 


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