306 - 28.09.06


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Voglio un’ideologia, ma leggera

Giancarlo Bosetti


Tratto dal quotidiano Europa.


Bene ha fatto Giuliano Amato a riaprire la discussione su quel tema di lungo corso che ha avuto alterne denominazioni, dal bobbiano enigma sul “futuro della sinistra” a quell’altro enigma, anglofilo, e inglese, del gioco di parole What Is Left? (“che cosa ne è rimasto”), ripreso ancora ieri sulla “Repubblica” da Tony Giddens. E bene ha fatto a indirizzarla verso la costruzione di qualche cosa di nuovo e di bello per il centrosinistra italiano, qualche cosa che possiamo mettere sotto il nome di Partito democratico. Antonio Polito ha già argomentato qui che la fierezza socialista di Amato era la premessa di una dichiarata disponibilità a “confondere” questa con altre identità.

Con-fondere” scandirebbe un filosofo recitando con aria solenne e shakespeariana, “questo è il problema”: come si possano disciogliere identità distinte in una unica e nuova entità senza che le vecchie ne vengano cancellate e umiliate; o come si possa cadere nell’estremo opposto: panico da dissoluzione e corsa a rintanarsi nel proprio guscio. Già, come si fa? Che non sia semplice si è capito da un pezzo: le fortune del Partito democratico sembrano diventare stagionali, salgono e scendono come il prezzo della verdura. Le oscillazioni dei sondaggi e delle ingegnerie elettorali provocano sbalzi di umore: chi lo voleva di meno sembra qualche volta volerlo di più e viceversa. Qualche volta sembra non volerlo, di fatto, più nessuno. Ed è un male di cui faremmo bene a liberarci con un po’ di coraggio e fantasia.

Le voci di questa discussione sono invece nettamente favorevoli, e io con loro. E la ragione principale è che confrontarsi sul Partito democratico significa confrontarsi su una questione sostanziosa e interessante: non soltanto a quale sigla, corrente, partito conviene di più o di meno, ma quali sono le idee dei progressisti, qual è la cultura capace di dare coesione e identità a un progetto che non esiste ancora in forma compiuta. Neppure l’identità orgogliosa di una minoranza di socialisti liberali, che io per esempio sento così vicina e che è forse la più ospitale per tutti, può presentare se stessa come il punto di arrivo di tanti “con-fluenti”.

Se le difficoltà politiche sono forti e spaventano, dato il potenziale critico del tema, che è capace di far saltare equilibri di governo e di restituire sciaguratamente la maggioranza al centrodestra berlusconiano, la cosa più produttiva da fare è proprio un investimento, comune, sulla cultura. Nessuno si sottragga alla sua quota di partecipazione alla joint-venture. E cerchiamo di fare un primo tratto di strada. Si tratta di avviare un centro di iniziativa – che dovrà essere insieme di ricerca e di formazione – che rappresenti il risultato dello sforzo comune di tutte le componenti e che servirà allo scopo soltanto in quanto tutti vi si riconoscano e nessuno vi veda il tentativo di fare annessioni culturali. Non credo che sia impresa così difficile se davvero si vuole realizzarla. Già ora diversi programmi di iniziative esistenti sono costruiti con la necessaria apertura culturale e con la collaborazione di docenti di tutte le componenti: è la prova concreta che si può.

La ricerca da farsi qui non sarà soltanto sulle politiche, sui programmi, sulle strategie elettorali e comunicative, sarà anche e per forza una ricerca “ideologica” nel senso più leggero e meno invasivo della parola. Il Partito democratico dovrà avere una sua congruenza ideologica. Non dobbiamo cercare una concezione del mondo “comprensiva”, completa di dottrina morale, visione della famiglia, della riproduzione, della vita sessuale, dell’essente e del trascendente. Ma dobbiamo per lo meno imparare a gestire le differenze culturali che ci sono tra tante concezioni “comprensive” che riempiono legittimamente la scena pubblica. Questo apprendistato delle differenze è indispensabile se vogliamo trarre beneficio dall’unione tra solidarismi con un marchio di origine diverso (laici, liberali, cattolici e religiosi di altre confessioni, socialisti, post-comunisti). Della “fierezza” di queste tradizioni parleremo un’altra volta. Non è un ostacolo a costruire una nuova unità e non vedo limiti alla possibilità di coltivarla, la propria fierezza identitaria, anche in futuro con convegni storici e ogni genere di celebrazioni. Diventa un ostacolo solo se viene trattata come una fonte di rendita fine a se stessa (alla quale gli apparati politici si agganciano per cavarne seggi parlamentari e posti di comando) e messa in cassaforte.

Uno dei primi temi da affrontare sarà proprio quello della “temperatura ideologica” di un moderno progetto riformista. Credo che la ricerca e la formazione di un centro di cultura del futuro Partito democratico debba avere, di “liberal-socialista”, o semplicemente, di “liberale”, la vocazione a delimitare gli spiriti missionari, a ridurre la vocazione salvifica o evangelica che le identità politiche troppo spesso si portano dietro. Si sa che è difficile appassionarsi al senso della misura con la stessa intensità con cui ci si appassiona per ideali estremi. Eppure bisogna. Per almeno due ragioni. La prima è che la politica italiana, come quella americana – in questo molto simile – soffre di contrasti troppo violenti che spesso sono alimentati dall’uso politico dei “valori”, da retoriche stracariche di fedi, di Occidente e di guerre sante, in una parola: di troppa propaganda. E tutto questo fa velo a un reale approfondimento dei problemi, di qualunque genere. La seconda è che l’attaccamento alle identità diventa un appiglio esistenzial-politico che non sempre si traduce in opzioni davvero significative e illuminanti: certe sigle sopravvivono nel nome della loro provenienza. E anche questo fa velo a una discussione pubblica efficace nel fare da sfondo “deliberativo” alle decisioni che contano. “Smettila di dirmi da dove vieni e dimmi che cosa vuoi”. L’alterco senza contenuto, fatto solo di scambi di invettive, è tuttora l’ingrediente principale dell’informazione politica dei telegiornali, dal Tg1 di casa nostra a Fox News negli Usa.

Bisognerà forse fare tesoro di una distinzione preziosa (la prendiamo in prestito da Michael Oakeshott, filosofo politico che ha formato una generazione di intellettuali inglesi di impronta liberale) tra “politica della fede” e “politica dello scetticismo” e mettersi alla ricerca di un equilibrio tra le politiche ad alta temperatura ideologica che si propongono di portare la vita umana vicino alla perfezione e politiche gelide che si limitano a utilizzare le forze e gli interessi in azione senza azzardarsi ad alcuna modifica. Entrambe falliscono e hanno la loro nemesi: le politiche fervorose della fede e dell’utopia provocano spesso rivoluzioni e catastrofi sociali, accecano; le politiche della pura contemplazione dei fattori in campo spesso finiscono con il ridurre la vita pubblica al gioco su una scacchiera per professionisti inconcludenti (il che alimenta populismo e radicalismo di ogni genere). Ci vuole una buona soluzione là in mezzo. L’Italia esce da una stagione di orge propagandistiche e si meriterebbe ora discorsi più piani, concreti e pertinenti sul suo futuro.

E non mettiamo ostacoli di principio di ordine europeo o internazionale: socialismo europeo o nuove affiliazioni. Un progetto che si proponga di unire forze culturalmente diverse in un disegno unitario non può non essere ammirevole, per socialisti e liberali di ogni genere, nella sua capacità di alleggerire il peso delle ideologie e delle etichette di partito al proprio interno. Ci vogliono sottili virtù per intavolare intese con persone che appartengono a culture, e religioni, diverse. È un genere di abilità tra le più richieste oggi. Una volta che ci si riuscisse, nella difficile costruzione di un Partito democratico, l’impresa sarebbe molto richiesta ovunque, nel mondo che si prepara.

 


 

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