Tratto
dal quotidiano Europa.
Bene ha fatto Giuliano Amato a riaprire la discussione
su quel tema di lungo corso che ha avuto alterne denominazioni,
dal bobbiano enigma sul “futuro della sinistra”
a quell’altro enigma, anglofilo, e inglese, del
gioco di parole What Is Left? (“che cosa
ne è rimasto”), ripreso ancora ieri sulla
“Repubblica” da Tony Giddens. E bene ha
fatto a indirizzarla verso la costruzione di qualche
cosa di nuovo e di bello per il centrosinistra italiano,
qualche cosa che possiamo mettere sotto il nome di Partito
democratico. Antonio Polito ha già argomentato
qui che la fierezza socialista di Amato era la premessa
di una dichiarata disponibilità a “confondere”
questa con altre identità.
“Con-fondere” scandirebbe un filosofo
recitando con aria solenne e shakespeariana, “questo
è il problema”: come si possano disciogliere
identità distinte in una unica e nuova entità
senza che le vecchie ne vengano cancellate e umiliate;
o come si possa cadere nell’estremo opposto: panico
da dissoluzione e corsa a rintanarsi nel proprio guscio.
Già, come si fa? Che non sia semplice si è
capito da un pezzo: le fortune del Partito democratico
sembrano diventare stagionali, salgono e scendono come
il prezzo della verdura. Le oscillazioni dei sondaggi
e delle ingegnerie elettorali provocano sbalzi di umore:
chi lo voleva di meno sembra qualche volta volerlo di
più e viceversa. Qualche volta sembra non volerlo,
di fatto, più nessuno. Ed è un male di
cui faremmo bene a liberarci con un po’ di coraggio
e fantasia.
Le voci di questa discussione sono invece nettamente
favorevoli, e io con loro. E la ragione principale è
che confrontarsi sul Partito democratico significa confrontarsi
su una questione sostanziosa e interessante: non soltanto
a quale sigla, corrente, partito conviene di più
o di meno, ma quali sono le idee dei progressisti, qual
è la cultura capace di dare coesione e identità
a un progetto che non esiste ancora in forma compiuta.
Neppure l’identità orgogliosa di una minoranza
di socialisti liberali, che io per esempio sento così
vicina e che è forse la più ospitale per
tutti, può presentare se stessa come il punto
di arrivo di tanti “con-fluenti”.
Se le difficoltà politiche sono forti e spaventano,
dato il potenziale critico del tema, che è capace
di far saltare equilibri di governo e di restituire
sciaguratamente la maggioranza al centrodestra berlusconiano,
la cosa più produttiva da fare è proprio
un investimento, comune, sulla cultura. Nessuno si sottragga
alla sua quota di partecipazione alla joint-venture.
E cerchiamo di fare un primo tratto di strada. Si tratta
di avviare un centro di iniziativa – che dovrà
essere insieme di ricerca e di formazione – che
rappresenti il risultato dello sforzo comune di tutte
le componenti e che servirà allo scopo soltanto
in quanto tutti vi si riconoscano e nessuno vi veda
il tentativo di fare annessioni culturali. Non credo
che sia impresa così difficile se davvero si
vuole realizzarla. Già ora diversi programmi
di iniziative esistenti sono costruiti con la necessaria
apertura culturale e con la collaborazione di docenti
di tutte le componenti: è la prova concreta che
si può.
La ricerca da farsi qui non sarà soltanto sulle
politiche, sui programmi, sulle strategie elettorali
e comunicative, sarà anche e per forza una ricerca
“ideologica” nel senso più leggero
e meno invasivo della parola. Il Partito democratico
dovrà avere una sua congruenza ideologica. Non
dobbiamo cercare una concezione del mondo “comprensiva”,
completa di dottrina morale, visione della famiglia,
della riproduzione, della vita sessuale, dell’essente
e del trascendente. Ma dobbiamo per lo meno imparare
a gestire le differenze culturali che ci sono tra tante
concezioni “comprensive” che riempiono legittimamente
la scena pubblica. Questo apprendistato delle differenze
è indispensabile se vogliamo trarre beneficio
dall’unione tra solidarismi con un marchio di
origine diverso (laici, liberali, cattolici e religiosi
di altre confessioni, socialisti, post-comunisti). Della
“fierezza” di queste tradizioni parleremo
un’altra volta. Non è un ostacolo a costruire
una nuova unità e non vedo limiti alla possibilità
di coltivarla, la propria fierezza identitaria, anche
in futuro con convegni storici e ogni genere di celebrazioni.
Diventa un ostacolo solo se viene trattata come una
fonte di rendita fine a se stessa (alla quale gli apparati
politici si agganciano per cavarne seggi parlamentari
e posti di comando) e messa in cassaforte.
Uno dei primi temi da affrontare sarà proprio
quello della “temperatura ideologica” di
un moderno progetto riformista. Credo che la ricerca
e la formazione di un centro di cultura del futuro Partito
democratico debba avere, di “liberal-socialista”,
o semplicemente, di “liberale”, la vocazione
a delimitare gli spiriti missionari, a ridurre la vocazione
salvifica o evangelica che le identità politiche
troppo spesso si portano dietro. Si sa che è
difficile appassionarsi al senso della misura con la
stessa intensità con cui ci si appassiona per
ideali estremi. Eppure bisogna. Per almeno due ragioni.
La prima è che la politica italiana, come quella
americana – in questo molto simile – soffre
di contrasti troppo violenti che spesso sono alimentati
dall’uso politico dei “valori”, da
retoriche stracariche di fedi, di Occidente e di guerre
sante, in una parola: di troppa propaganda. E tutto
questo fa velo a un reale approfondimento dei problemi,
di qualunque genere. La seconda è che l’attaccamento
alle identità diventa un appiglio esistenzial-politico
che non sempre si traduce in opzioni davvero significative
e illuminanti: certe sigle sopravvivono nel nome della
loro provenienza. E anche questo fa velo a una discussione
pubblica efficace nel fare da sfondo “deliberativo”
alle decisioni che contano. “Smettila di dirmi
da dove vieni e dimmi che cosa vuoi”. L’alterco
senza contenuto, fatto solo di scambi di invettive,
è tuttora l’ingrediente principale dell’informazione
politica dei telegiornali, dal Tg1 di casa nostra a
Fox News negli Usa.
Bisognerà forse fare tesoro di una distinzione
preziosa (la prendiamo in prestito da Michael Oakeshott,
filosofo politico che ha formato una generazione di
intellettuali inglesi di impronta liberale) tra “politica
della fede” e “politica dello scetticismo”
e mettersi alla ricerca di un equilibrio tra le politiche
ad alta temperatura ideologica che si propongono di
portare la vita umana vicino alla perfezione e politiche
gelide che si limitano a utilizzare le forze e gli interessi
in azione senza azzardarsi ad alcuna modifica. Entrambe
falliscono e hanno la loro nemesi: le politiche fervorose
della fede e dell’utopia provocano spesso rivoluzioni
e catastrofi sociali, accecano; le politiche della pura
contemplazione dei fattori in campo spesso finiscono
con il ridurre la vita pubblica al gioco su una scacchiera
per professionisti inconcludenti (il che alimenta populismo
e radicalismo di ogni genere). Ci vuole una buona soluzione
là in mezzo. L’Italia esce da una stagione
di orge propagandistiche e si meriterebbe ora discorsi
più piani, concreti e pertinenti sul suo futuro.
E non mettiamo ostacoli di principio di ordine europeo
o internazionale: socialismo europeo o nuove affiliazioni.
Un progetto che si proponga di unire forze culturalmente
diverse in un disegno unitario non può non essere
ammirevole, per socialisti e liberali di ogni genere,
nella sua capacità di alleggerire il peso delle
ideologie e delle etichette di partito al proprio interno.
Ci vogliono sottili virtù per intavolare intese
con persone che appartengono a culture, e religioni,
diverse. È un genere di abilità tra le
più richieste oggi. Una volta che ci si riuscisse,
nella difficile costruzione di un Partito democratico,
l’impresa sarebbe molto richiesta ovunque, nel
mondo che si prepara.
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