Tratto
dal quotidiano Il
Secolo XIX.
“Chi crede non è mai solo”. Questo
è il motto del viaggio apostolico di Benedetto
XVI in Baviera. Più che una convinzione sembra
un auspicio. Ma procediamo con ordine.
Nella solitudine Benedetto XVI è venuto includendo
tutto ciò che gli appare contro l’ipotesi
di Dio: la scienza accusata in un qualche modo di presunzione
proprio per il suo voler fare a meno di Dio; il benessere
che si dimentica del sacro e dunque allontana dalla
verità; la sfida lanciata dai fondamentalismi.
In tutte e tre le varianti il tema è sempre uno:
la presunta autosufficienza dell’individuo che
si propone non tanto contro, ma soprattutto sopra
Dio. Infatti, cosa lega l’uomo di scienza,
una figura culturale nei cui confronti il conflitto
culturale è aperto ormai da anni intorno alla
critica all’evoluzionismo; l’accantonamento
del sacro – e dunque – la dimensione della
laicità e una dimensione apparentemente opposta
rappresentata dal fanatismo religioso? A ben vedere
in queste tre diverse figure simboliche che Benedetto
XVI si propone di contrastare la questione non è
dove viene collocato Dio, ma dove si colloca l’individuo
rispetto a Dio.
In questo senso Ratzinger interpreta il fondamentalismo
come un’altra forma di relativismo. Ciò
perché il fondamentalismo più che un’adesione
a Dio si configura come una scelta di radicalismo politico
a favore di Dio e include una messa in discussione delle
gerarchie e della dottrina della fede. Un aspetto che
mina il processo stesso con cui la Chiesa è riuscita
a tener testa alla modernità, subendola, ma anche
metabolizzandola.
Il tema del sacro e della sua assenza in Occidente
sta dentro lo stesso profilo di riflessione. Proviamo
a domandarci, per esempio: davvero le popolazioni dell’Africa
e dell’Asia, si spaventano di fronte ad un Occidente
che esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo?
I continui arrivi di popolazioni disperate sulle nostre
coste dicono che ciò che spaventa un numero non
indifferente di africani e asiatici è la propria
condizione di indigenza e di miseria (senza contare
il clima di intimidazione, di violenza, di intolleranza
da cui fuggono). Una società secolarizzata (ma
ricca) spaventa molto meno di una società sacralizzata
(ma povera).
Già in agosto, in un’intervista concessa
alle televisioni tedesche, aveva insistito sullo stesso
concetto, ricordando come “nel mondo occidentale
oggi viviamo un’ondata di nuovo drastico illuminismo
o laicismo”, e le altre culture “sono inorridite
per la freddezza che riscontrano in Occidente nei confronti
di Dio”.
Quello di Benedetto XVI sembra genericamente un richiamo
alla centralità della fede. Ma poi davvero è
prevalentemente questo il nodo del contendere? A seguire
ancora le parole di Benedetto XVI non sembrerebbe. Per
comprenderlo occorre fare un passo indietro.
Nel messaggio inviato in occasione dell’incontro
di Assisi, Benedetto XVI ha ribadito il valore degli
incontri interreligiosi come “presupposto del
dialogo tra le fedi” e, al tempo stesso, ha sottolineato
la necessità di non dare luogo a “inopportune
confusioni sincretiste”. Il tema in quel caso
non era il confronto con le altre fedi, ma la risorsa
delle fede e al tempo stesso la dimensione specifica
del sacro in cui si riconosce la propria identità.
Ma un’identità non basta enunciarla, occorre
praticarla. Su questo piano le risposte di Benedetto
XVI sono deboli. In quali forme si fonda, si riconosce
e si comunica un’identità? Ovvero attraverso
quale pratica si dà conto della presenza attiva
di una fede?
La vera questione è il fatto che Benedetto XVI
non individua l’atto efficace in grado di comunicare
la forza persuasiva della Chiesa. Per i cultori dello
scontro di civiltà la questione è il conflitto
con la forza di mobilitazione e di convinzione dimostrata
in questi due ultimi decenni dall’Islam. Ma eliminata
la dimensione dello scontro aperto – su cui con
buona pace dei vari Marcello Pera non sembra ci sia
per ora un’adesione - la questione è dunque
con quale atto la Chiesa dimostra di essere persuasiva,
mobilitante, convincente. In altre parole: egemone.
Dietro le parole di Benedetto XVI sembra di intuire
che la partita è quanta capacità di richiamo
ha oggi la Chiesa. Per verificarla non occorre un atto
dichiarativo, ma uno operativo. Nella storia della prassi
devozionale questo atto ha spesso coinciso con la pratica
del digiuno, una pratica che si fonda su una dichiarazione
di pentimento, di “ritorno” di riconoscimento
di una “strada smarrita”. Forse Benedetto
XVI dovrebbe chiamare a un atto pubblico, ma quanti
lo seguirebbero davvero? Dietro alla crisi del sacro
forse sta proprio la constatazione che alla fine “Chi
crede oggi è solo”. L’esatto opposto
dell’enunciato di partenza e su cui occorre riflettere.
Il richiamo al sacro non è un antidoto.
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