Tratto
da Reset
Daniel A. Bell insegna filosofia all’università
Tsinghua di Pechino. È autore tra l’altro
di "Communitarianism and Its Critics" (Oxford
University Press, 1993), "East Meets West"
(Princeton: Princeton University Press, 2000) e di "Beyond
Liberal Democracy: Political Thinking for an East Asian
Context" (Princeton University Press, 2006). Ha
curato inoltre "Confucian Political Ethics"
(Princeton University Press, 2006) and "Ethics
in Action" (Cambridge University Press; United
Nations University Press, 2006) entrambi in uscita.
Pochi professori occidentali aspirerebbero
a insegnare teoria politica in un contesto autoritario.
Uno scambio dialettico libero e spregiudicato è
indubbiamente essenziale ai fini del nostro lavoro.
Quando racconto ai miei amici occidentali che ho lasciato
un posto sicuro e ben pagato in un luogo abbastanza
libero come Hong Kong per un incarico a progetto all’Università
Tsinghua di Pechino, pensano che mi sia bevuto il cervello.
Spiego loro che si tratta di un’occasione irripetibile:
per la prima volta, dai tempi della rivoluzione, la
Tsinghua ha ingaggiato un docente straniero in discipline
umanistiche; per di più, alla Tsinghua si forma
gran parte dell’élite politica cinese,
e insegnare a quella élite potrebbe significare
cambiare le cose; inoltre, gli studenti sono dotati,
curiosi e solerti, ed è piacevole lavorare con
loro; infine, il futuro politico della Cina è
ancora tutto da scrivere, e io godrei di una posizione
privilegiata per osservare i cambiamenti mentre si producono.
D’altra parte non posso negare che insegnare teoria
politica in Cina è problematico. In parte per
le limitazioni politiche, ma non è solo una questione
di politica. Sebbene la Cina sia diventata di punto
in bianco una democrazia liberale di tipo occidentale,
permangono ostacoli di ordine culturale. In questo saggio
tratterò alcune di queste sfide culturali e politiche.
Limitazioni politiche
La propensione a tollerare le limitazioni
politiche dipende in parte dalla propria storia personale.
Nel mio caso, all’inizio degli anni Novanta ho
insegnato all’Università Nazionale di Singapore,
il cui direttore di dipartimento era un membro della
formazione di governo Partito d’Azione popolare.
Ben presto costui fu sostituito da un altro direttore,
che chiese di esaminare le mie letture consigliate e
mi comunicò che avrei dovuto insegnare più
comunitarismo (argomento della mia tesi di dottorato)
e meno John Stuart Mill. Il che, naturalmente, mi spinse
a fare il contrario. Nella mia classe allora cominciarono
a presentarsi strani individui, quando trattavo temi
«politicamente sensibili» come il pensiero
di Karl Marx, e gli studenti ammutolivano se utilizzavo
esempi tratti dalla politica locale per illustrare le
mie argomentazioni. Cosicché il mancato rinnovo
del contratto non fu per me una sorpresa.
In confronto, la Cina è il paradiso della libertà
accademica. Tra colleghi tutto è concesso, laddove
la maggior parte dei colleghi di Singapore era piuttosto
diffidente nei confronti degli stranieri. Le pubblicazioni
accademiche sono straordinariamente libere: certo, non
vi sono attacchi personali a leader politici né
appelli espliciti a un sistema di governo multipartitico,
tuttavia alcune politiche, come il sistema di registrazione
familiare che limita la mobilità interna, sono
oggetto di dure critiche. Nel 2004 la televisione di
Stato ha trasmesso, per la prima volta nella storia,
la diretta delle elezioni presidenziali statunitensi,
senza dare un’evidente impronta politica (sospetto
che la gazzarra che ha accompagnato le elezioni presidenziali
del 2000 e l’invasione dell’Iraq a guida
Usa abbiano screditato agli occhi di molti cinesi il
modello di democrazia americano, quindi il governo ha
meno da temere da quel modello). Quello che mi ha sorpreso
di più, forse, è stato non ricevere alcuna
direttiva esplicita (o implicita, per quanto ne sappia)
su cosa potevo insegnare alla Tsinghua: il mio programma
didattico è stato approvato così come
l’ho proposto.
Forme di censura
La primavera scorsa ho tenuto un corso
post lauream dal titolo «Topoi
della filosofia politica contemporanea». Si trattava
di un seminario ristretto, in cui gli studenti preparavano
case studies «sensibili» a scelta,
ad esempio il Tibet, per illustrare le teorie sull’autodeterminazione
e il multiculturalismo. Le limitazioni politiche le
ho sperimentate fuori dell’aula. In un caso si
è trattato di autocensura. Uno studente mi aveva
chiesto di partecipare a un «salotto» alla
Tsinghua sul tema della democrazia. Così ho interpellato
alcuni amici fidati, che però mi hanno consigliato
di starne alla larga. Ho scoperto in seguito che il
«salotto» era semplicemente un gruppo di
discussione tra studenti laureati in filosofia, non
una trappola, e che con ogni probabilità i miei
timori erano infondati.
Ho vissuto un’unica esperienza di censura imposta
dall’esterno. Avevo rilasciato un’intervista
a un quotidiano cinese molto diffuso nei circoli intellettuali.
L’intervista verteva sul ruolo della Cina negli
affari internazionali, e io avevo formulato alcune critiche
sull’invasione dell’Iraq da parte degli
Stati Uniti. Quei commenti furono pubblicati. In quell’occasione
però avevo anche fatto alcune riflessioni sull’antico
filosofo Mencio, sostenendo che egli giustificava le
«spedizioni punitive», le quali avevano
una funzione analoga agli attuali interventi umanitari.
Ebbene, quei rilievi non sono stati pubblicati. Il governo
cinese non tollera alcuna violazione della sovranità
dello Stato e probabilmente il giornale temeva che i
lettori ne avrebbero tratto spunti per i dibattiti in
corso. Con mia grande sorpresa, il direttore del quotidiano
mi ha telefonato per scusarsi, spiegando che l’articolo
era stato «rivisto» da un dirigente del
partito e che egli non aveva nulla a che fare nella
faccenda. Inoltre, si è offerto di pubblicare
l’intervista in versione integrale in una pubblicazione
accademica esente da vincoli di quel tipo. Di contro,
è poco probabile che il direttore del quotidiano
filogovernativo «Straits Times» di Singapore
si sarebbe scusato con un collaboratore perché
le sue opinioni erano state censurate: l’umiliazione
pubblica è una tattica ben più diffusa
per trattare con coloro che non si attengono alla linea
del partito.
Lo scorso autunno ho tenuto due corsi. Sono stato invitato
ad affiancare un altro docente in un corso sulla filosofia
politica occidentale contemporanea all’Università
di Pechino, la seconda maggiore università cinese,
situata nei pressi della Tsinghua. Avendo l’Università
di Pechino un passato di sommosse politiche, mi aspettavo
che le limitazioni fossero più stringenti: infatti,
dopo la rivolta studentesca della primavera del 1989,
il governo ha imposto agli studenti dell’Università
un anno di addestramento militare .
Eppure, ancora una volta, ho potuto insegnare quel che
volevo, con un’unica eccezione: il pensiero marxista.
Mi hanno detto, infatti, che questa materia è
ancora troppo delicata, e il governo non vede di buon
grado gli stranieri che propongono interpretazioni alternative
del marxismo. Mi è stato detto altresì
che gli studenti non gradiscono l’insegnamento
marxista in alcuna veste: ne hanno avuto abbastanza,
e ora vogliono imparare altro.
La politica in aula
Alla Tsinghua ho tenuto un seminario
post lauream sulla «Guerra giusta e ingiusta».
A quanto pare in Cina predomina il «paradigma
realista», ossia l’idea secondo cui negli
affari internazionali gli Stati sono mossi soltanto
da interesse nazionale e la morale non è, e non
dovrebbe essere, usata per giudicare il comportamento
internazionale degli Stati. Ritengo che sia necessario
esaminare le teorie che contemplano una valutazione
morale della guerra, soprattutto ora che la Cina si
sta affermando quale potenza dominante sulla scena internazionale.
Dopo la prima lezione, uno studente della Scuola del
Partito si è trattenuto per chiedermi se poteva
frequentare anche quel corso. Ho accettato.
La seconda lezione era incentrata sull’intervento
umanitario. A molti cinesi riesce difficile credere
che un qualsivoglia intervento possa essere giustificato
su basi morali. Ho chiesto agli studenti come si sarebbero
comportati se nella casa dei loro vicini si fosse verificato
un massacro – per esempio, un padre che uccide
un figlio – e loro avessero avuto la facoltà
di fare qualcosa. In molti hanno risposto che sarebbero
intervenuti. Allora ho paragonato quest’eventualità
ai massacri in altri Stati, chiedendo se esiste una
differenza morale nel caso di uno Stato vicino. La maggior
parte di essi riteneva che ci sia una giustificazione
morale per l’intervento, anche in uno Stato non
vicino. Quindi ho esaminato il caso del genocidio in
Ruanda, rilevando che Bill Clinton afferma che il suo
più grande rimpianto è di non essere intervenuto
per fermare il genocidio. Fin qui, nessun problema.
Dopodiché la discussione si è spostata
sul Kosovo. Nessuno tra gli studenti riteneva che l’intervento
della Nato fosse giustificato: in fondo, prima dell’intervento
erano morte «solo» poche migliaia di persone,
niente in confronto al genocidio in Ruanda. Ho cercato
di contestualizzare l’evento, spiegando che per
anni gli europei erano rimasti alla finestra, mentre
i Serbi mettevano in atto una pulizia etnica, e che
in molti credevano che fossero pronti a rifarlo. Ma
dubito di essere riuscito a convincerli. Lo studente
della Scuola del Partito ha posto la questione della
sovranità, rilevando che per i cinesi i diritti
umani non dovrebbero avere la priorità sulla
sovranità. Ho replicato che i diritti umani –
o quantomeno l’equivalente funzionale dei diritti
umani, o come li si voglia chiamare – sono il
nocciolo della sovranità. La sovranità
non ha che valore morale, dal momento che, di solito,
serve a tutelare i diritti umani fondamentali dei popoli,
e perde il suo valore allorché uno Stato violi
quei diritti o non riesca a tutelarli. Ho chiesto a
quello studente se, in quanto capo di uno Stato sovrano,
potevo uccidere milioni di persone del mio popolo e
se sarebbe stato lecito ammonire gli altri a non intervenire,
perché altrimenti avrebbero calpestato la mia
sovranità. Lo studente ha riconosciuto che non
sarebbe stato lecito. Allora gli ho chiesto quale era
il valore morale della sovranità se non contribuire
a garantire i diritti fondamentali di un popolo in uno
Stato. Lo studente mi è sembrato sinceramente
perplesso e ha replicato ad alta voce, rivolto alla
classe, «Mhm… quello che lei dice è
molto diverso da ciò che abbiamo imparato».
Ha poi rilevato che la mia idea sull’intervento
giustificato era stata abbracciata anche dai fautori
dell’invasione irachena a guida Usa. Avevo parlato
della teoria di Michael Walzer sulla guerra giusta,
sottolineando che la sua tesi in quel caso non avrebbe
giustificato l’intervento, perché un’alternativa
alla guerra esisteva (gli ispettori Onu), e perché
la guerra dovrebbe essere sferrata solo quando prima
siano state perseguite seriamente altre alternative.
Ho menzionato le altre condizioni per una guerra giusta,
precisando che oggi in molti casi misure come le sanzioni
economiche sarebbero più adeguate per far fronte
alle ingiustizie in terra straniera. Quindi lo studente
mi ha chiesto se pensavo che in Cina, dopo il 4 giugno
1989, si sarebbero dovute utilizzare sanzioni economiche.
Sono rimasto interdetto: era la prima volta che uno
studente pronunciava quella data fatidica in un’aula
(ossia in un contesto diverso da una discussione privata).
Non potevo eludere la domanda, d’altra parte non
potevo neanche rispondere francamente. Ho farfugliato
qualcosa, e alla fine mi è venuta in mente la
risposta «giusta»: ho detto che il seminario
verteva sull’uso della violenza moralmente giustificato,
e che nessuno pensava che le potenze straniere sarebbero
dovute intervenire militarmente dopo il 4 giugno, perché
il prezzo di un intervento contro una potenza nucleare
avrebbe superato di gran lunga i benefici. Per la stessa
ragione, ho aggiunto, nessuno sano di mente reclama
un intervento militare contro la Russia in difesa del
popolo ceceno. Un altro studente è intervenuto
sostenendo che il 4 giugno le persone non erano state
uccise per motivi etnici o razziali, e che quindi il
caso non era paragonabile ad altri esempi di intervento
umanitario. Avrei voluto ribattere che la giustificazione
morale per un intervento esterno scatta per il numero
di persone uccise più che per i motivi per i
quali vengono uccise , ma ho frenato la lingua. Alla
fine della lezione ho ringraziato lo studente ospite
per i suoi interventi che avevano reso la discussione
più interessante. Ha risposto: «Siamo noi
a dover ringraziare lei, speriamo che ci siano ulteriori
discussioni e ci piacerebbe ascoltare ancora le sue
idee».
Il giorno seguente, ho inviato a tutta
la classe un’e-mail che conteneva questo passaggio:
Lunedì prossimo continueremo
la nostra discussione sulla teoria di Walzer circa le
condizioni per una guerra giusta. Nell’ambito
del dibattito esamineremo la seguente ipotesi: siete
i consiglieri di un capo di Stato e in uno Stato vicino
un milione di persone, appartenenti a una minoranza
debole, corre il serio pericolo di essere massacrato.
Il vostro paese potrebbe avere la facoltà di
intervenire per proteggere la minoranza ed evitare il
genocidio, ma l’Onu non appoggerebbe l’intervento.
Che fate? Possiamo dividere la discussione in due parti,
e ciascuno di voi a metà del dibattito difenderà
la posizione opposta. In questo modo potrete esaminare
entrambi gli aspetti della questione. Vi ricordo che
si tratta di un seminario accademico, e lo scopo è
imparare a valutare in modo critico gli argomenti, non
difendere posizioni politiche particolari.
Nel corso del dibattito, gli studenti
hanno avanzato un interessante argomento non contemplato
nel testo, ossia che molti soldati si arruolano per
difendere gli interessi nazionali e sarebbe quindi difficile
giustificare il fatto di mettere a repentaglio la loro
vita se il paese non ne traesse un qualche vantaggio
(in altri termini, la convergenza tra interesse nazionale
e interesse umanitario rafforza, non indebolisce, la
giustificazione morale per un intervento umanitario).
Ero ovviamente curioso di assistere alla prova dello
studente della Scuola del Partito. Devo dire che ha
fatto un buon lavoro nell’esporre entrambi gli
aspetti della discussione, anche la difesa dell’idea
secondo cui gli abusi dei diritti umani possono giustificare
la violazione della sovranità, e si è
astenuto da commenti provocatori.
Vorrei ora tirare le somme di queste riflessioni sulle
limitazioni politiche. Le restrizioni alla scrittura
sono più tollerabili quando la censura viene
attuata in modo schietto ed è seguita da scuse,
e se vi sono opportunità alternative per pubblicare
nel proprio paese e all’estero. Le restrizioni
all’insegnamento sono più tollerabili se
si è fatta esperienza di vincoli più stringenti,
tuttavia è difficile evitare che gli studenti
intavolino discussioni proprio su temi delicati suscettibili
di creare problemi. Le restrizioni alle conversazioni
politiche possono altresì generare paranoie ingiustificate,
soprattutto nei nuovi arrivati che ancora non conoscono
bene i confini della correttezza politica. Forse dovrei
essere più positivo. Lavorare in un contesto
politico restrittivo comporta alcuni vantaggi psicologici:
dal momento che le autorità politiche si interessano
a ciò che faccio, non devo preoccuparmi dell’utilità
pratica del mio lavoro. Si dice spesso che gli intellettuali
russi si sentivano in un certo senso demoralizzati dopo
il crollo dell’Unione Sovietica, perché
sembrava che il popolo avesse perso interesse verso
il loro lavoro. Se i loro sogni si fossero realizzati
non si sarebbero sentiti demoralizzati. Ma, di solito,
c’è un abisso tra i propri ideali e la
realtà, persino dopo una rivoluzione, e sarebbe
preoccupante se la libertà politica equivalesse
a un senso di inutilità da parte degli intellettuali.
Lo status di docente
Uno dei vantaggi di insegnare in Cina,
e ancora più di insegnare in un’università
prestigiosa, è lo status sociale relativamente
elevato di cui si gode. L’avversione della Rivoluzione
culturale nei confronti delle élite intellettuali
sembra ormai acqua passata. All’Università
di Tsinghua, un tempo baluardo dell’estrema sinistra,
campeggia oggi una statua di Confucio. Lo Stato riconosce
ufficialmente l’importanza sociale dei professori
promuovendo iniziative come i viaggi a prezzi agevolati
per i docenti.
L’elevata considerazione sociale si traduce in
una concezione della professione docente che ha messo
in discussione il mio precedente metodo di insegnamento.
In passato avevo cercato di evitare che le mie idee
influenzassero l’esposizione degli argomenti (sebbene
una certa impostazione traspaia sempre). Così
presentavo le teorie dei vari pensatori sotto la migliore
luce possibile, lasciando che fossero gli studenti a
discutere e a formarsi una loro opinione. Tuttavia,
in Cina, un tale approccio delude immancabilmente. Mi
è stato detto e ripetuto di esprimere le mie
opinioni: gli studenti vogliono che i professori espongano
e difendano i loro punti di vista, forse perché,
in linea con la tradizione confuciana, ritengono che
essi possano fungere da esempi da seguire (o rigettare).
Durante il corso sull’utilitarismo di Mill, ad
esempio, uno studente mi ha chiesto se il governo dovrebbe
promuovere i piaceri superiori o quelli inferiori, o
entrambi. Di norma, avrei chiesto allo studente quale
era la sua idea, ma sapevo che così lo avrei
scontentato. Ho risposto quindi che qualsiasi governo
rispettabile dovrebbe cercare di promuovere sia misure
che garantiscano i mezzi di sussistenza per i poveri
sia politiche mirate a favorire la vita intellettuale.
Non sono entrato nel dettaglio e ho schivato le questioni
spinose, come la scarsezza delle risorse e i compromessi
tra i valori.
L’elevato status sociale dei docenti si traduce
altresì in un modo peculiare di relazionarsi
agli studenti al di fuori della classe. In primo luogo,
il professore è considerato al contempo un’autorità
intellettuale e una figura etica, che ha a cuore lo
sviluppo emotivo dello studente. Così, quando
ricevo gli studenti, all’inizio dell’incontro
di solito mi informo su come stanno e come va la loro
famiglia. Alla fine del semestre invito a casa gli studenti,
che tartassano di domande la mia famiglia. Da par loro,
gli studenti a volte, dopo le vacanze, mi portano dei
regali. Rifiutare quei doni sarebbe il colmo della scortesia.
All’inizio di settembre in tutto il paese si celebra
la «Giornata del professore», e gli studenti
spesso regalano fiori ai loro insegnanti: in quell’occasione,
venditori di fiori fiancheggiano i viali del campus
dell’Università di Pechino.
I confini tra pubblico e privato vengono messi alla
prova anche in altri modi. L’apporto degli studenti
laureati va ben oltre il contributo nella ricerca. Essi
aiutano altresì in incombenze di tipo personale:
nel mio caso, ad esempio, il dipartimento ha ingaggiato
un laureato per aiutarmi con il visto e con le procedure
di trasferimento. Di contro, vige un rigoroso rispetto
del confine tra la sfera economica e quella accademica.
Ho chiesto ad alcuni studenti di darmi una mano con
il cinese classico, ed essi mi danno lezioni individuali
durante le quali esaminiamo i testi classici in modo
graduale e accurato. Per quanto ci provi, non c’è
verso di pagarli. Così, ho dovuto barattare la
loro prestazione con una mia prestazione, ad esempio
li aiuto con lo studio dell’inglese. La verità
è che raramente quello che faccio per loro ripaga
ciò che loro fanno per me. Dicono che imparano
anche quando mi danno lezione di cinese, ma probabilmente
lo dicono solo per educazione. Preferirei una relazione
di mercato equa per entrambi, ma forse l’idea
che un docente paghi uno studente per insegnare all’insegnante
è troppo lontana dalla concezione ordinaria della
corretta divisione dei ruoli.
Con ciò non voglio dire che gli studenti laureati
non abbiano bisogno di denaro. L’università
corrisponde loro uno stipendio di circa 50 dollari al
mese: non sorprende, dunque, che non acquistino libri
in inglese. All’inizio, ero sconcertato dall’ostinata
noncuranza verso le leggi sul diritto d’autore:
gli studenti vendono o distribuiscono alla luce del
sole versioni fotocopiate di interi libri. Ma è
poco realistico aspettarsi che comprino libri in inglese
(i libri in cinese invece sono molto più economici,
si aggirano di solito intorno ai 2-3 dollari). Per quel
che vale, amici autori, io stesso ho prestato i miei
libri agli studenti perché li fotocopiassero.
In aula anche gli studenti sollevano questioni. Non
sono sfaccendati, anche perché da un punto di
vista statistico è molto più difficile
essere ammessi alla Tsinghua o all’Università
di Pechino che non in una prestigiosa università
americana. I miei studenti diventeranno, con ogni probabilità,
la futura classe dirigente: mi hanno detto che alla
Tsinghua gli studenti membri del Partito comunista preparano
il curriculum educativo per tutti i giovani comunisti
cinesi. Sono sicuri di sé da un punto di vista
intellettuale, e spesso molto preparati sulle tradizioni
filosofiche cinese e anglo-americana (non di rado anche
su quelle francese e tedesca). Spesso, tuttavia, esprimono
le loro critiche per e-mail, non in classe. Naturalmente,
le loro e-mail sono sempre cordiali, ma nella sostanza
contengono dure critiche su ciò che ho detto
in aula.
Vi sono altre occasioni per dibattiti al di fuori della
classe. Il dipartimento di Tsinghua organizza escursioni
nel fine settimana per promuovere legami meno formali
tra studenti e docenti. In questo semestre, 35 studenti
laureati e 4 «giovani» professori (sotto
la cinquantina) hanno fatto un viaggio di tre ore in
pullman fino ai piedi della Grande Muraglia. Siamo risaliti
lungo la parte «selvaggia» della Muraglia,
fermandoci poi a consumare un’eccellente cena
a base di prodotti locali. La cena comprendeva anche
molto alcol, e i professori giravano tra i tavoli brindando
con gli studenti .
Con mia somma sorpresa, il gruppo si è addentrato
in una discussione sul valore della critica di Alasdair
MacIntyre alla modernità liberale. Due studenti
avevano preparato delle relazioni che hanno letto prima
del dibattito. Proprio fuori la nostra sala da pranzo/seminario,
un gruppo di turisti stava facendo baldoria e alcuni
studenti non hanno potuto evitare di andare a dare un’occhiata.
Ma per il resto il dibattito si è svolto in modo
ordinato. Mi hanno tartassato di domande sul comunitarismo,
sebbene anch’io avessi consumato la mia buona
dose di alcol. Il mattino seguente, ho confessato al
responsabile del gruppo la mia sorpresa per quel dibattito
così serio avvenuto dopo tanto alcol. Mi ha risposto:
«È proprio grazie all’alcol che quel
tipo di discussione è stata possibile».
Vorrei tirare le somme di queste riflessioni sulle differenze
culturali. Forse insegnare nel contesto di una lingua
straniera è in assoluto la sfida maggiore. L’ideale
per un docente straniero sarebbe conversare nella lingua
locale, che meglio si presta agli scambi critici, ma
ciò richiederebbe anni di full immersion.
Nel breve-medio periodo, esistono compromessi meno ideali,
come il «bilinguismo passivo» (ciascuno
parla nella lingua che preferisce), che caratterizza
anche alcuni incontri della Comunità europea.
In Cina esiste una lunga tradizione di stima per l’insegnamento,
il che è ovviamente una manna per i docenti,
sebbene per i docenti (e per gli studenti) ciò
si traduca in obblighi non accademici che travalicano
la concezione occidentale di rapporto insegnante-studente.
Tali obblighi possono tuttavia essere fonte di gratificazione
emotiva. L’attività intellettuale non si
esaurisce nell’aula: alimentato da una giusta
dose di rituali, il dibattito critico con studenti e
docenti può aver luogo in contesti differenti,
senza che nessuno ci perda la faccia.
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