A scrivere
la storia e, con essa, naturalmente, a decidere i connotati
e la fisionomia della “giustizia” è
il vincitore. Una regola elementare della storia, ben
nota a tutti, che talvolta tendiamo a dimenticare –
e che alcuni hanno interesse a farci scordare. Ce lo
ricorda, invece, in libro volutamente anche appassionato,
una delle voci del dibattito politico-culturale italiano
(e non solo) di questi anni, Danilo Zolo, professore
di Filosofia del diritto e Filosofia del diritto internazionale
all’università di Firenze, nonché
polemista di vaglia su vari giornali e nella pubblicistica
di sinistra.
La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad
è un excursus approfondito e radicale (e decisamente
schierato) sull’intreccio recente tra assetto
delle relazioni internazionali, guerra e giustizia penale.
All’insegna, ancora una volta, evidenzia Zolo,
dell’egemonia culturale del mondo anglosassone
(innanzitutto nella sua versione nordamericana), che
ha progressivamente assimilato – nonostante l’avviso
contrario di numerosi trattati multilaterali e della
stragrande maggioranza della dottrina – gli individui
agli Stati quali soggetti dell’ordinamento giuridico
internazionale. Di qui, l’orientamento giuridico
che vede nella guerra di aggressione un crimine internazionale,
da punire al pari di ogni altro crimine di guerra; condizione
che richiedeva, pertanto, l’introduzione della
giustizia penale in sede di ordinamento internazionale.
Il primo tentativo di implementare questa visione –
o, meglio, come afferma Zolo, di legittimare tramite
il ricorso all’istanza giudiziaria la vittoria
di uno degli schieramenti in competizione – coincide
con l’incriminazione del kaiser, Guglielmo II,
all’indomani della sconfitta degli Imperi centrali
da parte degli eserciti dell’Intesa nella prima
guerra mondiale, accusato di “oltraggio supremo
contro la moralità internazionale e la santità
dei trattati”. Un episodio non particolarmente
noto (e che non portò mai alla celebrazione del
processo), emblematico secondo l’autore di quanto
sarebbe accaduto successivamente al secondo conflitto
mondiale. La prova generale dei processi di Norimberga
e Tokyo e, più vicino a noi, di quelli contro
Slobodan Miloševic e Saddam Hussein, tutti contraddistinti
dalla logica della prevalenza del vincitore e da quella
che Zolo definisce una “giustizia retributiva,
esemplare, sacrificale”.
Una visione, non occorre neppure precisarlo, sulla
quale la discussione è aperta e che risulta oggetto
di contestazioni e critiche variamente argomentate e
motivate. Zolo è un anti-apologeta durissimo
dell’interventismo umanitario, nel quale scorge
nulla più della prosecuzione del disegno egemonico
delle potenze occidentali, e che vede collegato strettamente
a questo uso parziale e “privatistico” della
giustizia penale, che diventerebbe, per l’appunto,
la foglia di fico e l’ennesimo puntello alla legge
del più forte. Nel libro, con notevole acume,
lo studioso decostruisce dunque i meccanismi penali
messi in opera, rigettando la “giustizia ritagliata
su misura” ad uso e consumo delle esigenze di
dominio delle nazioni leader e portando alla luce l’assenza
di corrispettivi in occasione delle loro guerre di aggressione
– dal Vietnam e un’infinità di casi
per gli Usa all’Afghanistan per l’Urss,
sino ai Balcani (Bosnia-Erzegovina e Kosovo, dove la
Nato ha svolto la funzione di longa manus americana)
e all’Iraq.
Con i dovuti distinguo, Zolo prende le mosse da alcune
(ben note) intuizioni di grande respiro di Carl Schmitt:
la fine della centralità dell’Europa e
la crisi dello jus publicum europaeum alla
conclusione della guerra del 1914-18. Ovvero, il tramonto
di quell’ordinamento internazionale spazializzato
partorito fondamentalmente dal Trattato di Vestfalia,
soppiantato dal paradigma della Società delle
Nazioni, in buona parte emanazione degli Stati Uniti
(nella versione del cosmopolitismo di Wilson –
che, ci permettiamo di aggiungere, rispetto agli odierni
tempi bui dovremmo rimpiangere, ma che non raccoglie
certamente le simpatie di Zolo), volto a garantire la
“pace perpetua” (“utopia kantiana
priva di interesse teorico e politico”, come la
liquida l’autore) in ossequio ai propri caratteri
di universalismo e “despazializzazione”.
Con questo – ingenuo e falso, secondo Schmitt
(e, da un punto di vista radical, anche secondo Zolo)
– pacifismo universalistico, torna di moda la
filosofia neoscolastica di bellum justum (segnalata
dal ritorno in auge, nel diritto internazionale di inizio
Novecento, del pensiero di Francisco de Vitoria), la
quale porterà poi alla criminalizzazione della
guerra di aggressione, visione nella quale l’aggressore
cessa di essere un belligerante a pari titolo del suo
contendente per convertirsi in un “criminale”.
Il problema, ci segnala Zolo, è che sono i rapporti
di forza a decidere il “segno” di questa,
a suo giudizio molto discutibile, giustizia penale internazionale,
destinata a trovare la propria prima celebrazione nel
processo di Norimberga, oggetto di dubbi di legittimità
da parte dello stesso insospettabile Hans Kelsen. Nel
corso di tutta la sua lunga, e concettualmente assai
densa, carrellata attraverso alcune delle tematiche
fondamentali della filosofia del diritto e delle relazioni
internazionali contemporanee – dalla nozione di
“impero” (e il suo legame con il conflitto)
alla guerra globale preventiva, dal “perverso”
fondamentalismo umanitario all’analisi delle ragioni
del terrorismo (e degli strumenti per sconfiggerlo)
– Zolo produce una denuncia inflessibile e una
requisitoria implacabile contro quello che chiama il
“sistema dualistico” della giustizia internazionale.
La “giustizia dei vincitori” che si scatena
sui deboli e gli oppressi e la giustizia debole che
non si applica mai alle loro nefandezze e non ci porterà
a vedere punizioni, nota amaramente lo studioso, per
i responsabili americani della strage di Fallujah piuttosto
che per il genocidio russo in Cecenia o per i crimini
delle milizie israeliane in Palestina, e per le tonnellate
di “atti contro l’umanità”
perpetrati dall’Occidente e dalle altre potenze
nel corso del secondo Novecento e durante i nostri anni.
C’è da eccepire – e, a volte, non
poco – ma si tratta sicuramente di una lettura
consigliabile (come tutto ciò che fa discutere
e pensare) per molti, intellettuali, operatori del diritto
internazionale e decision-makers.
Danilo Zolo
La giustizia dei vincitori
Laterza, pp. 194, euro 16.
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