Il 23 maggio
scorso, nel corso della sua prima visita alla Casa Bianca,
il Primo Ministro israeliano Ehud Olmert ha dichiarato
al presidente Bush che Israele “dedicherà
dai sei ai nove mesi alla ricerca di un partner palestinese”
prima di mettere in atto il “Piano di Convergenza”
unilaterale. Si tratta di una falsa promessa. Olmert
sa che data la realtà della Cisgiordania e della
Striscia di Gaza, le probabilità di ritornare
al tavolo di negoziazione sono vicine allo zero.
Nei territori occupati è cambiato molto da quando
Fatah ha perso le elezioni democratiche in favore di
Hamas, il partito islamista. Dopo la vittoria elettorale
di Hamas, Olmert ha chiesto ai leader stranieri di boicottare
la nuova autorità palestinese fino a che essa
non avesse soddisfatto tre condizioni: 1) il disarmo
di Izzeddin al-Qassam e di altri gruppi paramilitari,
2) l’annullamento della carta di Hamas che invoca
la distruzione di Israele, e 3) l’accettazione
degli accordi e degli obblighi che l’autorità
palestinese si era assunta quando Fatah era al governo.
Considerata la dichiarazione rilasciata di recente
dal Primo ministro palestinese Ismail Hania, secondo
cui se Israele si ritirerà entro i confini del
1967 Hamas sarà disposta a firmare un accordo
di pace fondato su una hudnah (tregua) estesa, le prime
due condizioni potrebbero diventare benissimo parte
di negoziati futuri anziché una condizione per
negoziare. La terza richiesta di Olmert, comunque, mette
Israele in una situazione difficile. Dopotutto, negli
ultimi tre anni, Israele – e non i Palestinesi
– ha utilizzato la barriera di separazione per
attuare un piano unilaterale che contravviene tutti
gli accordi precedenti. Di conseguenza, stando alla
logica di Olmert, per poter rimanere coerente la comunità
internazionale dovrebbe boicottare anche Israele.
Ciò nondimeno, a seguito delle pressioni statunitensi,
gli altri tre membri del cosiddetto Quartetto –
le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Russia
– sono stati d’accordo nell’assegnare
piena fiducia alle richieste di Olmert, e hanno tagliato
la maggior parte degli aiuti all’autorità
palestinese.
Anche prima che gli aiuti venissero tagliati, il 64%
degli abitanti palestinesi viveva sotto la soglia internazionale
di povertà pari a 2.20 dollari al giorno, mentre
la Banca Mondiale riferiva che il 9% dei bambini palestinesi
erano affetti da malnutrizione acuta. Dal momento che,
in Cisgiordania e a Gaza, gli aiuti ammontano a circa
un terzo del reddito nazionale lordo pro capite, i tagli
potrebbero portare a una carestia.
Da quando sono state tagliate le sovvenzioni, nel mese
di febbraio, l’autorità palestinese non
è stata in grado di pagare lo stipendio ai suoi
160mila dipendenti. Questi lavoratori provvedono al
sostenimento diretto di oltre un milione di persone
(quasi un terzo della popolazione) e se i loro salari
non verranno corrisposti per qualche altro mese l’economia
palestinese crollerà completamente. Sia Israele
che gli Stati Uniti stanno valutando ora come alleggerire
la gravità della situazione, dopotutto nessuno
vuole essere accusato di aver provocato una carestia.
Assieme hanno adottato uno schema che potrebbe essere
definito il “Piano Somalia”.
L’idea è di trasferire gli stipendi direttamente
sui conti bancari di quei 90mila lavoratori dell’autorità
palestinese che sono impiegati in istituzioni civili
come i ministeri dell’istruzione e della salute.
I restanti 70mila palestinesi che lavorano per uno dei
tanti apparati di sicurezza dei territori occupati non
riceveranno il proprio salario. Questo manterrà
l’economia appena al di sopra del livello di carestia,
lasciando 70mila uomini armati senza nient’altro
che frustrazione e rabbia.
In queste condizioni, è sicuro che scoppierà
una lotta tra i vari signori della guerra palestinesi
per l’accaparramento delle scarse risorse presenti
nei Territori Occupati. Ha’aretz ha già
riferito che nelle ultime settimane dozzine di bombe
sono state disposte vicino abitazioni o autovetture
di alti funzionari e impiegati di Hamas, allo stesso
tempo anche nelle case e nelle auto dei funzionari di
Hamas e della Sicurezza Preventiva sono state rinvenuti
degli ordigni che, in alcuni casi, sono esplosi provocando
danni e feriti.
Se i conflitti esistenti tra le diverse fazioni si evolveranno
in una vera e propria battaglia, potrebbe benissimo
accadere che alcuni segmenti della popolazione palestinese
patiranno la fame. Eppure, saranno i signori della guerra
o i leader delle varie fazioni, anziché Israele
o gli Stati Uniti, ad essere accusati di aver provocato
una catastrofe umanitaria. In altre parole, stiamo assistendo
alla nascita di una nuova Somalia.
Alcuni membri dell’Unione Europea hanno espresso
“profonda preoccupazione” per il deteriorarsi
delle condizioni umanitarie, economiche e finanziarie
nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Ma pur avendo
promesso di riprendere gli aiuti ai palestinesi, l’alto
rappresentante per la politica estera della Ue, Javier
Solana ha lasciato intendere ad Ha’aretz che la
resistenza del Congresso statunitense potrebbe rendere
impossibile il trasferimento dei fondi.
Così non solo a Israele e agli Stati Uniti non
importa porre fine agli scontri violenti tra palestinesi,
ma non sembra neanche interessare il fatto che una guerra
civile nei Territori Occupati provocherà enormi
sofferenze e destabilizzerà la regione per decenni.
Per molti versi, le loro politiche stanno facendo precipitare
questa situazione in modo non casuale ma all’interno
della logica stessa che informa l’eterna guerra
al terrore.
Traduzione di Martina Toti
L’articolo è stato pubblicato il 15
giugno 2006 sulla rivista online In
These Times
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