10 aprile
2006. Tantissimi italiani scoprono che a decidere la
vittoria del centro sinistra al senato sono stati i
senatori eletti all’estero. Diversi esponenti
del centro destra, nel ripetuto tentativo di delegittimare
la vittoria - sia pure risicata - del centro sinistra,
iniziano quindi ad attaccare l’esercizio del voto
all’estero, che ha finito per essere risolutivo.
Attacco strumentale, ai limiti del ridicolo, considerato
che il centro destra è stato autore (e gestore)
della Legge n. 459/2001 (detta non a caso Legge Tremaglia).
Chi è causa del suo mal, pianga se stesso, si
dirà e ciò è senza dubbio vero
sul piano politico. Resta tuttavia la grande impressione
che uno scrutinio così incerto sia stato deciso
(anche) da italiani all’estero come la moglie
del presidente brasiliano Lula, per usare l’esempio
di D’Alema. E’ bene quindi provare a tracciare
qualche riflessione sul voto all’estero, che obiettivamente
qualche problema lo pone, anche sul piano delle sue
modalità tecniche. Proviamo quindi a parlarne
a prescindere dal risultato elettorale, ben sapendo
che non sarà facile.
Genesi e natura della Legge Tremaglia
La legge Tremaglia nasce come provvedimento applicativo
della doppia riforma costituzionale (modifica degli
articoli 48, 56 e 57) approvata nella XIII legislatura
con uno spirito essenzialmente bipartisan.
In realtà a suo tempo in sede di Commissione
per le riforme costituzionali c’era stata una
voce contraria che aveva detto parole di buon senso.
Gian Giacomo Migone dei Ds aveva infatti contro proposto
un emendamento che impegnava la Repubblica ad assicurare
l’esercizio del diritto di voto per i soli cittadini
provvisoriamente all’estero, e non anche per quelli
che vi si erano stabilmente impiantati. Si sa come finì.
Anche nei Ds, dopo iniziali resistenze, prevalse l’appiattimento
sulla linea di Tremaglia (e a dire il vero, anche di
Ciampi) e non solo l’emendamento non passò
ma Migone non venne ricandidato nella successiva legislatura.
Perché passò la linea del vecchio esponente
aennino? Anzitutto perché, nel corso degli anni
si era affermata in modo trasversale l’idea che
la legge sul voto all’estero – a lungo bandiera
dei soli missini - rappresentasse un atto dovuto nei
confronti dei nostri connazionali emigrati nel mondo.
Ad esso sottaceva l’idea – ancora più
politically correct – che ci fosse un
torto da riparare, una storica mancata attenzione nei
confronti di tale categoria, composta da poveri compatrioti
costretti ad emigrare anni addietro. In tale contesto,
i rappresentanti degli emigranti (sulla cui rappresentatività
torneremo poi) e Tremaglia insistevano appunto sul nesso
tra cittadinanza ed esercizio (all’estero) del
diritto di voto. Nesso di per sé non scontato
e anzi contestabile, tant’è vero che in
altri ordinamenti (ad es. Regno Unito e Germania) dopo
un certo periodo di tempo la stabile residenza all’estero
fa venire meno il diritto di voto.
In proposito, è bene precisare che in realtà
, i cittadini italiani residenti all’estero, invece,
il diritto di voto ce l’avevano sempre avuto,
riconosciuto dalla Costituzione che non faceva alcuna
distinzione in base alla residenza o meno in Italia.
L’unico problema era che per esercitare il diritto
di voto i nostri emigrati dovevano tornare in Italia
(e non erano pochi quelli che lo facevano, soprattutto
quelli abitanti nei paesi vicini come Francia, Germania
e Svizzera, e che, potendo usufruire delle agevolazioni
ferroviarie previste sulla tratta italiana, abbinavano
il voto alle vacanze estive nel paese di origine). Certo
si trattava di una possibilità di fatto preclusa
ai nostri emigrati in Argentina, Australia e Stati Uniti.
Ma la riforma costituzionale (e quindi la Legge Tremaglia)
passarono anche perché si affermò l’idea
che gli italiani all’estero potevano divenire
un reticolo di lobbies diffuse in tutti i Paesi
e dovevano essere valorizzati in quanto ambasciatori
(e compratori) dei prodotti made in Italy.
La cosiddetta “Italia fuori dall’Italia”
poteva insomma diventare uno utile strumento di penetrazione
geopolitica del nostro Paese.
Argomenti che hanno indubbiamente una certa valenza,
ma che non sono in nessun caso collegati al diritto
di voto e nemmeno, a ben vedere, al possesso della cittadinanza
in senso pieno. La Spagna, ad esempio, non cerca certo
di guadagnare influenza in america latina riconoscendo
la cittadinanza a tutti i discendenti dei propri coloni
ma più opportunamente fa leva sull’hispanidad,
come insieme di fattori identitari storici, culturali
e linguistici, ma non giuridici. Tornando all’Italia,
fu invece il fascismo a insistere sulla necessità
di mantenere i legami tra emigrati e madrepatria, per
disporre all’occorrenza di più baionette
da richiamare in patria o utili quinte colonne all’estero.
Ma un’analisi più distaccata e attuale
dovrebbe portare a riconoscere che, fatte salve le permanenze
temporanee, gli emigrati (italiani negli altri Paesi
e stranieri in Italia) devono anzitutto integrarsi nel
paese in cui vivono stabilmente e formano una propria
famiglia. La “doppia lealtà”, al
Paese di origine e a quello in cui si vive, alla lunga
può porre dei problemi, tanto sul piano culturale
(Francia e Gran Bretagna docent) che su quello
giuridico.
Ad ogni modo, essendosi formato sull’argomento
un consenso bi-partisan, alla fine della XIII legislatura
è stato prima inserito un terzo comma all’art.
48 (“La legge stabilisce requisiti e modalità
per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti
all'estero e ne assicura l'effettività. A tal
fine è istituita una circoscrizione Estero per
l'elezione delle Camere”) e si è quindi
provveduto a modificare gli art. 56 e 57 relativi rispettivamente
all’elezione della Camera e del Senato riservando
alla circoscrizione estero 12 deputati e 6 senatori.
Tale numero è stato di fatto blindato, a prescindere
da qualsiasi logica demografica (e democratica).
La “doppia lealtà”
L’istituzione di una circoscrizione estera, proposta
da Tremaglia sin dal 1993, aveva da subito sollevato
numerose perplessità (siamo l’unico paese
al mondo ad averla prevista, a parte il Portogallo che
adottò una norma del genere al momento di perdere
le ex colonie), ma alla fine ottenne il consenso di
tutte le forze politiche. Ufficialmente l’idea
era di prevedere una rappresentanza “a parte”
per una realtà sui generis come quella
degli italiani residenti all’estero, in base alla
vulgata tremagliana e della lobby degli italiani
all’estero “di professione”, di cui
si parlerà più avanti).
All’epoca, vi fu anche chi giustificò
tale scelta con la necessità di non rendere decisivo
il voto dei cittadini residenti all’estero nell’ambito
dell’elezione dei vari collegi uninominali previsti
dal Mattarellum. L’argomento era fondato, ma legato
a una legge ordinaria, qual’è quella elettorale,
che successivamente è stata modificata in senso
proporzionale, per cui oggi non appare più giustificato.
Sarebbe stato insomma preferibile prevedere un collegio
elettorale distinto nell’ambito della legge ordinaria
anziché cristallizzarlo con una norma costituzionale.
Tanto più che la creazione di collegi esteri
ha sollevato non poche riserve da parte di alcuni Stati
che vedono di cattivo occhio l’elezione - al proprio
interno - di deputati di parlamenti stranieri e l’organizzazione
di campagne elettorali. Senza contare il già
citato problema della “doppia lealtà”
degli elettori/eletti che sono in maggioranza doppi
cittadini (ovvero italiani e francesi, italiani e argentini
etc..).
In ogni caso nella XIV legislatura, Tremaglia, divenuto
intanto Ministro per gli italiani nel mondo nel Governo
Berlusconi, tenacemente portò avanti il proprio
progetto di legge che passò il 20 dicembre 2001
nell’indifferenza quasi assoluta dei commentatori
(con qualche eccezione come Beppe Severgnini, che andando
frequentemente all’estero, conosceva il problema
meglio di altri).
La Legge peggiorò ulteriormente il già
discusso istituto della circoscrizione estero creando
delle grandi ripartizioni geografiche (una sorta di
macro-collegi) all’interno della circoscrizione
estero (segnatamente Europa, America Settentrionale,
America centro-meridionale, Africa Asia Oceania e Antartide).
Quanto alla tecnica di voto si ponevano tre possibilità
alternative: far votare presso i Consolati (modello
francese, in relazione alle sole elezioni presidenziali
ed ai referendum), far votare per corrispondenza (esempio
tedesco e inglese) e far votare per procura (ancora,
modello francese). Tremaglia scelse di puntare sul secondo.
Esso rispondeva a due obiettivi, uno” tecnico”
ed uno “politico”. Quello tecnico derivava
dalle difficoltà che avrebbe incontrato per l’elettore
che abitava lontano dalla propria Ambasciata o Consolato
di riferimento a recarvisi per il voto. Quello politico
era di “gonfiare” l’interesse degli
italiani all’estero per il voto attraverso estreme
facilitazioni. In soldini la logica era questa: se ricevo
a casa la scheda e l’unico sforzo che devo fare
e riempirla e spedirla per posta entro dieci giorni,
senza pagare una lira di affrancamento, allora è
più facile che lo faccia anche se dell’Italia
mi interessa assai poco; se invece devo fare 200 km
di macchina, ovvero due ore di coda per votare in Consolato
allora lascio perdere.
Tanto per complicare ulteriormente le cose, la Legge
459 ha previsto che, in via alternativa al voto per
corrispondenza, si possa anche votare presso la sezione
elettorale italiana nelle cui liste l’elettore
è iscritto. Prima di ogni scadenza elettorale
la rete consolare deve chiedere all’interessato
di optare se votare all’estero o in Italia.
Che significa votare per posta
Secondo i dati del ministero degli Esteri, al voto
di aprile hanno partecipato 1.135.617 elettori a fronte
di 2.699.421 plichi inviati ad aventi diritto, per una
percentuale complessiva di voto del 42,07% . E’
bene sottolineare che il voto in questione non è
stata una première in senso assoluto,
come certe affermazioni di esponenti del centro destra
lascerebbero intendere. La Legge 459/2001 era infatti
stata già applicata altre due volte, in occasione
di referendum. Il primo si era svolto il 15/16 giugno
2003 (abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei
lavoratori e delle norme in materia di servitù
di elettrodotto) ed il secondo è stato il referendum
sulla procreazione assistita del 12-13 giugno 2005.
In entrambe le occasioni si erano verificati i problemi
che sono emersi anche in questa occasione.
C’era quindi tutto il tempo per apportare correzioni,
cosa che non è stata fatta e anzi lo stesso Tremaglia
che oggi contesta la legge si vantò all’epoca,
definendo un successo le sue due prime applicazioni,
che pure riscossero percentuali di partecipazione al
voto inferiori a quelle di aprile (al primo rispose
il 24,31% dei destinatari dei plichi, mentre al secondo
il 20,28%). Ma vediamo quali sono stati, in concreto,
i principali problemi posti dall’applicazione
della Legge Tremaglia.
Due hanno natura strutturale. Il primo riguarda la
predisposizione delle liste degli aventi diritti al
voto. Si è fatto un gran parlare, prima e dopo
le elezioni, degli sfasamenti, numerici e qualitativi,
tra l’elenco degli italiani residenti all’estero
e i dati in possesso della rete consolare. Secondo i
dati forniti dal Ministero degli Esteri tra i due elenchi
ci sarebbe una differenza di diverse centinaia di migliaia.
E questa è solo la differenza numerica complessiva,
ma succede anche che una persona che figura in entrambi
gli elenchi vi abbia però recapiti diversi. Come
è possibile tutto ciò? Il problema deriva
dalla Legge 470/1988 che ha previsto presso ogni anagrafe
comunale l’istituzione di un apposito elenco degli
italiani residenti all’estero. La raccolta dei
dati deve essere effettuata dai Consolati italiani all’estero
(che dipendono dalla Farnesina) che inviano proposte
di aggiornamento ai Comuni di origine dei connazionali,
a mezzo posta. Per varie ragioni i Comuni non aggiornano
tutti i dati o comunque lo fanno con maggiore ritardo
e ciò genera la discrasia tra i due elenchi.
Nessuno sforzo potrà in ogni caso mai consentire
l’allineamento pieno (e contemporaneo) dei due
data base.
Tale schema è stato confermato anche dalla legge
459/2001. I dati delle anagrafi comunali vengono infatti
raccolti dal Ministero dell’Interno che fa un
elenco centralizzato (chiamata Aire, Anagrafe degli
Italiani Residenti all’Estero) che smista ai vari
consolati secondo lo Stato di residenza. I Consolati
si trovano nell’imbarazzantissima posizione di
dover stampare e inviare schede elettorali agli indirizzi
- magari non aggiornati - del Ministero dell’Interno
anziché a quelli, in media più affidabili,
di cui dispone. Considerati i numeri in ballo (alcune
circoscrizioni consolari comprendono oltre 100.000 connazionali)
tali uffici sono costretti nella gran parte dei casi
ad affidare tali compiti ad agenzie specializzate nei
mailing, le quali possono anche dimostrarsi
inefficienti. Sempre gli uffici consolari devono ricevere
le schede elettorali votate che devono quindi inviare
a Roma per lo spoglio presso un apposito Ufficio. I
Consolati vengono quindi accusati di tutti problemi,
pur non avendo loro le “colpe”. Colpe che
non sono in ogni caso solo dei Comuni e del Ministero
dell’Interno ma anche di quei connazionali che
non comunicano tempestivamente i propri cambi di indirizzo.
Ci sono poi tutti i problemi che discendono dalla scelta
del sistema postale. E’ evidente che perché
il mio voto di cittadino residente all’estero
sia effettivamente esercitato occorre che 1) io riceva
in tempo utile il plico elettorale; 2) io lo invii rispettando
i tempi dovuti; 3) la busta contenente il voto venga
ricevuta in tempo utile dall’ufficio consolare
che deve spedirlo a Roma (tutte le schede che arrivano
dopo le 16 ora locale del giovedì precedente
le elezioni devono infatti essere bruciate). E’
evidente che da me dipende solo il secondo passaggio,
mentre per il primo ed il terzo si deve fare totale
affidamento sul sistema postale locale. E poi, ad essere
maligni, il sistema postale non garantisce che sia io
a votare, perché io potrei anche vendermi la
scheda, ovvero potrebbe fare altrettanto il postino.
Insomma, se è vero che anche altri paesi fanno
ricorso - in certi casi - al voto per corrispondenza,
è certo che votare in un seggio “fisico”,
come in Italia, oltre ad offrire qualche garanzia in
più, consentirebbe di sgomberare il campo da
possibili sospetti. Invece, restando così le
cose, qualsiasi tornata elettorale potrà essere
criticata perché ci sarà sempre qualche
italiano che non ha ricevuto il plico elettorale (ovvero
lo ha ricevuto in ritardo) e comunque potranno sempre
essere sollevati dubbi riguardo possibili brogli.
Che c’entra la signora Lula?
Ma dalle ultime elezioni, sono (finalmente!) emersi
non pochi dubbi che circa gli stessi italiani all’estero,
a seguito anche delle dichiarazioni di taglio “mercantile”
di alcuni candidati e neo-eletti. Sulle prime, la netta
affermazione dei candidati dell’Unione (senza
dubbio con grande sorpresa dello stesso Tremaglia) ha
spinto alcuni commentatori a considerarli più
“consapevoli” e progressisti di quanto si
immaginava. In realtà il risultato complessivamente
negativo riscosso dal centro destra - ed in particolare
da Forza Italia (salvo che negli Stati Uniti) è
dovuto alla presenza di una lista autonoma di centro
che ha drenato molti voti in america latina nonché
ad un consistente errore di tattica elettorale. Essendo
infatti i voti distribuiti su collegi quasi uninominali
soprattutto, al Senato, è stata premiata in modo
“maggioritario” la scelta dell’Unione
di presentarsi unita e penalizzata quella dei partiti
della Casa della Libertà di andare divisi. Il
risultato della Camera, con il doppio dei deputati da
eleggere nei singoli collegi, è risultato più
equilibrato. E anche al referendum sulla riforma costituzionale
della Cdl gli italiani all’estero hanno votato
in maggioranza per il sì: 52,1 contro 47,9.
Ciò premesso, analizzando più a fondo
si scopre che i nostri connazionali all’estero
andrebbero suddivisi più in famiglie “sociali”
che “politiche”. C’è innanzitutto
la cosiddetta emigrazione professionale e accademica,
recente, composta di giovani di buon livello culturale
che cercano in Europa, negli States o altrove
quelle opportunità professionali o di ricerca
che in Italia sono precluse. Si tratta di persone che
almeno nelle intenzioni non considerano definitivo l’addio
al nostro paese ma che vi tornano regolarmente e a priori
intenderebbero anche ristabilircisi, prima o poi. Il
pubblico del blog Italians di Severgnini, insomma.
C’è poi l’emigrazione europea di
prima e seconda generazione (Germania, Francia, Svizzera
e Gran Bretagna in primis) che anche in ragione
della vicinanza geografica e della comune appartenenza
all’alveo europeo mantiene discreti e frequenti
contatti con la madre patria dove spesso ha ancora una
casa, dei parenti, etc..
Infine, ci sono i discendenti delle migrazioni transoceaniche
(Argentina, Brasile, Stati Uniti, Canada e Australia)
giunti alla terza/quarta generazione o anche oltre,
il gruppo potenzialmente più consistente. Stime
del Ministero degli Esteri indicavano infatti in circa
50/60 milioni le persone nel mondo che vantano ascendenze
italiane. Ma si possono definire ancora italiani? In
realtà stiamo parlando di persone che generalmente
non parlano la nostra lingua e non sono mai state nel
nostro paese, dove non hanno più interessi materiali
(oltre a non pagarci le tasse). A parte una tendenziale
simpatia per il nostro paese da dove proviene uno o
più dei bisnonni, non hanno insomma più
molto di italiano, essendo anzitutto americani, brasiliani,
argentini etc..(e votando in questi paesi). E’
il gruppo a cui appartengono alcuni personaggi in vista
(come appunto i fuoriclasse del calcio o la moglie di
Lula) e tantissime persone che dopo 50/70 anni hanno
riscoperto le loro origini italiane essenzialmente per
potere usufruire del passaporto (con cui si può
tranquillamente emigrare in Spagna o Inghilterra e fino
a poco tempo fa si poteva entrare negli Stati Uniti
senza visto). E’ un fenomeno relativamente recente
che si spiega più con la crisi economica di alcuni
paesi latino-americani che con una vera voglia di riscoprire
le proprie radici, che pure esiste ma potrebbe essere
agevolmente soddisfatta con corsi di lingua, borse di
studio, iniziative culturali mirate e anche iniziative
volte a favorirne un’emigrazione.
Come si vede si tratta quindi di tre comunità
ben distinte tra di loro (che tra l’altro si parlano
assai poco) che andrebbero pertanto coltivate con strumenti
differenziati. E invece siamo andati ad ascoltare unicamente
le rivendicazioni della lobby di emigrati all’estero
che pesca tra la seconda e la terza categoria. Si tratta
di attivisti e funzionari dei patronati e delle associazioni
sovvenzionate dall’Italia, che animano da alcuni
anni il mondo dei comitati consultivi dell’emigrazione
(Comites e Consiglio Generale degli Italiani all’Estero),
essenzialmente fabbriche di chiacchiere pagate dall’Italia.
Una lobby che, pur essendo in media poco influente
sul totale degli italiani all’estero, per anni
è stata vezzeggiata da Tremaglia e si è
auto accreditata come rappresentante degli interessi
di tutti gli italiani all’estero, ai quali –
soprattutto alla terza categoria – interessa invece
in media ben poco dell’Italia, dei suoi concreti
interessi e dei suoi affari politici interni.
Il vero nodo si chiama cittadinanza
Da questa succinta esposizione emerge quindi che per
molti versi il nocciolo del problema non è la
legge sul voto ma quella sulla cittadinanza. La legge
91/1992, ha infatti ripreso sostanzialmente l’impianto
di quella precedente del 1913, basato sul concetto nazionalista
dello ius sanguinis. In altri termini non conta
dove sei nato e vissuto, quale lingua parli, dove hai
fatto il servizio militare e dove paghi le tasse. Per
essere riconosciuto italiano è sufficiente –
come tante vicende calcistiche hanno dimostrato –
che qualche brasiliano/argentino dimostri, carte alla
mano, di avere anche un solo trisavolo italiano, emigrato
magari prima dell’Unità d’Italia,
i cui discendenti non hanno mai formalmente rinunciato
alla cittadinanza italiana, pur acquisendo quella locale.
E qualcuno può spiegare perché mai dovremmo
pagare le pensioni di sussistenza ad argentini che vantano
siffatte origini italiane, come ha reclamato il senatore
Pallaro? Perché a suo tempo ci hanno inviato
le rimesse? E’ vero che all’epoca si trattò
di un fenomeno significativo e senza dubbio importante
per la nostra bilancia dei pagamenti, ma si tratta di
un flusso concluso da tempo e che ha riguardato i nonni
e i genitori dei reclamanti attuali. E anche l’acquisto
all’estero di prodotti made in Italy non
è (per fortuna) un’esclusiva dei nostri
connazionali. In ogni caso se gli Stati Uniti sono nati
attorno al principio “no taxes without representation”,
non si vede perché la già indebitata Italia
si sia voluta auto-infliggere dei parlamentari che esprimono
una “representation without taxes”.
Da questa breve esposizione i lettori avranno compreso
che l’autore riterrebbe quanto mai opportuna una
seria marcia indietro, con interventi a tre livelli:
riforma della legge sulla cittadinanza;
riforma della Costituzione, per espungere la circoscrizione
estero e i seggi riservati a Camera e Senato;
riforma della Legge Tremaglia.
Occorre tuttavia essere realistici: nel nuovo quadro
politico i primi due sono impossibili (il voto dei parlamentari
eletti all’estero al Senato è essenziale
per la maggioranza di centrosinistra), a meno che nel
corso della legislatura non si decida di varare un governo
di larghe intese con l’incarico di rivedere taluni
aspetti relativi alla Costituzione ed alla legge elettorale).
Come riformare la legge?
Concentriamoci pertanto sul terzo problema che può
essere affrontato con semplici riforme “tecniche”
che non pongono alcun problema di costituzionalità
e potrebbero anche essere approvate in modo bipartisan
(a destra la stella di Tremaglia è in caduta
libera e non sembra impossibile trovare qualche persona
ragionevole).
La prima consisterebbe nel superare lo iato attuale
tra Aire gestita da Comuni e Ministero dell’Interno
e schedari consolari gestiti da Consolati e Ministero
degli Esteri. La soluzione è tecnicamente semplice
e dipende solo da un atto di volontà politica.
Vincendo le resistenze dei burocrati del Viminale si
trasformerebbero i consolati in sportelli dei Comuni,
collegati informaticamente con le loro anagrafi, per
cui i dati verranno a corrispondere immediatamente ed
in radice. Si tratta di una riforma che vedrebbe entusiasti
anche gli eletti.
Si dovrebbe quindi sopprimere il voto per corrispondenza
e prevedere che all’estero si possa votare solo
rientrando in Italia ovvero presso i Consolati ed i
seggi appositamente istituiti dove si concentra un numero
significativo di italiani (e le autorità locali
lo permettano). E’ un meccanismo che esiste già
da anni ed è stato già applicato con buon
successo dalle nostre strutture consolari sia per le
elezioni europee (da ultimo quelle del 2004) che per
le elezioni dei Comites del 1997. Lo spoglio potrebbe
avvenire presso i Consolati attraverso commissioni costituite
con modalità analoghe a quelle esistenti in Italia.
Certo i tassi di partecipazione sarebbero probabilmente
inferiori (alle Europee del 2004, ha votato con tale
modalità il 10,8% dei nostri connazionali residenti
in un altro paese dell’Unione Europea, mentre
alle elezioni dei Comites del 1997 aveva partecipato
il 20,55% degli aventi diritto) e pertanto è
da prevedere l’opposizione della citata lobby
degli italiani all’estero, ma il meccanismo offrirebbe
tutte le garanzie connesse al voto, senza alcun possibile
sospetto di brogli o manipolazioni.
Infine occorrerebbe rovesciare il principio attuale
per cui è l’amministrazione italiana a
dover inseguire il connazionale per farlo votare e non
viceversa: come avviene in tutti gli altri paesi europei
chi vuole votare all’estero dovrebbe iscriversi
di sua iniziativa nelle apposite liste elettorali e
farne specifica domanda, comunicando i propri dati,
presso il consolato competente, poniamo, almeno due
mesi prima. Questo è ciò che avviene per
tutti i paesi che applicano il voto all’estero.
Tale indicazione, inoltre, dovrebbe valere fino a nuova
revoca e non essere confermata ogni volta (seppelliamo
un meccanismo astruso come l’opzione, da esercitare
ad ogni tornata elettorale,con grande dispiego di energie
e risorse finanziarie), fermo restando l’obbligo
del connazionale di comunicare le proprie variazioni
di indirizzo.
Con queste piccole modifiche si otterrebbero due effetti
positivi: si sgombrerebbe il campo per sempre da possibili
accuse di brogli e irregolarità nel voto all’estero
e si verificherebbe l’effettivo interesse per
il voto dei nostri connazionali fuori dall’Italia.
Per il resto, speriamo che gli eletti all’estero
facciano intanto buon uso della fiducia loro accordata.
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