303 - 25.07.06


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Un colpo di testa
per uscire di scena

David Bidussa



Tratto da Il Secolo XIX

 

Non è vero che i sogni muoiono all’alba. Qualche volta accade che qualcosa si spezzi prima. E che sia impossibile ripararlo con un gesto.
In forma plateale la carriera di Zinedine Zidane è finita domenica sera alle 22.22, al terzo minuto del secondo tempo supplementare di una finale che doveva essere molte cose. Soprattutto per lui. Di questa partita possiamo potarci dietro due immagini: la prima è quella del colpo di testa secco che Zizou dà a Marco Materazzi; la seconda l’uscita a testa bassa verso gli spogliatoi.

Non so quale sia la più vera, ma nella seconda credo che ci sia molto del carattere enigmatico di Zidane. Un uomo che non ha mai parlato molto, e che come Monna Lisa ha un suo sorriso triste o enigmatico che va interpretato. Ancora una volta e anche in questa occasione quella disposizione al silenzio ha avuto un peso.
Invano, infatti cercheremo una sua dichiarazione. Resta solo il gesto di un uomo che esce dal campo senza ritornarvi neppure al momento della premiazione, che si toglie la fascia di capitano e rimane chiuso e muto a riflettere sul suo passato. Forse per molti sarebbe bene che quella fosse stata solo la penultima partita di un campione che in un momento perde il controllo di sé e perciò oggi dicesse: “Ho bisogno di un’altra chance. Non per voi, ma per me. Qualcuno è disposto a darmela?” Questa scena non ci sarà, non solo perché Zidane non la chiederà, ma perché è alquanto improbabile che qualcuno parli per lui. Forse è il destino dei campioni uscire di scena da soli.
Ma sarebbe sbagliato pensare che quel gesto sia l’effetto di una momentanea perdita di controllo. In campo gli insulti all’avversario, le frasi che tirano a far male si ripetono spesso, si dicono e spesso si parla con le mani quando lo sguardo del direttore di gara è rivolto altrove. E’ una cosa a cui Zidane è abituato come gli altri e forse anche più degli altri.

E allora è sbagliato ritenere che la partita di Zidane sia finita per una testata.
Zinedine Zidane (“Zizou”) ha finito la sua partita, quella del campione equilibrato, dell’uomo che sa far girare la palla, che non ha un gesto scomposto, al quattordicesimo minuto del secondo tempo quando con uno splendido tocco di testa in elevazione ha cercato l’angolo lontano di Buffon. Non c’è riuscito. Buffon con un po’ di fortuna con un grande guizzo di reni e con un pugno ha mandato la palla fuori oltre la traversa e il sogno di Zizou è andato in frantumi: quello di vincere il mondiale entrare come Pelé nel mondo del calcio per sempre. Nessuno se ne è accorto: non i suoi compagni, né il C.t. francese Domenech convinto che Zizou dovesse rimanere in campo perché nella malaugurata ipotesi dei andare ai rigori uno che non ne ha mai sbagliato uno sarebbe stato comunque indispensabile e insostituibile. Se ne è accorto invece Buffon che lo ha in un qualche modo consolato. Ma Zizou non c’era. Stava lentamente andando via. E’ rimasto il ritmo, la potenza, la tecnica, ma non la testa, né la fantasia. Quelle ormai erano perdute.

Lì è iniziato il distacco di Zidane. E forse lì è iniziata anche la sensazione della propria inutilità, per certi aspetti la noia. L’obiettivo era stato mancato. Niente avrebbe mai potuto riagganciarlo. La testata è anche un modo per interrompere una commedia che non si sopporta più, per uscire prima possibile da un campo ormai sentito come estraneo. E’ la delusione di chi sa che non manterrà la promessa a se stesso, quella che sa di non essere all’altezza delle proprie aspettative. Lì si è infranto Zidane.

In una lettera che popola uno dei tanti blog on-line qualcuno ha scritto subito dopo la fine della partita che “Zidane, extraterrestre del pallone, ha mostrato con un colpo di testa che resterà nella memoria che è più di un giocatore, che è un uomo”. Non credo sia il commento che Zidane apprezza. E non credo che sia una riflessione che faccia bene al calcio.

Soprattutto a quel calcio che a lungo Zidane ha rappresentato e di cui si è voluto far portatore. Dietro Zidane, infatti, non c’è solo il lungo sogno della Francia del calcio iniziato con l’incontro Francia - Repubblica Ceca nel 1994, contrassegnato dalla vittoria del mondiale nel 1998 e poi dagli europei nel 2000. C’è anche la sua presenza come testimonial per i diritti civili dei “sans papier”, per il disagio delle banlieus.
Zidane è stato questo e, a suo modo, chi gli rende omaggio non perdonandogli questo suo ultimo gesto, e tuttavia salutando in lui un campione, ricorda il valore universalistico della Francia in una squadra di calcio “black, blanc, beur”, un gioco di parole per indicare la multietnicità della nazionale fatta di neri delle colonie d’oltremare (Nuova Caledonia e Guadalupa) di bianchi delle metropoli e della provincia contadina, di maghrebini arrivati negli anni ’60 e dei loro figli. Un’esperienza collettiva che dice che si può essere nazionalisti e difendere la propria bandiera, ma anche non dimenticare la possibilità di difendere una diversa idea di convivenza. Anche per questo la testata di domenica sera non fa bene al calcio.


 

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