Tratto da Il
Secolo XIX
Non è vero che i sogni muoiono all’alba.
Qualche volta accade che qualcosa si spezzi prima. E
che sia impossibile ripararlo con un gesto.
In forma plateale la carriera di Zinedine Zidane è
finita domenica sera alle 22.22, al terzo minuto del
secondo tempo supplementare di una finale che doveva
essere molte cose. Soprattutto per lui. Di questa partita
possiamo potarci dietro due immagini: la prima è
quella del colpo di testa secco che Zizou dà
a Marco Materazzi; la seconda l’uscita a testa
bassa verso gli spogliatoi.
Non so quale sia la più vera, ma nella seconda
credo che ci sia molto del carattere enigmatico di Zidane.
Un uomo che non ha mai parlato molto, e che come Monna
Lisa ha un suo sorriso triste o enigmatico che va interpretato.
Ancora una volta e anche in questa occasione quella
disposizione al silenzio ha avuto un peso.
Invano, infatti cercheremo una sua dichiarazione. Resta
solo il gesto di un uomo che esce dal campo senza ritornarvi
neppure al momento della premiazione, che si toglie
la fascia di capitano e rimane chiuso e muto a riflettere
sul suo passato. Forse per molti sarebbe bene che quella
fosse stata solo la penultima partita di un campione
che in un momento perde il controllo di sé e
perciò oggi dicesse: “Ho bisogno di un’altra
chance. Non per voi, ma per me. Qualcuno è disposto
a darmela?” Questa scena non ci sarà, non
solo perché Zidane non la chiederà, ma
perché è alquanto improbabile che qualcuno
parli per lui. Forse è il destino dei campioni
uscire di scena da soli.
Ma sarebbe sbagliato pensare che quel gesto sia l’effetto
di una momentanea perdita di controllo. In campo gli
insulti all’avversario, le frasi che tirano a
far male si ripetono spesso, si dicono e spesso si parla
con le mani quando lo sguardo del direttore di gara
è rivolto altrove. E’ una cosa a cui Zidane
è abituato come gli altri e forse anche più
degli altri.
E allora è sbagliato ritenere che la partita
di Zidane sia finita per una testata.
Zinedine Zidane (“Zizou”) ha finito la sua
partita, quella del campione equilibrato, dell’uomo
che sa far girare la palla, che non ha un gesto scomposto,
al quattordicesimo minuto del secondo tempo quando con
uno splendido tocco di testa in elevazione ha cercato
l’angolo lontano di Buffon. Non c’è
riuscito. Buffon con un po’ di fortuna con un
grande guizzo di reni e con un pugno ha mandato la palla
fuori oltre la traversa e il sogno di Zizou è
andato in frantumi: quello di vincere il mondiale entrare
come Pelé nel mondo del calcio per sempre. Nessuno
se ne è accorto: non i suoi compagni, né
il C.t. francese Domenech convinto che Zizou dovesse
rimanere in campo perché nella malaugurata ipotesi
dei andare ai rigori uno che non ne ha mai sbagliato
uno sarebbe stato comunque indispensabile e insostituibile.
Se ne è accorto invece Buffon che lo ha in un
qualche modo consolato. Ma Zizou non c’era. Stava
lentamente andando via. E’ rimasto il ritmo, la
potenza, la tecnica, ma non la testa, né la fantasia.
Quelle ormai erano perdute.
Lì è iniziato il distacco di Zidane.
E forse lì è iniziata anche la sensazione
della propria inutilità, per certi aspetti la
noia. L’obiettivo era stato mancato. Niente avrebbe
mai potuto riagganciarlo. La testata è anche
un modo per interrompere una commedia che non si sopporta
più, per uscire prima possibile da un campo ormai
sentito come estraneo. E’ la delusione di chi
sa che non manterrà la promessa a se stesso,
quella che sa di non essere all’altezza delle
proprie aspettative. Lì si è infranto
Zidane.
In una lettera che popola uno dei tanti blog on-line
qualcuno ha scritto subito dopo la fine della partita
che “Zidane, extraterrestre del pallone, ha mostrato
con un colpo di testa che resterà nella memoria
che è più di un giocatore, che è
un uomo”. Non credo sia il commento che Zidane
apprezza. E non credo che sia una riflessione che faccia
bene al calcio.
Soprattutto a quel calcio che a lungo Zidane ha rappresentato
e di cui si è voluto far portatore. Dietro Zidane,
infatti, non c’è solo il lungo sogno della
Francia del calcio iniziato con l’incontro Francia
- Repubblica Ceca nel 1994, contrassegnato dalla vittoria
del mondiale nel 1998 e poi dagli europei nel 2000.
C’è anche la sua presenza come testimonial
per i diritti civili dei “sans papier”,
per il disagio delle banlieus.
Zidane è stato questo e, a suo modo, chi gli
rende omaggio non perdonandogli questo suo ultimo gesto,
e tuttavia salutando in lui un campione, ricorda il
valore universalistico della Francia in una squadra
di calcio “black, blanc, beur”, un gioco
di parole per indicare la multietnicità della
nazionale fatta di neri delle colonie d’oltremare
(Nuova Caledonia e Guadalupa) di bianchi delle metropoli
e della provincia contadina, di maghrebini arrivati
negli anni ’60 e dei loro figli. Un’esperienza
collettiva che dice che si può essere nazionalisti
e difendere la propria bandiera, ma anche non dimenticare
la possibilità di difendere una diversa idea
di convivenza. Anche per questo la testata di domenica
sera non fa bene al calcio.
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