Tratto da
Il
Secolo XIX
Come e se si arriverà alla formazione del Partito
democratico sembra essere diventato uno dei temi della
discussione politica dell’estate. E’ probabile
che nella stagione lunga delle feste politiche che si
inaugureranno in questi giorni fino a tutta l’estate,
tra Margherita e Ds questo sarà uno dei nodi
politici strutturali. Al centro dell’attenzione,
tra l’altro, si collocheranno i malesseri della
sinistra Ds, la sensazione che sotto un’altra
veste si ripresenti una doppia veste la lunga discussione
e il confronto mancato negli anni ’90 direttamente
con Bettino Craxi. A cinque anni da quella morte, il
corpo ingombrante di quell’esperienza al di là
dei numeri che la sua memoria mette in campo, dice ancora
che il lungo travaglio della sinistra italiana non si
è concluso. In quel processo il cui inizio può
essere individuato nel rinnovamento del Psi con Craxi
all’indomani del tracollo socialista delle elezioni
politiche del giugno 1976 (esattamente trent’anni
fa) per poi passare nella lunga stagione costituente
che dal Pci conduce alla fondazione dei Ds, il problema
irrisolto è ancora quello del doppio registro
nella sinistra storica italiana: da una parte una forza
espressione organica della famiglia socialista, dall’altra
un Pci che nel momento in cui si distacca dalla “casa
madre”ha il problema di trovare una fisionomia
culturale e politica che stia dentro alla famiglia socialista,
ma anche la superi.
Il problema non è essere convinti o meno di
un’operazione politica che abbia come esito la
nascita e lo sviluppo di una “cosa” che
si chiami “partito democratico.” Il problema
è che cosa significa oggi discutere di una forma
partito, dei contenuti culturali che lo possono connotare.
Questa questione che apparentemente si presenta come
un passaggio o tecnico o molto politicistico, in realtà
nasconde un vero e proprio stravolgimento delle consuetudini
politiche.
A lungo il tema della riflessione e della riscrittura
delle identità della sinistra italiana è
passata attraverso la discussione dell’ omaggio
alla cultura ereditata dai padri o dalla riscoperta
di eretici messi in un angolo e nei cui confronti a
lungo si era osservato il silenzio.
All’origine di quel modello di discussione e di
quel dibattito stanno alternativamente: o la “rivincita”
di una parte, oppure l’ipotesi che un partito
politico e una proposta politica possano risollevarsi
o riaccreditarsi in nome dell’autocritica. Procedura
apparentemente aperta e disponibile al confronto radicale
con il proprio passato, l’autocritica rappresenta
spesso il percorso opposto. Autocritica, infatti, è
quel modello retorico in cui si ritorna e si riflette
sul passato ad uso immediato e in cui di fatto non si
discute dei principi che hanno fondato una politica
concreta, ma si dice che una politica perseguita ancora
sugli stessi principi che in precedenza giustificavano
e fondavano la prassi precedente, di per sé sarebbe
un errore. L’autocritica insomma è quel
modello che giustifica il passato, lo consegna alla
storia, ma non lo ridiscute. Lo archivia e allo stesso
tempo, in relazione a un evento o a un cambiamento del
presente, stabilisce che è necessaria una discontinuità.
La condizione di questo modello nella storia politica
italiana lungo tutto il corso del Novecento aveva come
presupposto la centralità della struttura partito:
da una parte il confronto interno a una tradizione politica
o alla stessa famiglia politica tra partiti diversi;
dall’altra la lenta metamorfosi di un partito
politico dalla sua struttura data verso una diversa
denominazione che dovesse corrispondere anche a un profilo
culturale.
Il primo esempio richiama il vecchio confronto Pci-Psi.
Una lotta spesso a distanza o anche da alleati dove
l’obiettivo ogni volta è stato il ridimensionamento
dell’alleato. Il secondo esempio riprende in forme
diverse la metamorfosi del Psi dopo il Midas e del Pci
dopo il Muro. In entrambi i casi, pur con dinamiche
diverse, il tema è costituito dalla capacità
e dalla possibilità di un attore politico di
autoriformarsi e con ciò modificare e stravolgere
gli assetti complessivi della sinistra italiana. Soprattutto
in entrambi i casi la riflessione o il cambiamento si
originava da una sconfitta: misurabile, spesso in relazione
a dati elettorali drammatici dove ciò che si
poneva all’ordine del giorno era un ricambio generazionale
delle direzioni politiche o un conflitto interni alle
direzioni politiche.
Non è il caso del partito democratico di cui
si discute ora. Un soggetto dove contemporaneamente
nessuna delle componenti che dovrebbero cooperare alla
sua costruzione giunge all’appuntamento portandosi
dietro una sconfitta e che è incapace di affrontare
una questione radicale: ovvero quella sui valori. Perché
in mancanza di un segno tangibile della necessità
di cambiamento è intorno alla definizione di
una carta di identità che si definisce un partito
politico. Un problema che se non è il “che
fare?” inevitabilmente diviene il “Chi essere?”
Ed è lì che si consuma o emerge la crisi
che caratterizzerà una lunga stagione senza decisioni,
nello stesso momento in cui si praticherà la
retorica del decidere con determinazione. Proprio perché
“c’è qualcosa da perdere”,
allora la questione dei valori che si presenta come
dirimente si trasforma in una manovra controllata, contornata
di distinguo e affrontata con circospezione.
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