303 - 25.07.06


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Partito democratico,
in cerca di valori comuni

David Bidussa



Tratto da Il Secolo XIX

Come e se si arriverà alla formazione del Partito democratico sembra essere diventato uno dei temi della discussione politica dell’estate. E’ probabile che nella stagione lunga delle feste politiche che si inaugureranno in questi giorni fino a tutta l’estate, tra Margherita e Ds questo sarà uno dei nodi politici strutturali. Al centro dell’attenzione, tra l’altro, si collocheranno i malesseri della sinistra Ds, la sensazione che sotto un’altra veste si ripresenti una doppia veste la lunga discussione e il confronto mancato negli anni ’90 direttamente con Bettino Craxi. A cinque anni da quella morte, il corpo ingombrante di quell’esperienza al di là dei numeri che la sua memoria mette in campo, dice ancora che il lungo travaglio della sinistra italiana non si è concluso. In quel processo il cui inizio può essere individuato nel rinnovamento del Psi con Craxi all’indomani del tracollo socialista delle elezioni politiche del giugno 1976 (esattamente trent’anni fa) per poi passare nella lunga stagione costituente che dal Pci conduce alla fondazione dei Ds, il problema irrisolto è ancora quello del doppio registro nella sinistra storica italiana: da una parte una forza espressione organica della famiglia socialista, dall’altra un Pci che nel momento in cui si distacca dalla “casa madre”ha il problema di trovare una fisionomia culturale e politica che stia dentro alla famiglia socialista, ma anche la superi.

Il problema non è essere convinti o meno di un’operazione politica che abbia come esito la nascita e lo sviluppo di una “cosa” che si chiami “partito democratico.” Il problema è che cosa significa oggi discutere di una forma partito, dei contenuti culturali che lo possono connotare. Questa questione che apparentemente si presenta come un passaggio o tecnico o molto politicistico, in realtà nasconde un vero e proprio stravolgimento delle consuetudini politiche.

A lungo il tema della riflessione e della riscrittura delle identità della sinistra italiana è passata attraverso la discussione dell’ omaggio alla cultura ereditata dai padri o dalla riscoperta di eretici messi in un angolo e nei cui confronti a lungo si era osservato il silenzio.
All’origine di quel modello di discussione e di quel dibattito stanno alternativamente: o la “rivincita” di una parte, oppure l’ipotesi che un partito politico e una proposta politica possano risollevarsi o riaccreditarsi in nome dell’autocritica. Procedura apparentemente aperta e disponibile al confronto radicale con il proprio passato, l’autocritica rappresenta spesso il percorso opposto. Autocritica, infatti, è quel modello retorico in cui si ritorna e si riflette sul passato ad uso immediato e in cui di fatto non si discute dei principi che hanno fondato una politica concreta, ma si dice che una politica perseguita ancora sugli stessi principi che in precedenza giustificavano e fondavano la prassi precedente, di per sé sarebbe un errore. L’autocritica insomma è quel modello che giustifica il passato, lo consegna alla storia, ma non lo ridiscute. Lo archivia e allo stesso tempo, in relazione a un evento o a un cambiamento del presente, stabilisce che è necessaria una discontinuità.

La condizione di questo modello nella storia politica italiana lungo tutto il corso del Novecento aveva come presupposto la centralità della struttura partito: da una parte il confronto interno a una tradizione politica o alla stessa famiglia politica tra partiti diversi; dall’altra la lenta metamorfosi di un partito politico dalla sua struttura data verso una diversa denominazione che dovesse corrispondere anche a un profilo culturale.

Il primo esempio richiama il vecchio confronto Pci-Psi. Una lotta spesso a distanza o anche da alleati dove l’obiettivo ogni volta è stato il ridimensionamento dell’alleato. Il secondo esempio riprende in forme diverse la metamorfosi del Psi dopo il Midas e del Pci dopo il Muro. In entrambi i casi, pur con dinamiche diverse, il tema è costituito dalla capacità e dalla possibilità di un attore politico di autoriformarsi e con ciò modificare e stravolgere gli assetti complessivi della sinistra italiana. Soprattutto in entrambi i casi la riflessione o il cambiamento si originava da una sconfitta: misurabile, spesso in relazione a dati elettorali drammatici dove ciò che si poneva all’ordine del giorno era un ricambio generazionale delle direzioni politiche o un conflitto interni alle direzioni politiche.

Non è il caso del partito democratico di cui si discute ora. Un soggetto dove contemporaneamente nessuna delle componenti che dovrebbero cooperare alla sua costruzione giunge all’appuntamento portandosi dietro una sconfitta e che è incapace di affrontare una questione radicale: ovvero quella sui valori. Perché in mancanza di un segno tangibile della necessità di cambiamento è intorno alla definizione di una carta di identità che si definisce un partito politico. Un problema che se non è il “che fare?” inevitabilmente diviene il “Chi essere?”

Ed è lì che si consuma o emerge la crisi che caratterizzerà una lunga stagione senza decisioni, nello stesso momento in cui si praticherà la retorica del decidere con determinazione. Proprio perché “c’è qualcosa da perdere”, allora la questione dei valori che si presenta come dirimente si trasforma in una manovra controllata, contornata di distinguo e affrontata con circospezione.

 


 


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