“Se veramente l’Occidente si crede una
civiltà superiore, allora questo è il
momento di trovare una soluzione”. L’Iran
sta diventando un rebus insolubile, e nelle parole
di Giuliano Amato c’è tutta l’amarezza
di un Occidente che rischia di rimanere impotente
di fronte a un paese che si sta dotando del nucleare,
minaccia l’esistenza della vicina Israele, non
sente le ragioni del dialogo, e verso cui le opzioni
ultime della diplomazia, sanzioni e guerra, non sono
oggi praticabili. Il 6 giugno, al Centro studi americani,
a Roma, l’associazione Reset Dialogues on Civilizations
ha invitato alcuni esperti di livello internazionale,
coordinati dal direttore di Reset Giancarlo Bosetti,
a dibattere della crisi in atto sul dossier iraniano,
e più in particolare sui rapporti tra Teheran
e Washington.
“Ad ascoltarvi c’è da tremare”,
si è rivolto agli altri relatori il ministro
degli Interni italiano Amato: “Oggi siamo di
fronte a due grandi delusioni. Una riguarda la conoscenza,
perché una volta credevamo che noi europei
capissimo il mondo meglio degli americani. La seconda
è relativa al fatto che in questi anni gli
esperti ci hanno consigliato di non immischiarci nelle
questioni iraniane, di lasciare fiorire quella giovane
democrazia, ma non è servito, in Iran è
andato al potere il partito dei pasdaran, che mi ricordano
la Cambogia”. Giuliano Amato non ha potuto non
esprimere angoscia davanti al caso di Ramin Jahanbegloo,
lo studioso iraniano che da quasi due mesi è
rinchiuso in carcere senza una motivazione ufficiale.
I due sono entrambi membri dell’associazione
ResetDoC, e hanno avuto modo di conoscersi al Cairo,
a inizio marzo, per la prima riunione internazionale
dell’associazione: “Ci si dice che non
dobbiamo irritare Teheran – è il senso
del dilemma del presidente Amato – e questo
significherebbe non chiedere la scarcerazione del
nostro amico Ramin. Ma come possiamo non far sentire
la nostra voce davanti a questa ingiustizia? Come
possiamo ‘salvare la diplomazia’ lasciando
Ramin lì dov’è? Non possiamo essere
più kissingeriani di Kissinger”.
La preoccupazione ha dominato tutti gli interventi,
non solo quello del vicepresidente della Convenzione.
Cui non è sembrato di buon auspicio quanto
spiegato da Renzo Guolo, docente di Sociologia delle
religioni all’Università di Trieste e
editorialista di la Repubblica, che ha ricordato come
una democrazia non potrà mai nascere in Iran
con un intervento dall’esterno, e che il destino
dell’Iran è in mano agli iraniani: “Il
cambiamento può arrivare solo tramite un 25
luglio interno, uno scossone interno cui l’Occidente
può contribuire solo influenzando dall’esterno,
e cercando in tutti i modi di non commettere errori.
Quando l’Occidente attacca il regime, non fa
altro che ricompattarlo”.
La peculiare complessità del rapporto con
l’Iran risiede anche nell’estrema complessità
del sistema di governo della Repubblica Islamica,
e che si traduce nel dilemma posto da Vanna Vannuccini,
giornalista de la Repubblica e autrice di “Rosa
è il colore della Persia”: “Chi
comanda a Teheran?”. Guolo ha sottolineato che
è semplicistico parlare di una contrapposizione
tra conservatori e riformisti, visto che al campo
della destra appartiene anche l’ex presidente
Rafsanjani, pragmatico e liberista, che Guolo definisce
un tecnocon che mira a una via cinese (modernizzazione
economica e conservazione politica). Ha inoltre evidenziato
come l’ayatollah Khomeini abbia stravolto la
tradizionale separazione sciita tra politica e religione,
inaugurando quel velayat e faqih che è ad esempio
rifiutato dallo sciita iracheno ayatollah al Sistani.
Ha segnalato che Ahmadinejad, che crede in un prossimo
ritorno del mitico Mahdi (che vanificherebbe il velayat
e faqih), aspira a un Khomeinismo senza clero, in
cui sarebbe il partito dei pasdaran a comandare sui
religiosi (e così si oppone alla Guida Khamenei).
Nicola Pedde, esperto di geoeconomia e direttore del
Global Research, ha invece ricordato come l’idea
del nucleare rappresenti un collante nazionalista
sin dal lontano 1954.
Il dibattito si è poi incentrato sulla figura
di Mahammed Khatami e sugli otto anni del governo
riformista. Un tema che ha diviso i relatori e che
non è solo di natura storiografica, visto che
sottintende una questione attuale e cruciale per l’Occidente:
chi dobbiamo sostenere, per chi dobbiamo tifare? Il
romanziere americano Terence Ward, autore del libro
“Alla ricerca di Hassan”, ha rievocato
con nostalgia gli anni di Khatami, che nel suo libro
ha definito il Kennedy iraniano, mentre Renzo Guolo
è parso critico: “Khatami fallì
perché proveniva dal clero. Non poteva portare
fino in fondo la demolizione dello stato parallelo
iraniano, di quegli organi non elettivi che da sempre
sono nelle mani dei conservatori, come la Guida e
il Consiglio dei Guardiani”. Vanna Vannuccini
ha invece condiviso il giudizio positivo sull’ex
presidente, “anche se nel suo gruppo c’erano
personaggi più coraggiosi”.
Gli esperti divergono, e nessuno sembra avere in
mano le chiavi della crisi. Così nasce un altro
dilemma, nelle parole di Karim Sadjadpour, giovane
esperto di Iran per il think tank americano Crisis
Group: “Non possiamo concedere a Ahmadinejad,
che minaccia di distruggere Israele, quello che non
volevamo concedere a Khatami, che chiedeva il dialogo
tra le civiltà. Sarebbe un cattivo segnale
che diamo a quanti governano a Teheran”. Sadjadpour
ha appena accompagnato un gruppo di senatori americani
a Istanbul, e assicura che su 15 soltanto uno era
favorevole a un intervento armato. Ma se la guerra
è lontana, la pace non è vicina.
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