Tratto
da Reset
Viviamo in un’epoca in cui gli scontri tra culture
o gli «scontri di civiltà» (per usare
l’espressione di Samuel Huntington) appaiono incombenti
e, indubbiamente, viviamo in un’epoca di «guerre
del terrore» che comportano il continuo alternarsi
di terrore e antiterrore. Ciò significa che viviamo
anche in un’epoca di politica di potenza su scala
globale. La potenza sembra essere l’unica «moneta»
riconosciuta nel mondo e la politica tende a essere
identificata con la politica di potenza.
Inutile dire che si tratta di una ricetta per scontri
di civiltà e guerre del terrore. Ma «politica»
e politica di potenza sono davvero la stessa cosa? Non
c’è nient’altro nella politica? La
tradizione non ci insegna un’altra politica? Aristotele
la definiva come l’impegno per la giustizia e
la «buona vita».
Alfarabi scrisse di una «città virtuosa».
E come troviamo la giustizia e la città
virtuosa? Non con la potenza, ma con la saggezza e la
comprensione – e la comprensione dipende dall’ascolto
e dal dialogo.
Il mio scopo è duplice. Innanzitutto vorrei
discutere dell’idea del dialogo interculturale,
e lo farò evidenziando forme diverse di interazione
dialogica. In secondo luogo, vorrei esaminare alcune
implicazioni del dialogo come strumento contro gli scontri
di civiltà. Di certo, non tutti i rapporti tra
società e culture sono dialogici o comunicativi.
Come minimo, il dialogo richiede una certa reciprocità
o un vicendevole scambio di idee. Verosimilmente i rapporti
interculturali possono essere organizzati lungo uno
spettro ampio che va dal monologo assoluto al dialogo
genuino, dall’unilateralismo radicale al multilateralismo
compiuto (o forse cosmopolitismo). In uno dei miei scritti,
intitolato Beyond Orientalism: Essays on Cross-Cultural
Encounter, ho esaminato questo spettro ponendo
particolare attenzione al lato «monologico»
di questa scala dove si possono trovare importanti esempi
di non-reciprocità come conquiste militari, conversioni
forzate e indottrinamento ideologico.
Non mi soffermerò qui su queste modalità
unilaterali di relazione interculturale. Vorrei piuttosto
concentrare la mia attenzione sull’aspetto
dialogico delle interazioni. In questa sezione dello
spettro si possono distinguere tre diverse possibilità,
o forse tre e mezzo.
Partirò da un saggio del sociologo tedesco Jürgen
Habermas intitolato «On the Pragmatic, the Ethical,
and the Moral Employments of Practical Reason»
(che è il capitolo di apertura del suo libro
Justification and Application). Nel suo saggio,
Habermas distingue tre diversi usi o impieghi della
«ragione pratica» ovvero di una ragione
volta all’interazione pratica: gli usi pragmatici,
etici e morali. La prima tipologia deriva dall’utilitarismo
e trova espressione nel confronto tra – e nella
possibile accumulazione di – interessi individuali.
Il secondo tipo («etico») trae la propria
ispirazione dall’etica aristotelica filtrata attraverso
la filosofia dialettica di Hegel. Questi pensatori che
enfatizzano l’uso «etico» –
nota Habermas – fanno propria «l’eredità
hegeliana nella forma di un’etica del bene aristotelica»
abbandonando allo stesso tempo «l’universalismo
della legge naturale razionale». Infine, il terzo
tipo («morale ») opera «in uno spirito
kantiano» e accentua «le inevitabili presupposizioni»
di argomentazione e la necessaria «imparzialità»
di chiunque giudichi da un «punto di vista morale».
Per Habermas, che adotta una posizione razionalista,
il terzo tipo è «radicato nella struttura
comunicativa del discorso razionale in quanto tale».
La sua stessa teoria morale, definita «etica del
discorso», – secondo la sua opinione –
«si impone intuitivamente a chiunque sia aperto
a questa forma riflessiva di azione comunicativa».
In questa maniera, l’etica del discorso «si
colloca direttamente nella tradizione kantiana».
Fin qui la mia sintesi della spiegazione habermasiana.
In quanto segue farò mio in parte, ma modificherò
anche significativamente, questo schema tripartito con
l’obiettivo di esplorare differenti forme o modalità
di dialogo interculturale. Il mio fondamentale allontanamento
da Habermas dipende dalla sua rappresentazione dell’uso
«etico» della ragione. A quanto mi sembra,
la sua interpretazione implica una lettura radicalmente
erronea sia di Aristotele che di Hegel (e si potrebbe
includere Alfarabi).
Cosa più importante, l’etica in senso
aristotelico e hegeliano è ridotta da Habermas
a una serie di costumi prevalenti o pratiche situate
puramente empiricodescrittive – una lettura che
bypassa completamente o ignora la qualità del
«dovere» intrinseca alla nozione aristotelica
di virtù e all’impegno hegeliano per la
sittlichkeit.
Tralascio i problemi presenti in questa lettura.
Adattando, ma anche modificando lo schema habermasiano,
distinguo fra tre
tipi principali di dialogo interculturale, o forse tre
e mezzo. Elencherò innanzitutto le differenti
modalità per poi commentare brevemente ciascuna
di esse. Le tre forme basilari sono: 1) comunicazione
pragmatico-strategica; 2) discorso morale-universale;
3) dialogo etico-ermeneutico.
A queste si può aggiungere un quarto tipo –
ma preferisco trattarlo come una sottocategoria della
terza forma: dialogo antagonistico o contestazione.
Nella comunicazione pragmatico-strategica ogni partner
cerca di portare avanti i propri interessi in una negoziazione
con gli interessi delle altre parti. Finché si
può descrive tale comunicazione come un «dialogo
», quest’ultimo prende perlopiù la
forma di una contrattazione reciproca che a volte implica
la manipolazione e persino l’inganno. Questo tipo
di scambio comunicativo
è ben noto nelle relazioni internazionali o intersociali
e costituisce il centro
focale delle cosiddette scuole «realiste»
e «neo-realiste» di politica internazionale.
Importanti esempi di una comunicazione di questo genere
sono i negoziati commerciali, quelli sul riscaldamento
globale e sugli standard ecologici, quelli sul disarmo,
gli accordi su dispute di confine, i negoziati di pace,
e così via. Gran parte della diplomazia tradizionale
è condotta infatti lungo questa direttrice.
Nel discorso morale-universale i partner cercano il
consenso su regole e norme di comportamento fondamentali
vincolanti per tutti i partner, potenzialmente a livello
globale. In questo campo, conservano la loro importanza
i lasciti della legge naturale moderna e della filosofia
morale kantiana. Regole fondamentali di valore (potenzialmente)
universale sono quelle del diritto internazionale moderno;
le norme internazionali riguardo la guerra, i crimini
di guerra e quelli contro l’umanità, le
convenzioni di Ginevra, la dichiarazione niversale dei
diritti umani e altre ancora. Non c’è bisogno
di essere un kantiano in senso stretto per riconoscere
l’importanza
e persino il carattere «categoricamente »
vincolante di queste norme (che
sono state accettate dalla grande maggioranza dei governi
e approvate dalla vasta maggioranza dell’umanità).
Di sicuro, non è il momento di sminuire o alterare
la qualità ingiuntiva delle normative internazionali.
Perciò le regole delle convenzioni di Ginevra
sono vincolanti, non importa quale terminologia i singoli
governi scelgano di adottare. Allo stesso modo, dare
inizio a una guerra senza essere stati provocati è
un crimine contro l’umanità come lo è
anche l’uccisione arbitraria di civili. Qui la
coscienza collettiva dell’umanità ha raggiunto
un certo livello al di sotto del quale non osiamo regredire.
Nel dialogo etico-ermeneutico i partner cercano di
comprendere e apprezzare le storie di vita e i background
culturali di ciascuno, comprese le tradizioni culturali
e religiose (o spirituali), le espressioni letterarie
e artistiche e le sofferenze e aspirazioni esistenziali.
È in questo modo che
avviene in primo luogo l’apprendimento cross-culturale.
È a questo livello anche che si vede l’importanza
dell’insegnamento di Aristotele e di Alfarabi
sulle virtù e della pratica hegeliana della sittlichkeit.
Qui l’etica è orientata verso la «buona
vita» – non nel senso di un «dovere»
astratto ma come ricerca di un’aspirazione implicita
in tutte le forme di vita, sebbene capace di assumere
espressioni molto differenti in culture diverse. Poiché
l’etica a questo livello parla a motivazioni umane
più profonde, questa è davvero la dimensione
che con tutta probabilità plasma la condotta
umana nella direzione del riconoscimento etico reciproco
e della pace. Perciò c’è un
urgente bisogno nella nostra epoca di enfatizzare e
coltivare questo tipo di pedagogia etica. Su scala limitata,
in questo senso il dialogo cross-culturale è
già praticato oggi: ne sono un esempio il dialogo
tra fedi, il Parlamento delle Religioni del Mondo, il
World Public Forum, il World Social Forum, vari centri
per il «dialogo tra civiltà », i
programmi di scambio di studiosi e studenti, e così
via.
Ai tre tipi principali che ho menzionato finora potrei
aggiungere come quarta categoria quella del dialogo
antagonistico o della contestazione. Preferisco però
trattarlo come una sottocategoria del dialogo etico,
e ne spiegherò il motivo. Nella situazione antagonistica,
i partner cercano non solo di comprendere e apprezzare
le forme di vita dell’altro, ma anche di comunicarsi
a vicenda esperienze di sfruttamento e persecuzione,
ovvero motivi di malcontento che hanno a che fare con
ingiustizie e sofferenze
passate e persistenti. A una migliore comprensione,
il dialogo antagonistico
aggiunge la dimensione di una possibile ricompensa e
rettifica dei motivi di malcontento.
Eppure la ricompensa non implica necessariamente il
desiderio di «mettersi
pari», di vendicarsi e possibilmente di ricambiare
l’ingiustizia con altra ingiustizia trasformando
gli oppressori in vittime.
Questa è la ragione per cui preferisco considerare
il caso antagonistico come una sottocategoria del dialogo
etico-ermeneutico. Situati in questo contesto, il confronto
e la contestazione non sono dei fini in se stessi ma
vengono messi al servizio della riconciliazione e del
risanamento etico.
Nella nostra epoca ci sono esempi importanti di un’ermeneutica
antagonistica di questo tipo. Mi riferisco alle grandi
commissioni di inchiesta istituite in varie parti del
mondo al termine di conflitti etnici e/o dittature:
le cosiddette commissioni «Verità e Giustizia»
o «Verità e Riconciliazione».
L’obiettivo di queste commissioni era sia di stabilire
un archivio di azioni criminali e ingiustizie passate
sia di promuovere un processo di risanamento sociale
che impedisse il ritorno della vittimizzazione. Alla
luce delle terribili forme di oppressione e ingiustizia
presenti nel mondo di oggi, si può solo sperare
che l’umanità un giorno avrà la
saggezza e il coraggio di istituire
una commissione «Verità e Riconciliazione»
globale incaricata sia di rivelare che di rettificare
gli abusi esistenti e di gettare le fondamenta per un
futuro globale più giusto e vivibile.
A questo punto, vorrei ricordare le parole del vescovo
Desmond Tutu che è stato presidente della Commissione
Verità e Riconciliazione in Sudafrica (questo
passo si trova nel suo libro God Has a Dream: A
Vision of Hope for Our Time): «Ho visto il
potere degli insegnamenti di Cristo quando ero presidente
della commissione Verità e Riconciliazione in
Sudafrica [...]. La
commissione diede a coloro che avevano perpetrato crimini
politici l’opportunità di fare appello
per l’amnistia dicendo la verità riguardo
le loro azioni e offrì loro anche un’opportunità
per chiedere perdono [...]. Mentre ascoltavamo i racconti
di atti veramente mostruosi di tortura e crudeltà,
sarebbe stato facile congedarli come mostri perché
le loro azioni erano davvero mostruose. Ma ci viene
ricordato che l’amore di Dio non esclude nessuno».
Il vescovo Tutu parlava in qualità di ministro
cristiano. Ma la dichiarazione poteva essere stata scritta
anche da un musulmano – qualsiasi musulmano che
ricordasse i versi di apertura di ogni capitolo del
Corano: «Nel nome di Allah, il compassionevole
e misericordioso».
Lasciatemi concludere con alcune parole sul dialogo
interculturale come antidoto agli scontri di civiltà
e alle guerre del terrore.
A quanto mi sembra, oggi nel mondo si parla in maniera
estremamente eccessiva di «guerra» e di
«missione», e c’è un enorme
deficit di civiltà o di dialogo interculturale
o «dialogo di civiltà».
All’inizio dell’agosto 2004 lo scrittore
Salman Rushdie parlò a una conferenza internazionale
organizzata da Pen a New York. Non difenderò
tutto quello che Rushdie ha fatto, ma quello che disse
in quell’incontro
coglieva perfettamente l’obiettivo.
«Vorrei iniziare dicendo che credo che nessuno
di noi si illuda riguardo il terrorismo. Il terrorismo
esiste. Lo sappiamo. Sappiamo quando ha colpito, cosa
ha fatto, cosa cerca di fare. Sappiamo che esiste e
che va combattuto. Credo che nessuno lo metterebbe in
dubbio, ma secondo me il modo in cui lo combattiamo
sarà il grande test di civiltà della nostra
epoca. Diventeremo
come i nostri nemici o no? Diventeremo intolleranti
come lo è il nostro nemico? O no? Combatteremo
con armi diverse, le armi dell’apertura e dell’accettazione,
e cercando di far crescere il dialogo tra popoli anziché
sminuirlo? È un esame importante [...]. Negli
ultimi mesi, a molti di noi, a Pen, è sembrato
che non lo stiamo superando granché bene».
Oggi è questo l’esame più importante.
Per come la vedo io, il grande punto in discussione
è se riusciamo a sviluppare un contrappeso alla
cultura dominante della violenza, del terrorismo e dell’antiterrorismo.
Possiamo sviluppare una politica che miri al welfare,
al benessere o all’eudaimonia dei popoli
di questo mondo invece di una mera politica di dominazione
e guerra?
Possiamo sviluppare una politica che promuova il bene
nelle persone ovunque anziché controllare o sradicare
semplicemente i mali percepiti? Possiamo avere una civiltà
globale, anziché una guerra civile globale?
Una «città virtuosa globale» nel
senso di Alfarabi, anziché una politica globale
dominata dai signori della guerra dotati di armi in
grado di annullare più volte il mondo?
Traduzione di Martina Toti
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