302 - 07.07.06


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Per una fenomenologia dell’intercultura

Fred R. Dallmayr



Tratto da Reset

Viviamo in un’epoca in cui gli scontri tra culture o gli «scontri di civiltà» (per usare l’espressione di Samuel Huntington) appaiono incombenti e, indubbiamente, viviamo in un’epoca di «guerre del terrore» che comportano il continuo alternarsi di terrore e antiterrore. Ciò significa che viviamo anche in un’epoca di politica di potenza su scala globale. La potenza sembra essere l’unica «moneta» riconosciuta nel mondo e la politica tende a essere identificata con la politica di potenza.

Inutile dire che si tratta di una ricetta per scontri di civiltà e guerre del terrore. Ma «politica» e politica di potenza sono davvero la stessa cosa? Non c’è nient’altro nella politica? La tradizione non ci insegna un’altra politica? Aristotele la definiva come l’impegno per la giustizia e la «buona vita».
Alfarabi scrisse di una «città virtuosa». E come troviamo la giustizia e la città
virtuosa? Non con la potenza, ma con la saggezza e la comprensione – e la comprensione dipende dall’ascolto e dal dialogo.

Il mio scopo è duplice. Innanzitutto vorrei discutere dell’idea del dialogo interculturale, e lo farò evidenziando forme diverse di interazione dialogica. In secondo luogo, vorrei esaminare alcune implicazioni del dialogo come strumento contro gli scontri di civiltà. Di certo, non tutti i rapporti tra società e culture sono dialogici o comunicativi.
Come minimo, il dialogo richiede una certa reciprocità o un vicendevole scambio di idee. Verosimilmente i rapporti interculturali possono essere organizzati lungo uno spettro ampio che va dal monologo assoluto al dialogo genuino, dall’unilateralismo radicale al multilateralismo compiuto (o forse cosmopolitismo). In uno dei miei scritti, intitolato Beyond Orientalism: Essays on Cross-Cultural Encounter, ho esaminato questo spettro ponendo particolare attenzione al lato «monologico» di questa scala dove si possono trovare importanti esempi di non-reciprocità come conquiste militari, conversioni forzate e indottrinamento ideologico.

Non mi soffermerò qui su queste modalità unilaterali di relazione interculturale. Vorrei piuttosto concentrare la mia attenzione sull’aspetto
dialogico delle interazioni. In questa sezione dello spettro si possono distinguere tre diverse possibilità, o forse tre e mezzo.

Partirò da un saggio del sociologo tedesco Jürgen Habermas intitolato «On the Pragmatic, the Ethical, and the Moral Employments of Practical Reason» (che è il capitolo di apertura del suo libro Justification and Application). Nel suo saggio, Habermas distingue tre diversi usi o impieghi della «ragione pratica» ovvero di una ragione volta all’interazione pratica: gli usi pragmatici, etici e morali. La prima tipologia deriva dall’utilitarismo e trova espressione nel confronto tra – e nella possibile accumulazione di – interessi individuali. Il secondo tipo («etico») trae la propria ispirazione dall’etica aristotelica filtrata attraverso la filosofia dialettica di Hegel. Questi pensatori che enfatizzano l’uso «etico» – nota Habermas – fanno propria «l’eredità
hegeliana nella forma di un’etica del bene aristotelica» abbandonando allo stesso tempo «l’universalismo della legge naturale razionale». Infine, il terzo tipo («morale ») opera «in uno spirito kantiano» e accentua «le inevitabili presupposizioni» di argomentazione e la necessaria «imparzialità» di chiunque giudichi da un «punto di vista morale».

Per Habermas, che adotta una posizione razionalista, il terzo tipo è «radicato nella struttura comunicativa del discorso razionale in quanto tale».
La sua stessa teoria morale, definita «etica del discorso», – secondo la sua opinione – «si impone intuitivamente a chiunque sia aperto a questa forma riflessiva di azione comunicativa». In questa maniera, l’etica del discorso «si colloca direttamente nella tradizione kantiana».

Fin qui la mia sintesi della spiegazione habermasiana. In quanto segue farò mio in parte, ma modificherò anche significativamente, questo schema tripartito con l’obiettivo di esplorare differenti forme o modalità di dialogo interculturale. Il mio fondamentale allontanamento da Habermas dipende dalla sua rappresentazione dell’uso «etico» della ragione. A quanto mi sembra, la sua interpretazione implica una lettura radicalmente erronea sia di Aristotele che di Hegel (e si potrebbe includere Alfarabi).

Cosa più importante, l’etica in senso aristotelico e hegeliano è ridotta da Habermas a una serie di costumi prevalenti o pratiche situate puramente empiricodescrittive – una lettura che bypassa completamente o ignora la qualità del «dovere» intrinseca alla nozione aristotelica di virtù e all’impegno hegeliano per la sittlichkeit.
Tralascio i problemi presenti in questa lettura.

Adattando, ma anche modificando lo schema habermasiano, distinguo fra tre
tipi principali di dialogo interculturale, o forse tre e mezzo. Elencherò innanzitutto le differenti modalità per poi commentare brevemente ciascuna di esse. Le tre forme basilari sono: 1) comunicazione pragmatico-strategica; 2) discorso morale-universale; 3) dialogo etico-ermeneutico.
A queste si può aggiungere un quarto tipo – ma preferisco trattarlo come una sottocategoria della terza forma: dialogo antagonistico o contestazione.

Nella comunicazione pragmatico-strategica ogni partner cerca di portare avanti i propri interessi in una negoziazione con gli interessi delle altre parti. Finché si può descrive tale comunicazione come un «dialogo », quest’ultimo prende perlopiù la forma di una contrattazione reciproca che a volte implica la manipolazione e persino l’inganno. Questo tipo di scambio comunicativo
è ben noto nelle relazioni internazionali o intersociali e costituisce il centro
focale delle cosiddette scuole «realiste» e «neo-realiste» di politica internazionale.

Importanti esempi di una comunicazione di questo genere sono i negoziati commerciali, quelli sul riscaldamento globale e sugli standard ecologici, quelli sul disarmo, gli accordi su dispute di confine, i negoziati di pace, e così via. Gran parte della diplomazia tradizionale è condotta infatti lungo questa direttrice.
Nel discorso morale-universale i partner cercano il consenso su regole e norme di comportamento fondamentali vincolanti per tutti i partner, potenzialmente a livello globale. In questo campo, conservano la loro importanza i lasciti della legge naturale moderna e della filosofia morale kantiana. Regole fondamentali di valore (potenzialmente) universale sono quelle del diritto internazionale moderno; le norme internazionali riguardo la guerra, i crimini di guerra e quelli contro l’umanità, le convenzioni di Ginevra, la dichiarazione niversale dei diritti umani e altre ancora. Non c’è bisogno di essere un kantiano in senso stretto per riconoscere l’importanza
e persino il carattere «categoricamente » vincolante di queste norme (che
sono state accettate dalla grande maggioranza dei governi e approvate dalla vasta maggioranza dell’umanità).

Di sicuro, non è il momento di sminuire o alterare la qualità ingiuntiva delle normative internazionali. Perciò le regole delle convenzioni di Ginevra sono vincolanti, non importa quale terminologia i singoli governi scelgano di adottare. Allo stesso modo, dare inizio a una guerra senza essere stati provocati è un crimine contro l’umanità come lo è anche l’uccisione arbitraria di civili. Qui la coscienza collettiva dell’umanità ha raggiunto un certo livello al di sotto del quale non osiamo regredire.

Nel dialogo etico-ermeneutico i partner cercano di comprendere e apprezzare le storie di vita e i background culturali di ciascuno, comprese le tradizioni culturali e religiose (o spirituali), le espressioni letterarie e artistiche e le sofferenze e aspirazioni esistenziali. È in questo modo che
avviene in primo luogo l’apprendimento cross-culturale. È a questo livello anche che si vede l’importanza dell’insegnamento di Aristotele e di Alfarabi sulle virtù e della pratica hegeliana della sittlichkeit.

Qui l’etica è orientata verso la «buona vita» – non nel senso di un «dovere» astratto ma come ricerca di un’aspirazione implicita in tutte le forme di vita, sebbene capace di assumere espressioni molto differenti in culture diverse. Poiché l’etica a questo livello parla a motivazioni umane più profonde, questa è davvero la dimensione che con tutta probabilità plasma la condotta umana nella direzione del riconoscimento etico reciproco e della pace. Perciò c’è un
urgente bisogno nella nostra epoca di enfatizzare e coltivare questo tipo di pedagogia etica. Su scala limitata, in questo senso il dialogo cross-culturale è già praticato oggi: ne sono un esempio il dialogo tra fedi, il Parlamento delle Religioni del Mondo, il World Public Forum, il World Social Forum, vari centri per il «dialogo tra civiltà », i programmi di scambio di studiosi e studenti, e così via.

Ai tre tipi principali che ho menzionato finora potrei aggiungere come quarta categoria quella del dialogo antagonistico o della contestazione. Preferisco però trattarlo come una sottocategoria del dialogo etico, e ne spiegherò il motivo. Nella situazione antagonistica, i partner cercano non solo di comprendere e apprezzare le forme di vita dell’altro, ma anche di comunicarsi a vicenda esperienze di sfruttamento e persecuzione, ovvero motivi di malcontento che hanno a che fare con ingiustizie e sofferenze
passate e persistenti. A una migliore comprensione, il dialogo antagonistico
aggiunge la dimensione di una possibile ricompensa e rettifica dei motivi di malcontento.

Eppure la ricompensa non implica necessariamente il desiderio di «mettersi
pari», di vendicarsi e possibilmente di ricambiare l’ingiustizia con altra ingiustizia trasformando gli oppressori in vittime.
Questa è la ragione per cui preferisco considerare il caso antagonistico come una sottocategoria del dialogo etico-ermeneutico. Situati in questo contesto, il confronto e la contestazione non sono dei fini in se stessi ma vengono messi al servizio della riconciliazione e del risanamento etico.

Nella nostra epoca ci sono esempi importanti di un’ermeneutica antagonistica di questo tipo. Mi riferisco alle grandi commissioni di inchiesta istituite in varie parti del mondo al termine di conflitti etnici e/o dittature: le cosiddette commissioni «Verità e Giustizia» o «Verità e Riconciliazione».
L’obiettivo di queste commissioni era sia di stabilire un archivio di azioni criminali e ingiustizie passate sia di promuovere un processo di risanamento sociale che impedisse il ritorno della vittimizzazione. Alla luce delle terribili forme di oppressione e ingiustizia presenti nel mondo di oggi, si può solo sperare che l’umanità un giorno avrà la saggezza e il coraggio di istituire
una commissione «Verità e Riconciliazione» globale incaricata sia di rivelare che di rettificare gli abusi esistenti e di gettare le fondamenta per un futuro globale più giusto e vivibile.

A questo punto, vorrei ricordare le parole del vescovo Desmond Tutu che è stato presidente della Commissione Verità e Riconciliazione in Sudafrica (questo passo si trova nel suo libro God Has a Dream: A Vision of Hope for Our Time): «Ho visto il potere degli insegnamenti di Cristo quando ero presidente della commissione Verità e Riconciliazione in Sudafrica [...]. La
commissione diede a coloro che avevano perpetrato crimini politici l’opportunità di fare appello per l’amnistia dicendo la verità riguardo le loro azioni e offrì loro anche un’opportunità per chiedere perdono [...]. Mentre ascoltavamo i racconti di atti veramente mostruosi di tortura e crudeltà, sarebbe stato facile congedarli come mostri perché le loro azioni erano davvero mostruose. Ma ci viene ricordato che l’amore di Dio non esclude nessuno». Il vescovo Tutu parlava in qualità di ministro cristiano. Ma la dichiarazione poteva essere stata scritta anche da un musulmano – qualsiasi musulmano che ricordasse i versi di apertura di ogni capitolo del Corano: «Nel nome di Allah, il compassionevole e misericordioso».

Lasciatemi concludere con alcune parole sul dialogo interculturale come antidoto agli scontri di civiltà e alle guerre del terrore.
A quanto mi sembra, oggi nel mondo si parla in maniera estremamente eccessiva di «guerra» e di «missione», e c’è un enorme deficit di civiltà o di dialogo interculturale o «dialogo di civiltà».
All’inizio dell’agosto 2004 lo scrittore Salman Rushdie parlò a una conferenza internazionale organizzata da Pen a New York. Non difenderò tutto quello che Rushdie ha fatto, ma quello che disse in quell’incontro
coglieva perfettamente l’obiettivo.
«Vorrei iniziare dicendo che credo che nessuno di noi si illuda riguardo il terrorismo. Il terrorismo esiste. Lo sappiamo. Sappiamo quando ha colpito, cosa ha fatto, cosa cerca di fare. Sappiamo che esiste e che va combattuto. Credo che nessuno lo metterebbe in dubbio, ma secondo me il modo in cui lo combattiamo sarà il grande test di civiltà della nostra epoca. Diventeremo
come i nostri nemici o no? Diventeremo intolleranti come lo è il nostro nemico? O no? Combatteremo con armi diverse, le armi dell’apertura e dell’accettazione, e cercando di far crescere il dialogo tra popoli anziché sminuirlo? È un esame importante [...]. Negli ultimi mesi, a molti di noi, a Pen, è sembrato che non lo stiamo superando granché bene».

Oggi è questo l’esame più importante. Per come la vedo io, il grande punto in discussione è se riusciamo a sviluppare un contrappeso alla cultura dominante della violenza, del terrorismo e dell’antiterrorismo.
Possiamo sviluppare una politica che miri al welfare, al benessere o all’eudaimonia dei popoli di questo mondo invece di una mera politica di dominazione e guerra?
Possiamo sviluppare una politica che promuova il bene nelle persone ovunque anziché controllare o sradicare semplicemente i mali percepiti? Possiamo avere una civiltà globale, anziché una guerra civile globale?
Una «città virtuosa globale» nel senso di Alfarabi, anziché una politica globale dominata dai signori della guerra dotati di armi in grado di annullare più volte il mondo?

Traduzione di Martina Toti

 

 


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